25 aprile: Resistenza è anche opporsi alla censura

Antonio Scurati è un giornalista, approdato al grande successo come scrittore grazie alla trilogia M. (con un quarto titolo in preparazione) nella quale racconta l’ascesa di Mussolini e le vita degli Italiani durante il periodo fascista.

Sabato scorso Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere un suo monologo sul 25 aprile durante la trasmissione “Che sarà” in onda su rai 3, ma dalla dirigenza RAI è arrivato lo stop: il monologo non può andare in onda. Nell’immediato le ragioni non sono state rese note, ma è difficile non pensare che un testo nel quale si constatava la mancanza di antifascismo della Presidente del Consiglio e di molti dei membri del suo Governo non fosse gradito sulla TV di Stato.

Attenzione, perché i regimi giustificano sempre le loro azioni ammantandole di giustificazioni apparentemente logiche e di ideali a loro parere alti: difendiamo la nostra cultura, la nostra “razza”, le nostre tradizioni, il nostro stile di vita.
Di fronte all’ondata di polemiche la motivazione addotta è stata il compenso richiesto da Scurati per il suo intervento: 1.800 euro. Motivazione che evidentemente è apparsa più che adeguata a convincere “l’uomo della strada”: non si sprecano i soldi pubblici, perbacco! (A meno che non si tratti di bruciare miliardi per mandare armi in Ucraina e contribuire a causarne la totale distruzione).

Avete mai sentito parlare dell’effetto Streisand? E’ il fenomeno che si verifica quando il tentativo di nascondere una notizia la fa diventare virale e ne causa una diffusione enorme e incontrollata. Prende il nome da un episodio avvenuto nel 2003 quando un video pubblicato su Youtube per evidenziare l’erosione della costa californiana mostrò, tra le altre, la villa della cantante e attrice Barbra Streisand. In pochi se ne sarebbero accorti se la Streisand, ritenendo violata la sua privacy, non avesse chiesto la rimozione del video. Risultato: il video rimase online, e da quel momento ottenne centinaia di migliaia di visualizzazioni.

La Meloni afferma che il suo Governo sceglie i dirigenti in base alle loro capacità e non per “amichettismo”. Sarà anche vero, ma evidentemente la dirigenza RAI non conosce i meccanismi dell’informazione: la censura contro Scurati, oltre a costituire una chiara conferma delle sue accuse di vicinanza del Governo alle idee fasciste, ha causato la diffusione del testo del monologo su tutti i social, in tutta la rete, spingendo la conduttrice della trasmissione, Serena Bortone, a leggerlo in diretta sfidando la censura.
E a quel punto persino la Meloni, nel tentativo disperato di metterci una toppa, ha deciso di pubblicare il testo incriminato, provando a rimediare al disastro continuando però a sostenere l’assurda tesi del compenso eccessivo (pur affermando di non conoscere le vere ragioni veto alla messa in onda) e ricorrendo ai consueti toni vittimistici ed aggressivi,

In fondo all’articolo pubblichiamo anche noi il testo censurato, ritenendo la ribellione alla censura di Stato una doverosa forma di resistenza. Perché se è vero che c’è più il passo dell’oca e i balilla, è altrettanto vero che le idee fasciste sono assolutamente vive e si manifestano in modo più subdolo: magari facendo la faccetta buffa per mettere a tacere chi contesta, in modo da troncare sul nascere la discussione ed evitare di entrare nel merito.

Prima però pubblichiamo la replica di Scurati alla Meloni, che nel tentativo di mostrare la sua apertura al dialogo ha finito per aggredire ulteriormente lo scrittore.

Gentile Presidente, leggo sue affermazioni che mi riguardano. Lei stessa dice di non sapere quali siano le vere ragioni della cancellazione del mio intervento in Rai. Bene, la informo che quanto lei incautamente afferma – pur ignorando per sua stessa ammissione la verità – è totalmente falso, sia per ciò che concerne il compenso, che per che riguarda l’entità dell’impegno. Non credo di meritare questa ulteriore aggressione diffamatoria. Io non ho polemizzato con nessuno né prima né dopo. Sono stato trascinato per i capelli in questa vicenda. Ho solo accolto l’invito di un programma della tv pubblica a scrivere un monologo ad un prezzo consensualmente pattuito con la stessa azienda, dall’agenzia che mi rappresenta e perfettamente in linea con quello degli scrittori che mi hanno preceduto. La decisione di cancellare il mio intervento è evidentemente dovuta a motivazioni editoriali, così come dichiarato esplicitamente in un documento aziendale, adesso pubblico. Il mio pensiero su fascismo e post fascismo ben radicato nei fatti doveva essere silenziato, continua ad esserlo ora che si sposta la discussione sulla questione pretestuosa del compenso. Pur di confondere le acque, un capo di governo, usando tutto il suo potere non esista ad attaccare un cittadino e scrittore. Questa presidente è una violenza, non fisica certo, ma pur sempre una violenza. È questo il prezzo da pagare oggi nella sua Italia?”

La Resistenza continua. E l’errore più grande, il regalo più grande che potremmo fare ai fascisti del XXI secolo, è convincerci che non ce ne sia più bisogno.


