Il dovere di essere infelici


Una notizia pubblicata un paio di giorni fa ci spinge a considerazioni che vanno ben oltre il mondo del lavoro.

Il fatto da cui partiamo è la condanna per comportamento antisindacale della  “Betty Blue”, azienda appartenente al marchio di moda di Elisabetta Franchi.

Cos’è successo? È successo che alle operaie era stato imposto l’obbligo di 8 ore settimanali di straordinario. Ore retribuite, ma che comportavano un aumento dell’orario di lavoro di circa un’ora e mezzo al giorno. Le operaie hanno retto finché hanno potuto, poi hanno proclamato uno sciopero dello straordinario, limitandosi ad uscire dal lavoro all’orario contrattualmente previsto. Per questo motivo sono state punite dall’azienda.
La Filcams di Bologna ha impugnato i provvedimenti disciplinari davanti al Giudice del lavoro, che ha sanzionato l’azienda per comportamento antisindacale.

Fino a qualche tempo fa erano in tanti a non aver mai sentito nominare Elisabetta Franchi ed il suo marchio. Poi l’imprenditrice si è presa le luci della ribalta grazie alle sue dichiarazioni, peraltro rilasciate alla presenza di una distrattissima Ministra delle Pari Opportunità:

“Nella mia azienda ho spesso puntato sugli uomini”.
“Le donne le ho messe, ma sono “anta”, sono ragazze cresciute. Se dovevano far figli o sposarsi lo hanno già fatto e quindi io le prendo dopo tutti i giri di boa, sono al mio fianco e lavorano h24″.

Evitiamo di tornare sulle polemiche scatenate da queste dichiarazioni, sulle tardive giustificazioni della Franchi e della Ministra Elena Bonetti, o sulla presunta capacità  dell’imprenditrice di arrivare in alto partendo da zero, visto che la sua “agiografia” fa acqua da tutte le parti.

Vogliamo invece ragionare sul fatto che quello che ha detto la Franchi, in realtà, sono sempre più imprenditori a pensarlo. E preoccupa, davvero tanto, l’idea di “lavoro” che si sta affermando nel mondo cosiddetto civilizzato.

Il lavoratore deve produrre. E basta.
Non ha diritto a coltivare affetti. Non deve dedicare tempo ai figli, alla famiglia, agli amici. Meno che mai ha diritto a coltivare le sue passioni.
Voler stare vicini ai propri affetti è un segnale di scarso attaccamento al lavoro; una debolezza da nascondere, e della quale vergognarsi.
Chi lavora non ha diritto ad essere felice.

Di più: il lavoratore ha il dovere di essere infelice. La sua aspirazione alla felicità lo distrae dalla produzione, ed il dio PIL non glielo permette.

A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla felicità”. Questa frase è riportata nella Dichiarazione d’Indipendenza de Stati Uniti d’America: era il 1776, e per la prima volta veniva considerata un diritto la legittima aspirazione di ogni uomo ad una vita piena e gratificante.

La nostra  Costituzione, nell’Art. 3, parla di  “Pieno sviluppo della Persona umana” , stabilendo che la Repubblica deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”  che lo impediscono.
La Repubblica dovrebbe rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono ad una persona di essere felice.
E invece…

La Franchi ha detto apertamente ciò che in tanti pensano, che in molti fanno e che da troppi viene considerato normale.

Il lavoratore bravo è quello che non esce in orario, e che non pretende gli straordinari. Che non va in ferie, o che comunque ci va solo quando ci viene costretto. Che non si ammala, e se si ammala lavora lo stesso.
Il bravo lavoratore deve accettare qualsiasi mansione, qualsiasi stipendio. Di più: deve accettare anche l’assenza di stipendio, ringraziando perché impara.
Deve ringraziare per ogni rinnovo di contratto, anche se ha una durata brevissima e gli impedisce qualsiasi progetto per il futuro. Anzi, il lavoratore bravo i progetti per il futuro non li deve fare. Non si sposa, non fa figli. Non ha passioni che lo distraggano dal lavoro.
Il suo unico scopo è la produzione: dev’essere infelice e produttivo.

Nel settore bancario siamo ormai abituati a considerare l’infelicità una normale compagna di lavoro. Per motivi che forse un giorno capiremo ma oggi ci sfuggono, le banche si sono convinte che avere impiegati infelici sia il modo migliore per aumentare i ricavi, perciò fanno di tutto per seminare infelicità: quindi pressioni, intimidazioni, mortificazioni, demansionamenti, trasferimenti. E poi classifiche, per mortificare chi non è ai primi posti, messaggi di scherno giustificati con la “goliardia”. E una scientifica capacità di far sentire una specie dì nullità chi ha venduto meno di ciò che gli veniva richiesto,
Se lo scopo è rendere infelici gli impiegati, non potrebbero farlo meglio.

Se c’è una battaglia che oggi vale la pena di combattere è quella per recuperare il diritto alla felicità, alla propria realizzazione come individui. Che passa per il riconoscimento della nostra dignità di persone sul posto di lavoro. Il che equivale a dire ribaltare tutto ciò che sta avvenendo: retribuzioni eque, orari compatibili con la vita privata, possibilità di crescita personale e professionale.
Ricordando sempre che il lavoro è un mezzo, non un fine. E che ognuno di noi, attraverso il lavoro, ha il diritto di provare a conquistarsi un pezzetto di felicità.

Acquisire questa consapevolezza sarà la nuova sfida. La coscienza di classe del XXI secolo.

 

 

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