Le tasse in Italia: progressive al contrario


Prelievo più alto per i redditi bassi: il sistema punisce il lavoro e premia le rendite


Secondo la Costituzione, chi guadagna di più dovrebbe pagare proporzionalmente più tasse. Ma l’articolo 53 della Carta (“Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) è ormai lettera morta. Lo mostra in modo spiazzante un recente studio, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of the European Economic Association: in Italia i super-ricchi pagano in proporzione meno tasse del resto dei loro concittadini.

L’analisi fa chiarezza nella giungla delle tasse del Belpaese (fra redditi da lavoro dipendente, autonomo, da capitale, eccetera) e ricostruisce l’“aliquota effettiva” pagata dagli italiani. Il risultato? “Il sistema fiscale italiano è solo blandamente progressivo per la maggior parte (della popolazione, ndr) e diventa regressivo per il 5% più ricco”.
Un esempio può aiutare a capire. Un super-manager che guadagna 520 mila euro l’anno fa parte dell’1% più ricco degli italiani. Ora prendiamo un connazionale precario, che guadagna 15 mila euro annui (rientrando nel 40% dei più poveri). Nonostante tutto, il precario pagherà proporzionalmente più tasse: il 42% del suo reddito, contro il 36% di tasse pagate dal super-manager. Gli autori dello studio (Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi e Andrea Roventini della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, insieme ad Alessandro Santoro dell’Università Bicocca di Milano) mostrano che i risultati rimangono simili anche tenendo conto dei contributi sociali, che non sono tasse vere e proprie ma che influenzano comunque il reddito disponibile.

Il perché di questo squilibrio è presto detto. Il nostro sistema tratta le varie tipologie di reddito in modo radicalmente diverso: in sintesi, il lavoro dipendente è più tassato del lavoro autonomo e molto più tassato del reddito da capitale. Per fare un esempio: un italiano che guadagna 46 mila euro annui pagherebbe circa il 54% di tasse sul reddito da lavoro dipendente, mentre solo il 34% sul reddito da capitale. È facile capire che un sistema del genere disincentiva il lavoro (altro che Reddito di cittadinanza…). A essere favoriti sono invece i profitti (nel migliore dei casi) e le rendite finanziarie e immobiliari (nel peggiore).

Con le crisi degli ultimi decenni, queste distorsioni hanno effetti perversi sulle disuguaglianze. Fra il 2004 e il 2015 il reddito nazionale in Italia è calato del 13%, ma il costo è stato più pesante per le classi popolari. Il 50% più povero, infatti, ha perso in media il 30% del reddito, mentre l’1% più ricco neppure il 3%. Ma i problemi non finiscono qui. Ad aver pagato di più le conseguenze della crisi sono stati giovani e donne. Nel 50% più povero, la fascia tra i 18 e i 35 anni ha visto quasi dimezzarsi il proprio reddito (-43%). E il divario di genere ha messo radici ancora più profonde in tutte le classi di reddito.

Ovviamente non è solo una questione di reddito. Gli ultimi dati della Banca d’Italia mostrano che il 5% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza del Paese (il 46%, per la precisione). Un circolo vizioso: è anche grazie a queste ricchezze concentrate in poche mani che i più abbienti guadagnano redditi molto più alti. Redditi che poi vengono tassati in modo light, aumentando ancor più le disuguaglianze…

Ma la patrimoniale e le tasse sugli extra-profitti restano ancora tabù.

Articolo di Alessandro Bonetti su “Il Fatto Quotidiano” del 13/1/2023

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