 

Il testo del monologo censurato:

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato.Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.

In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati”

Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così.

Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023). Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”.

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La dichiarazione di guerra è stata consegnata: ai poveri

La dichiarazione di guerra è stata consegnata nelle mani di alcuni milioni di italiani, quelli poveri, che si ostinano a esserlo e a rimanerlo, nonostante i proclami del clan famigliare al governo e le magnifiche sorti del Paese illustrate ogni sera dai cinegiornali Luce, un tempo detti Tg. Una sistematica opera di bonifica ai danni di una parte non esigua della popolazione, quella che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, quella che – anche lavorando – si ritrova ai confini della soglia di povertà, o addirittura sotto. Tolto il reddito di cittadinanza a un milione di famiglie (a 400.000 via sms), dopo una campagna stampa trasversale durata anni tesa a descrivere ogni meno abbiente del Paese come un bieco truffatore, le famiglie con un sussidio sono oggi 288 mila, ma il sussidio sono due carote e un pomodoro, e per averlo bisogna avere un Isee di tipo sahariano: 6.000 euro all’anno, che in una città come Milano, per dire, non ti bastano nemmeno per andare alla Caritas in tram.

Alcuni – fortunelli – hanno ricevuto da Yo soy Giorgia una carta alimentare, una moderna carta annonaria, da 382,5 euro all’anno (1,04 euro al giorno, non scialate). Insomma, chi non ce la faceva, o ce la faceva a malapena con grande fatica, è stato prima preso a ceffoni dai giornali (i famosi fannulloni sul divano) e poi direttamente affamato dal governo. Chi ha fatto i conti stima più o meno un risparmio di 4 miliardi per i tagli al reddito e un esborso di mezzo miliardo per il caritatevole obolo di un euro al giorno, che fa un risparmio secco di 3 miliardi e mezzo: non volendo prenderli dagli extraprofitti delle banche – sacrilegio! – li si prende dagli extrasfigati, componente sociale in continuo aumento.

Naturalmente finché c’è la salute c’è tutto, e se la salute non c’è, cazzi vostri. Se ti serve un esame urgente o una cura veloce e non puoi aspettare un anno, e non puoi pagarti una sanità privata (tipo quella che possiedono i giornali che sostengono vibratamente Yo soy Giorgia) che ti devo dire, pazienza, verremo al funerale. Alla sanità sono finiti 3 miliardi, che andranno quasi tutti in contratti del personale, e undici italiani su cento rinunciano a curarsi per mancanza di soldi.
Il grande vanto e ostentazione della famiglia (sur)reale di Chigi Palace per la valanga di soldi destinati agli anziani è tragicomico. Un po’ perché si sventolano soldi che già arrivavano, e un po’ perché la platea è composta da ultraottantenni non autosufficienti, gravissimi, con un Isee inferiore a 6.000 euro: meno di trentamila persone nel 2025 e meno di ventimila nel 2026 (la strategia è puntare sulle esequie, insomma).

Però, per fortuna, si aiutano le donne. Oddio, non esageriamo. Forse era una buona idea quella della decontribuzione (fino a 3.000 euro lordi) per le donne che lavorano, poi però ecco la sorpresa: vale solo per le donne che hanno tre figli (tre!) e che siano lavoratrici assunte regolarmente a tempo indeterminato, nell’ecosistema italiano, animali piuttosto rari. Se vuoi lo sconto sui contributi – ma solo per un anno – devi avere almeno due figli, se no, zero. È una variante dei fannulloni sul divano: solo che qui si consiglia di stare sul divano a figliare. Tra l’altro, se hai un bambino solo, ti paghi l’asilo, perché per avere un contributo, di figli devi averne almeno due, se no zero pure qui.

Questo è il contenuto della dichiarazione di guerra. Come andava di moda dire, c’è un aggressore e un aggredito, che nei cinegiornali della sera non si vede mai.

 

Articolo di Alessandro Robecchi sul Fatto Quotidiano del 7/2/2024




Si sblocca il bonus mamme. A chi spetta e in cosa consiste. E perché ci lascia perplessi.

Dopo vari intoppi nell’introduzione dello sgravio per le lavoratrici madri, in ultimo il mancato arrivo di una circolare Inps, ora il documento necessario è stato emanato.
L’ente previdenziale giovedì 1 febbraio ha pubblicato la circolare per rendere operativo il cosiddetto “bonus mamme” previsto dalla legge di Bilancio, che in via sperimentale per il 2024 prevede l’esonero contributivo fino a 3mila euro per le lavoratrici madri di due figli fino al decimo anno del più piccolo. Il ritardo nell’emanazione è stato provocato dalla necessità di alcune verifiche sulla base della normativa sulla privacy, per quanto riguarda l’opportunità di valutare un rapporto più diretto con le aziende accedendo ai codici fiscali dei dipendenti.

