Dati sul lavoro: migliorano, ma non basta. Ecco perché


Più occupati, ma ancora poche le ore d’impiego.

A maggio 2019 il tasso di occupazione in Italia è arrivato al 59%, mai così alto da quando – 42 anni fa – l’Istat ha avviato le serie storiche. La disoccupazione, invece, si è fermata al 9,9%, tornando a una sola cifra come non accadeva dal febbraio del 2012. Sarebbero due ottime notizie se, come al solito, nei dettagli non si nascondesse il diavolo.

Il nostro mercato del lavoro, infatti, non ha ancora raggiunto lo stato di salute vissuto prima della crisi del 2008. Molti dei posti che abbiamo in questi anni recuperato sono solo part time, spesso involontari, e quindi non permettono di avere uno stipendio dignitoso. Insomma, rispetto a prima abbiamo oggi più persone occupate ma meno ore lavorate: ecco perché i record mostrati dall’istituto di statistica rischiano di innescare un entusiasmo esagerato.

La disoccupazione è in calo, il dato più basso dal 2012, mentre aumentano gli occupati, il dato massimo dal 1977”  ha scritto su Facebook il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. Dello stesso tenore il post dell’altro vicepremier, Matteo Salvini:  “Lavoratori italiani in crescita e ai massimi storici dal 1977”.
Ma davvero questo si può definire il più bel momento della nostra storia? Non proprio. In effetti, a maggio si contano 23 milioni e 384 mila occupati, il numero più alto di sempre su base mensile. Ma a fare la differenza sono le ore lavorate: su queste, il dato più aggiornato dell’Istat è del primo trimestre del 2019, ma è difficile che nel trimestre successivo si possano compiere passi da gigante.

Nel periodo gennaio-marzo 2019 il contatore segna 10 miliardi e 994 milioni di ore. Andando molti passi indietro, fino al primo trimestre del 2008, si scopre che in quel periodo le ore di attività sono state ben 11,5 miliardi. In pratica, allora c’erano grossomodo 300 mila occupati in meno ma oltre mezzo miliardo di ore lavorate in più. Il motivo è che, prima della recessione, i posti di lavoro si concentravano nell’industria, quindi erano più solidi. Ora invece sono stati travasati nei servizi, dove il ricorso ai contratti brevi è più frequente ed è facile restare povero pur avendo un’occupazione perché spesso questa tiene impegnati per poco.

Di positivo, comunque, c’è che dopo il calo della seconda metà del 2018, dovuto alla recessione “tecnica”, in questa prima parte del 2019 gli occupati sono tornati ad andare su. A maggio, rispetto ad aprile, l’aumento è stato di 67 mila unità. Sono cresciuti tutti i tipi di lavoratori: quelli autonomi sono 28 mila in più, i dipendenti a tempo indeterminato sono 27 mila in più e anche i precari sono saliti di 13 mila. Considerando invece il trimestre, è più facile notare l’effetto del decreto Dignità: tra marzo e maggio, rispetto ai novanta giorni precedenti, c’è stato un incremento di 96 mila posti permanenti e di soli 2 mila a termine.

A beneficiare dei buoni numeri, tuttavia, sono soprattutto i lavoratori più anziani, mentre per i giovani i miglioramenti sono molto più lenti. A maggio gli occupati over 50 sono aumentati di 88 mila in confronto ad aprile, mentre gli under 25 sono rimasti stabili e quelli compresi nella fascia tra 25 e 34 anni sono cresciuti di appena 12 mila. È una dinamica alla quale si assiste da molto tempo, soprattutto da quando nel 2012 è stata approvata la legge Fornero che ha posticipato l’età pensionabile. Con l’arrivo di Quota 100 – la prima finestra di uscita è stata quella di aprile – i più ottimisti pensavano si potesse da subito invertire la tendenza, con più giovani al lavoro e più anziani a riposo, ma i dati dicono che questo non sta ancora succedendo. Quanto invece agli inattivi, le persone che non hanno un lavoro e non lo cercano nemmeno sono rimaste stabili su base mensile e diminuite di 37 mila su base trimestrale. Nonostante a maggio quasi 500 mila famiglie abbiano ricevuto il reddito di cittadinanza, e non siano ancora stati convocati dai centri per l’impiego, almeno a giudicare dai macro-numeri questo non sembra aver ingrassato la compagine di chi preferisce restare sul divano.

 

Articolo di Roberto Rotunno sul Fatto Quotidiano del 2/7/2019

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