Dopo l’approfondimento sulla gestione del trattamento dei dati e un confronto con il Ministero del Lavoro, l’istituto ha quindi lavorato per la sburocratizzazione delle procedure: per agevolare l’accesso alla misura, si legge nella circolare, le lavoratrici assunte a tempo indeterminato possono comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersi dell’esonero in argomento, rendendo noti al medesimo datore di lavoro il numero dei figli e i codici fiscali di due o tre figli. Con la comunicazione dei dati dal datore di lavoro all’INPS e i successivi controlli scatterà l’erogazione del bonus. La lavoratrice può anche comunicare direttamente all’Istituto le informazioni relative ai codici fiscali dei figli.

Il bonus era previsto già dal 1 gennaio, sebbene la norma sia stata approvata il 30 dicembre. A gennaio dunque le lavoratrici non hanno ricevuto in busta paga l’importo relativo, che arriva a un massimo di 250 euro al mese. Chi ne aveva diritto già dal primo mese dell’anno recupererà l’importo dovuto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

IN COSA CONSISTE IL BONUS?

Tra le misure dedicate alla famiglia stanziate dal governo per il 2024 c’è anche il cosiddetto “bonus mamme“. Si tratta, più correttamente, di uno sconto totale – fino a 3mila euro annui – sui contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dal secondo figlio in poi.

Il bonus mamme rappresenta una decontribuzione del 9,19% dello stipendio complessivo, corrispondente alla quota di contributi che la madre lavoratrice dovrebbe pagare per il contributo IVS nel settore privato e il contributo FAP nel settore pubblico.

Lo sconto viene riconosciuto alle mamme lavoratrici con almeno due figli, che sono dipendenti pubbliche o private e che sono titolari di contratto a tempo indeterminato (anche part-time).

Dal bonus sono così escluse le madri di un solo figlio (anche se disabile), le lavoratrici domestiche, le pensionate, le lavoratrici a tempo determinato, le libere professioniste, le disoccupate e anche le collaboratrici occasionali.

La durata del beneficio varia in base al numero di figli e alla loro età: per le madri con due figli, l’agevolazione spetta fino al compimento dei 10 anni da parte del figlio più piccolo e solo per il periodo di paga dall’1 gennaio al 31 dicembre 2024.

Per le mamme con tre o più figli, invece, il beneficio vale dal 2024 al 2026 fino a quando il figlio più piccolo raggiunge i 18 anni.

Si ricorda, infine, che tra le altre misure in sostegno della famiglia per il 2024 ci sono anche il mese di congedo parentale retribuito all’80% per i genitori e un ulteriore mese utilizzabile dalla madre o dal padre entro i 6 anni di vita del figlio, retribuito al 60%. È stato inoltre incrementato il fondo per gli asili nido a 240 milioni di euro.

Fonte: tg24.sky.it


LE CRITICITÀ 

LA MANCANZA DI COPERTURE

Dare un sostegno economico alle famiglie è sicuramente una decisione positiva. Ma se, come ha detto la Meloni, lo Stato paga i contributi previdenziali alle mamme per premiare il loro “importante contributo alla società”, questo vuol dire andare ad accollare ulteriori debiti all’INPS, che finiremo per pagare tutti sotto forma di tagli alle pensioni o aumenti dell’età pensionabile.

Se si vuole dare un sostegno alle famiglie bisogna prendere i soldi dove stanno: cioè nelle tasche degli evasori, che invece il governo corteggia in tutti i modi.

L’EFFETTIVA UTILITÀ DEL PROVVEDIMENTO

La domanda che dovremmo porci è se questo bonus porterà un aumento delle nascite. Anche se il governo rifiuta di ammetterlo, il motivo del calo demografico è da ricercarsi nella precarietà e negli stipendi bassi: come può una coppia pensare di avere un figlio se ha grosse difficoltà a mettere un pasto in tavola?

Il bonus sembra andare in direzione opposta rispetto a questi problemi.
Vale solo per le lavoratrici a tempo indeterminato, nonostante le più deboli sul mercato del lavoro siano ovviamente le precarie, e riguarda una piccola minoranza delle occupate che in Italia sono al momento oltre 10 milioni. Stando alla relazione tecnica della legge di Bilancio le dipendenti private stabili con tre o più figli sono solo 110 mila. Quelle con due figli di cui uno sotto i 10 anni sono 569 mila.
Le lavoratrici con redditi sotto i 35 mila euro, va ricordato, già godono dell’esonero parziale del cuneo fiscale previsto per tutti i dipendenti, e quindi beneficeranno solo in parte del bonus.

MOSSA ELETTORALE?

Lo sgravio è di un solo anno per chi ha due figli, tre anni per le mamme che ne hanno tre o più. Sicuramente una durata insufficiente a spingere una coppia a fare un figlio in più. Volendo pensare male, non possiamo fare a meno di notare che viene varato nell’anno in cui si svolgono le elezioni europee.




L’uomo dell’anno

L’edizione odierna di Libero si apre con un titolo a tutta pagina e la foto di Giorgia Meloni: per il 2023 è lei l’uomo dell’anno.

Può sembrare un titolo provocatorio: in realtà è assolutamente coerente ed allineato alla linea editoriale di quel giornale ed alla sua vocazione di megafono delle idee del centrodestra.

Per avere un Presidente del Consiglio donna abbiamo aspettato oltre 160 anni: dal 1861 al 2022. Quando finalmente questo è accaduto – ed è stato, a prescindere dal colore politico e dalle idee che porta avanti, un momento storico – abbiamo avuto a capo del governo una donna che ha preteso di essere chiamata “presidente”. Al maschile. Perché?

Non è un mistero per nessuno il percorso che ha portato alla fondazione di Fratelli d’Italia: la sua discendenza dal MSI, a sua volta erede del fascismo e delle sue idee. Idee mai rinnegate, come dimostra il simbolo del partito: la fiamma tricolore che idealmente nasce dalla tomba di Mussolini.

L’idea che quell’area politica ha delle donne non è mai cambiata molto. La donna ha un suo ruolo preciso: lei è “l’angelo del focolare”. Il suo compito è fornire figli alla Patria, educarli secondo la tradizione cristiana ed accudire l’uomo. Quello che deve mantenere lei e la famiglia con il suo lavoro. Qualsiasi altra attività distrae la donna dal suo “ruolo naturale”: Quindi la donna che studia o ha ambizioni di carriera viene distolta dalla sua funzione, e questo non va bene.
Sono questi per intenderci, i valori della nostra tradizione ai quali si rifanno continuamente i politici di destra. E nel caso aveste dubbi, leggetevi questo articolo apparso – guarda caso – sempre su Libero:

Togliete i libri alle donne: torneranno a fare figli

E’ passato qualche anno dalla pubblicazione dell’articolo, ma la linea editoriale non è cambiata di un millimetro. E l’autore dell’articolo, Camillo Langone, non ha smesso di scrivere. Attualmente lo fa per Il Giornale. Cioè la succursale di Libero.

E quindi ecco che la prima pagina scelta da Mario Sechi, desideroso di mostrare alla Premier (noi continuiamo a scriverlo al femminile) la sua fedeltà, improvvisamente appare tutt’altro che provocatorio.

Quale modo migliore per compiacere la prima donna a capo del governo in Italia, sapendo che anche lei è convinta nel suo intimo che il posto di una donna non sia quello (ovviamente lei esclusa), che assimilarla ad un uomo?

Sono tanti gli auguri che potremmo fare per il 2024. Scegliamo di augurare a tutti di vivere in un paese nel quale una donna non si debba vergognare della sua femminilità quando arriva a ricoprire un ruolo importante, e che gli uomini sappiano riconoscere a tutte le donne il pieno diritto ad esprimersi e realizzarsi.

 

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Qual è il modello ideale di donna al quale ispirarsi nel nostro Paese?

Prendendo spunto da quanto sostenuto con veemenza dalla Premier attualmente in carica, possiamo affermare che deve essere “madre, italiana e cristiana”. Come dire che la perfetta donna italica deve avere come scopo della sua esistenza il fornire figli alla patria ed educarli secondo valori cristiani. Il suo posto è questo, quindi stare un gradino sotto l’uomo diventa una logica conseguenza.
Non a caso Giorgia Meloni vuole che il suo ruolo sia declinato al maschile: “IL PRESIDENTE. Ritenendo evidentemente che indicarlo al femminile equivarrebbe a sminuirne la rilevanza.

Sono indicazioni implicite, ma abbastanza chiare di un modo di pensare che è assai più diffuso di quanto vogliamo ammettere.
Restiamo nel campo delle massime istituzioni. Ignazio La Russa, Presidente del Senato seconda carica dello Stato, di fronte all’accusa di stupro rivolta al figlio ha  come prima cosa fatto rilevare che “la ragazza aveva assunto cocaina”. Versione “senatoriale” del classico “se l’è andata a cercare”.
Vogliamo citare il “Se eviti di ubriacarti non trovi il lupo” dell’ex compagno della premier? E’ inutile nascondersi dietro un dito: ha dato voce a quello che in tantissimi, decisamente in troppi, pensano. L’uomo può ubriacarsi; la donna deve tenere comportamenti adeguati al suo stato di sottomissione, altrimenti si merita tutto ciò che arriva.

Ci vantiamo di essere una civiltà superiore. Eppure i nostri nonni sono vissuti in un’epoca in cui esisteva il delitto d’onore, abolito poco più di 40 anni fa. Come dire che uccidere una donna non era una bella cosa, ma se lei non sapeva stare al suo posto e se l’andava a cercare, non era poi così grave.
Andando appena un po’ più indietro, i nostri bisnonni consideravano giusto che le donne potessero fare solo determinati lavori, e percepissero stipendi inferiori agli uomini in virtù della loro “indiscutibile minore intelligenza”.
E noi stessi, la nostra generazione, siamo stati capaci di santificare un uomo come Berlusconi, che dell’umiliazione e della sottomissione della donna aveva fatto il suo manifesto. Volendo estrapolare una frase dal suo orrendo repertorio, quella che meglio ne descrive il pensiero fu quella pronunciata contro la richiesta di eutanasia per Eluana Englaro: “potrebbe ancora generare figli”.

Acqua passata? La realtà è che questo modo di pensare non ce lo siamo mai scrollato di dosso. Ed è facile trovarne esempi un po’ dappertutto. Ne citiamo uno tra i tanti possibili: Amadeus che al festival di Sanremo di 3 anni fa pensò di fare un complimento a Francesca Sofia Novello,  fidanzata di Valentino Rossi definendola “una donna che la la capacità di stare un passo indietro a un grande uomo”. Il posto della donna è quello: un passo indietro per non fare ombra.
Pensiamo alla notizia di questi giorni: il terribile omicidio della giovane studentessa Giulia Cecchettin. Su molti organi di stampa si coglie una certa bonomia nei confronti del suo assassino, che da più parti viene definito come “un bravo ragazzo”. Un bravo ragazzo che ha fatto una sciocchezza.

Come si fa per cambiare questa mentalità? Adesso il Paese è scosso dall’indignazione, in molti casi ipocrita, anche da parte di soggetti che hanno fatto di tutto per alimentare l’idea che la donna debba essere sottomessa.
E domani cosa succederà? Assisteremo all’ennesima “stretta”. All’ennesimo “inasprimento delle pene”. Alle ennesime dichiarazioni roboanti, infarcite di slogan privi di contenuto.

Insomma, ancora una volta faremo finta di cambiare tutto. E non cambierà niente.

 

(foto tratta dal film “La donna perfetta”)

 

 




Ipotesi prelievi Pos anche nei negozi: per la Fisac agevola il riciclaggio

“Porte aperte al riciclaggio di denaro, nonché un incentivo più che concreto al sistema bancario ad accelerare il processo di desertificazione e di abbandono di presidi del credito sul territorio”. Ad affermarlo è la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, nel commentare all’Adnkronos la norma in manovra che permetterebbe il prelievo contante con il Pos nei negozi.

Una misura, prosegue, “che andrebbe addirittura a ritoccare in peggio le norme antiriciclaggio, alzando la soglia per i controlli, e che va respinta con forza. Questa misura, infatti, rischia di minare in profondità l’impegno sul fronte della legalità e a contrasto di fenomeni quali l’evasione, il riciclaggio e la corruzione. Non solo: si rischia di aggirare un tema che come Fisac da sempre contrastiamo, ovvero la progressiva carenza di presidi del credito sul territorio. C’è, infatti, bisogno sui territori, soprattutto in quelle aree del paese con comuni di piccole dimensioni dove la desertificazione bancaria sta avanzando, di un tessuto finanziario solido a sostegno dello sviluppo economico e di contrasto all’illegalità”.

“Ci chiediamo ad esempio – continua la segretaria generale della Fisac Cgil – quale giacenza dovrebbe avere il piccolo commerciante per rispondere alle esigenze di quel territorio, perché potrebbe non bastare il solo incasso giornaliero, facendo sorgere con tutta probabilità problemi di sicurezza. In ogni caso riteniamo che tale misura non risponda né alle esigenze spicciole del cittadino in termini di prelievo del contante, né tantomeno a quel fenomeno di abbandono del sistema bancario di parti importanti del territorio, a partire dal sud, ma che passa per il centro Italia fino ad arrivare a interi territori del nord considerati, probabilmente, non profittevoli dal sistema bancario. Si dovrebbe, invece, ma non si fa, chiamare il sistema economico e finanziario tutto a svolgere anche un ruolo di supporto e sviluppo dell’economia dei territori”, conclude Esposito

 

Fonte: Comunicato Stampa Adnkronos


L’IPOTESI IN ESAME

Per i cittadini a breve potrebbe essere più facile avere del contante, prelevando direttamente col Pos in negozio: ritoccando le norme antiriciclaggio il governo punta a favorire «il convenzionamento di esercizi commerciali diffusi sul territorio (tabaccai, edicole, farmacie, supermercati e altri punti vendita della grande distribuzione organizzata») per cui si registra un «interesse» che viene però «ostacolato» appunto dalla normativa antiriciclaggio (i controlli scatteranno solo sopra i 250 euro). 

 

Fonte: La Stampa




Tassa sugli extraprofitti, alle banche la scelta se pagarla oppure no

La retromarcia del governo. L’escamotage: gli istituti potranno versare oppure stanziare una riserva nel proprio patrimonio


Un accordo nella maggioranza “svuota” la tassa sugli extraprofitti delle banche. Grazie un emendamento al decreto Asset che dovrebbe essere depositato nelle prossime ore, gli istituti di credito potranno scegliere se pagare al Fisco un’aliquota del 40% sulla differenza tra il margine di interesse realizzato nel bilancio 2023 (ancora da chiudere) rispetto al 2021, oppure se accantonare a bilancio due volte e mezza l’importo della tassa in una riserva che andrà a rafforzare il loro patrimonio.

Nessuno, nemmeno il governo, indica quale sarà la variazione dell’incasso per l’Erario, ma secondo alcuni sarà assai lontano dai 3,2 miliardi ipotizzati dalla vecchia norma.
L’8 agosto la tassa aveva fatto rumoreggiare i giornali (debitori delle banche). I titoli parlavano di “stangata” (copyright del Messaggero) o “autogol del governo” (Corriere della Sera). Si teorizzava la possibile fuga dai titoli di Stato italiani e altre catastrofi. Ma Meloni sembrava inflessibile: nell’appuntamento social “Gli appunti di Giorgia”, il 9 agosto la premier aveva attaccato il sistema bancario: “Stiamo registrando utili record. Abbiamo deciso di intervenire introducendo una tassazione del 40% sulla differenza ingiusta del margine di interesse. Le risorse che arriveranno andranno a finanziare misure a sostegno di famiglie e imprese in difficoltà per l’alto costo del denaro”. Poi Forza Italia aveva sollevato molti distinguo ed erano piovute critiche da Associazione bancaria (Abi) e Bce. Le azioni delle banche, dopo un primo tonfo, avevano però recuperato, segno che nemmeno la Borsa credeva in una mazzata.

Ora, in base alle ipotesi contenute nell’emendamento, proprio Corriere e Messaggero annunciano la retromarcia. L’aliquota resta al 40% ma solo sulla quota del margine di interessi 2023 che supererà di almeno il 10% quello del 2021. Il margine 2022 viene tolto dal conto. Da questo punto di vista, in apparenza, tutto bene: la tassa sarà pagata sulla base di quanto le banche hanno guadagnato in più rispetto a due anni fa. Dalla base di calcolo saranno esclusi i titoli di Stato, ma l’aliquota sarà alzata sulle altre voci di bilancio (i prestiti ai privati) per tenere invariata la base imponibile. Ma qui arriva l’escamotage: la tassa non è obbligatoria, le banche potranno pagarla o accantonarla a riserva. Sarà dovuta solo se la riserva in seguito dovesse essere distribuita agli azionisti. Ci sono poi altre possibilità: una banca potrebbe scegliere di dirottare a riserva per la tassa per gli extraprofitti parte dei fondi già stanziati in passato per altre voci, ad esempio gli utili non distribuiti, ammortizzando così il colpo. L’unico divieto è di trasferire la tassa sui costi per i clienti: vigilerà l’Antitrust. Il governo vuole usare i proventi per rifinanziare gli aiuti ai mutui prima casa, il taglio della pressione fiscale e il fondo di garanzia del Mediocredito Centrale sui prestiti alle Pmi.

L’emendamento favorirebbe soprattutto le banche medio-piccole, Popolari e istituti di credito cooperativo, e quelle come Mediolanum che fanno pochi prestiti ai privati, più colpite dalla versione precedente. Ora gli istituti hanno tre mesi per decidere se pagare o rafforzare i bilanci. Le riserve non mancano: a fine giugno, ad esempio, Banca Mediolanum (cara alla famiglia Berlusconi che ne possiede il 30%) ne aveva per 2 miliardi, UniCredit per 38,35. Valori in crescita grazie al boom del margine di interesse, la forbice che i rialzi del costo del denaro decisi dalla Bce hanno allargato tra gli incassi sui prestiti e i tassi, quasi nulli, pagati ai clienti. Mediolanum a fine 2022 aveva un margine d’interesse di 407 milioni (+50% sul 2021), UniCredit di 10,7 miliardi (9 l’anno prima). L’anno scorso le prime cinque banche italiane hanno incassato margini di interesse per 45,52 miliardi (+18,5%), a metà di quest’anno già per 40. Secondo il sindacato di settore Fabi, nel 2022, le banche italiane hanno realizzato utili per 25,4 miliardi (+55% sul 2021), quest’anno potrebbero salire a 32.

A frenare la decisione di versare a riserva la somma prevista dalla tassa sugli extraprofitti c’è solo la questione del pagamento dei dividendi. La banca meno impattata di tutte dalla tassa, UniCredit, pochi giorni fa aveva annunciato che quest’anno distribuirà agli azionisti “almeno 6,5 miliardi” su 7,25 di utili attesi. Ma altre potrebbero dover rivedere i loro piani. In ogni caso, del vessillo “tassa sugli extraprofitti” a Meloni restano da sventolare solo gli stracci.

 

Articolo di Nicola Borzi su Il Fatto Quotidiano del 24/9/2023




Trova il colpevole. Caro benzina, bassi salari, affitti e mutui: colpa dei migranti!

I sogni son desideri, cantava la Cenerentola di Walt Disney, ed è probabile che lo canti anche Giorgia Meloni, e poi ognuno ha i sogni che si merita e che si coltiva, ovvio. Così si suppone che nelle fantasie della presidentessa del Consiglio ci siano desideri intensi e frementi. Tipo questo: vai a fare benzina, la paghi sopra i 2 euro al litro, e mentre il contatore del distributore gira più veloce del tassametro di un taxi tu pensi: ah, maledetta Ue che non sgancia i soldi a un dittatore africano per fermare l’invasione di immigrati! Complotto!

Sogno un po’ improbabile, ma si sa, l’attività onirica non si controlla benissimo, è un po’ come Salvini, fa il cazzo che le pare. Un altro sogno è che uno va al supermercato e trova che tutto costa il dieci-quindici per cento in più dell’anno scorso. Quando trova qualcosa che costa uguale, sciambola!, si accorge che la confezione non è più da mezzo chilo, ma da trecentocinquanta grammi. Insomma, avrebbe tutti i motivi del mondo per sentirsi derubato, truffato, vilipeso, e allora pensa: ah, dannazione, la sostituzione etnica! Oppure: basta! Torniamo al sei in condotta!

Il trucchetto di Meloni con l’uso politico dei migranti è un po’ come la teoria del dolore prevalente: ti do un calcio nelle palle, così smetti di lamentarti per il mal di denti. Funziona per un quarto d’ora, e poi non funziona più, ti restano due dolori, anzi tre, se aggiungi la voce “mutuo/affitto”, anzi quattro, se aggiungi la voce “salario di merda”. Tutte cose di cui è piuttosto difficile accusare un disperato in ciabatte che sbarca a Lampedusa dopo tre anni di botte, fughe e torture.

In più, c’è l’ardita arrampicata sui vetri insaponati e l’ipercollaudata teoria fascio-vittimista del complotto. È la Ue che ci manda le barche di neri! No, peggio, è la Ue di concerto con il Pd! Dove quel che sorprende è la schizofrenia della narrazione, per cui il famoso Pd sarebbe ora un totale incapace imbelle in stato confusionale, e un attimo dopo, oplà, un diabolico tessitore di complotti pluto-demo-comunitari per mandarci qui il disperato di cui sopra. Disperato, tra l’altro, a cui non insegneremo l’italiano, né un mestiere, né i rudimenti della nostra gloriosa cultura nazionale, no. Lo metteremo per diciotto mesi in strutture realizzate dall’esercito “in località a bassissima densità abitativa facilmente perimetrabili e sorvegliabili” (in italiano: campi di concentramento), consegnandolo quindi alla marginalità perenne.

Il tutto mentre la legge-cardine su cui ancora oggi (2023) si basano le politiche italiane dell’immigrazione si chiama Bossi-Fini (2002), è cioè intitolata a due antichi leader in disuso, scritta più di vent’anni fa. È come tentare la conquista dello spazio con le macchine a vapore, o dire che l’intelligenza artificiale è regolata dalla legge Cavour-Giolitti. Ma nessuno ha mai voluto metterci mano seriamente perché, alla fine, tirare fuori dal cappello un’emergenza periodica e improvvisa serve a tutti. Il Minniti degli accordi con le tribù libiche non è diverso in nulla dalla Meloni che sbandiera “lo storico accordo” con la Tunisia, promettendo a un dittatore fondi che non dipendono da lei, insomma, esercitando la nobile arte del venditore di tappeti che i tappeti da vendere, però, non ce li ha. In tutto questo, a pagare di più sarà il disperato sbarcato dopo la sua odissea mediterranea, ieri carne per trafficanti, oggi buono per i giochetti politici di un governo che non ne azzecca una nemmeno per sbaglio.

 

Articolo di Alessandro Robecchi su “Il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2023




La ‘ndrangheta: “Col Pos abbiamo perso 1 milione di euro”

Ecco a chi giova l’innalzamento del tetto al contante


Al centrodestra di governo ossessionato dalla voglia di innalzare sino al cielo il tetto al contante, nella convinzione che questo non favorisca il crimine, andrebbero fatte leggere le intercettazioni dell’inchiesta “Eureka” di Reggio Calabria. Sono state diffuse l’altroieri con le ordinanze che hanno mandato in galera il gotha della ’ndrangheta specializzata nel narcotraffico internazionale.

Si ascoltano gli uomini del clan che contavano i soldi da dividersi, il “nero” realizzato nel ristorante di Ponte Milvio a Roma e nei cinque ristoranti in Portogallo, e si lamentano perché l’obbligo del pos aveva arrecato danni notevoli: “C’abbiamo perso un milione di euro”.

Scrive il gip: “I due si lamentano dei pagamenti effettuati tramite pos, circostanza che limita notevolmente il margine di manovra per distrarre somme dagli incassi della società”. È il 22 novembre 2021 quando Francesco Giorgi e Francesco Nirta “offrono ulteriori elementi in ordine alle divisioni mensili tra i soci del contante proveniente sia dal circuito dei ristoranti portoghesi, sia dalla gestione del ristorante romano; i due ripercorrono le spartizioni dei mesi precedenti, fino a giungere a quella più recente del mese di ottobre, mensilità durante la quale i quattro membri del gruppo hanno percepito una quota pro capite pari a 16.135 euro”.

Andrebbe ringraziato il pos, per aver contribuito a ridurre i proventi di una delle mafie più potenti del mondo. Un apparecchio che invece appare come un orribile nemico agli occhi di una parte della nostra classe dirigente, quella che al momento sta al governo, perché strozzerebbe di commissioni i piccoli commercianti a favore delle banche.
Prendiamo un Matteo Salvini di pochi mesi fa. Il 27 ottobre scorso il ministro delle Infrastrutture dichiara, sicuro: “Non c’entra nulla il pagamento in contanti con l’evasione fiscale o il riciclaggio tanto che, amici di sinistra un po’ distratti, ci sono nell’attuale Unione europea Austria, Cipro Estonia, Finlandia, Germania, la virtuosa Germania, l’Ungheria, la pericolosa Ungheria, Islanda, Irlanda Lussemburgo, Olanda, Polonia e il Regno Unito da fuori, che non hanno nessun limite di spesa in denaro contante”.
Sarà anche vero, ma la riflessione andrebbe tarata con l’assenza, in quei Paesi, di criminalità organizzate penetranti come la nostra. Del resto, Meloni & C. ne avevano fatto un punto di principio. Avevano anche provato a inserire in Finanziaria una norma per consentire agli esercenti di rifiutare il pos per pagamenti al di sotto dei 60 euro. Le pressioni dell’Ue hanno scongiurato la cosa. Ma l’innalzamento del tetto al contante da 2.000 a 5.000 euro con il nuovo anno è diventato legge dello Stato.
Una legge che Meloni aveva apparecchiato così a ottobre: “Non c’è nessun nesso tra i limiti all’utilizzo del contante e l’evasione fiscale, per questo il governo innalzerà il tetto attuale dei 2.000 euro che oltretutto penalizza i più poveri”. Citando, a sostegno della tesi, le parole di un ex ministro Pd dell’Economia: “Ci sono Paesi in cui il limite non c’è e l’evasione è bassissima, sono parole di Piercarlo Padoan ministro dei governi Renzi e Gentiloni”. Il giorno prima che parlasse Salvini.

 

Articolo di Vincenzo Iurillo sul Fatto Quotidiano del 5 maggio 2023




Fringe Benefit e mutui, Sindacati ed Abi scrivono a Meloni

Illustre Presidente, Illustri Ministri,

 

desideriamo portare alla Vostra attenzione la gravosa situazione che si sta verificando in capo alle lavoratrici/lavoratori in tema di tassazione dei prestiti erogati ai dipendenti a seguito degli innalzamenti del tasso ufficiale di riferimento (TUR) registrati negli ultimi mesi.

Molte lavoratrici/lavoratori che hanno in corso finanziamenti erogati dai datori di lavoro negli anni passati a tassi coerenti con il livello del tasso di riferimento vigente al momento della stipula (tassi estremamente ridotti) stanno oggi subendo un iniquo prelievo fiscale a seguito degli effetti che gli incrementi del TUR producono sull’applicazione dell’art. 51, comma 4, lett. b) del Tuir in tema di fringe benefit.
Ai fini della concorrenza al reddito di lavoro dipendente imponibile, la attuale disciplina contenuta nell’articolo in commento prevede che “in caso di concessione di prestiti si assume il 50% della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di sconto vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi”.

Ciò premesso, non si può fare a meno di considerare che le disposizioni del comma 4, dell’art. 51, nascono dall’esigenza di semplificare la quantificazione di alcuni dei benefit più diffusi (autoveicoli, prestiti, fabbricati), ma certamente non possono prescindere dalla preliminare valutazione che gli stessi comunque devono riguardare vantaggi assegnati “in relazione al rapporto di lavoro”.

L’attuale riferimento al confronto con il TUS (ora TUR) a fine anno è il risultato di una modifica, che dovrebbe avere natura agevolativa, introdotta in un periodo storico di tassi decrescenti, con mutui prevalentemente stipulati a tasso variabile. Era, quindi, un sistema a favore del dipendente. Il meccanismo vigente, invece, in una situazione di tassi crescenti si traduce in uno svantaggio.

In particolare, con riguardo ai finanziamenti a tasso fisso, in conseguenza del brusco e repentino rialzo dei tassi di riferimento registrato negli ultimi mesi, l’applicazione della norma in parola produce effetti del tutto impropri e distorsivi, comportando una tassazione di valori derivanti da fattori totalmente esogeni rispetto al momento della stipula del contratto – l’incremento del tasso unico di riferimento (TUR) – e che non rappresentano in alcun modo un effettivo benefit per il dipendente.

Questo perché la sua applicazione porta a qualificare come tale ai fini fiscali anche situazioni di totale assenza di un effettivo beneficio a favore dei dipendenti, considerato che le condizioni sui prestiti concessi a questi ultimi coincidono sostanzialmente, all’atto della stipula del contratto, con quelle offerte alla clientela.
La norma nell’attuale formulazione risulta priva dei requisiti di equità e ragionevolezza e incoerente con il generale principio di capacità contributiva, operando in assenza del relativo presupposto impositivo che ne costituisce la ratio (vantaggio assegnato in relazione ad un rapporto di lavoro).

In tale contesto, la disciplina vigente genera anche effetti di disparità di trattamento tra chi abbia contratto un mutuo con il proprio datore di lavoro (in capo a cui si genera un fringe benefit) e chi lo abbia fatto alle medesime condizioni, ma con una controparte diversa (in capo a cui non si genera materia imponibile).

Alla luce delle considerazioni esposte, chiediamo che da parte Vostra venga adottata quanto prima una soluzione che corregga l’iniqua situazione illustrata che si sta producendo in capo alle lavoratrici/lavoratori in termini di tassazione del reddito di lavoro dipendente ed eviti di determinare un incremento di prelievo fiscale in assenza di un corrispondente incremento della capacità contributiva, ristabilendo così l’equità fiscale.

Nel ringraziare per l’attenzione e nel restare a disposizione per ogni opportuno approfondimento, inviamo i migliori saluti.

 

I Segretari Generali

 

Lettera ABI-OSL finanziamenti fringe e benefit 27.04.23