No, l’8 marzo non è la “FESTA DELLA DONNA”!

Davvero serve ancora spiegarlo? Dopo tutti questi anni? Davvero serve spiegare che l’8 marzo non è una festa e non è stato inventato per vendere i cioccolatini o per riempire le pizzerie?
Sembra assurdo. Eppure, siamo convinti che da stamattina i telefoni di tutte le donne si stiano riempendo di messaggi che dicono “Buona festa della donna”. E quindi sì, serve ancora spiegarlo. Spiegare che la “Giornata Internazionale della Donna” non è una festa. Che non c’è davvero niente da festeggiare. E che le persone che mandano gli auguri in quel modo non hanno ben chiaro il senso di questa giornata.

Facciamo un breve ripasso sulle origini di questa giornata.

PERCHE’ L’8 MARZO SI CELEBRA LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

PERCHE’ L’8 MARZO SI REGALANO LE MIMOSE?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

A COSA SERVE CELEBRARE LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Serve proprio a ricordare che non c’è nulla da festeggiare, e che per quanto ci illudiamo di aver fatto passi da giganti sulla via del progresso e della civiltà, continuano ad esistere due realtà diverse per gli uomini e per le donne.

Anche volendo limitare l’analisi al nostro Paese, i numeri sono chiarissimi:

  • In Italia lavora il 53% delle donne, contro il 70,6% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile). Le donne inattive (cioè quelle che non lavorano e non cercano lavoro) sono il 42,1% contro il 24,4% degli uomini. (1)
  • La retribuzione media delle donne è inferiore del 43% rispetto a quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini. (2)
  • Per quanto riguarda gli incarichi esecutivi, la situazione è pressoché immutata nel corso dell’ultimo decennio. Stando ad un’indagine svolta dalla rivista Forbes Italia, emerge una minoranza di donne nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato (dirigenti: 83% uomini, 17% donne; quadri: 69% uomini, 31% donne), mentre, se si guarda il dato del mercato nel suo complesso, la situazione risulta migliore (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).
    Nell’ambito del privato, le funzioni che contano più donne manager sono auditingcompliance e risk management (donne dirigenti: 2,2% e quadri 27,3%), legale (donne dirigenti: 1,8% e 11,8% quadri), area tecnica & ricerca e sviluppo (donne dirigenti: 0,9% e quadri 10,6%).
    E ancora risorse umane e organizzazione (donne dirigenti: 1,4% e 9,8% quadri), marketing e comunicazione (donne dirigenti: 1,1% e quadri 9,6%). Tra le società quotate, le ad rappresentano solo il 2% del totale (3,3% nel 2013) e soltanto il 3,8% di chi ricopre il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione (2,9% nel 2013). (2)

  • Una donna su cinque è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma. (3)
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. In 20 anni la differenza tra le pensioni medie delle donne e quelle degli uomini, in Italia, è cresciuta da € 3.900 a € 6.100 (4)
  • Sono 120 le donne uccise in Italia nel 2023. Nell’45% dei casi le donne vengono uccise da un familiare o da un parente. Per gli uomini questa percentuale scende al 3,7%. (5)
  • Oltre il 30% delle donne ha subito nel corso della sua vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che rappresentano la logica conseguenza di un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione. Un tema che avevamo affrontato in questo articolo:

A cosa servono le donne italiane?

Non c’è niente di male a sfruttare questa ricorrenza come occasione per una serata con le amiche. Ciò che conta è ricordare che l’8 marzo non è una festa, ma una giornata dedicata a riflettere su ciò che non possiamo continuare ad accettare e che tutti, uomini e donne, dobbiamo impegnarci a cambiare.

 

Fonti:
(1) ISTAT
(2) Forbes Italia
(3) Il Sole 24 Ore
(4) Econopoly – Il Sole 24 Ore
(5) Fanpage




Una donna coraggiosa contro un destino orrendo

Non era italiana.
Non era cristiana.
Ma era una donna. E soprattutto era una mamma.
Si chiamava Shadida Raza, aveva 29 anni e veniva dal Pakistan.

Non è facile per una donna vivere nel Pakistan. Non è facile vivere in un paese che vuole le donne sottomesse agli uomini, chiuse in casa a sfornare figli e accudirli. Una visione, peraltro, condivisa anche da orribili personaggi nel nostro Paese.

Una donna pakistana ha una sola possibilità: rassegnarsi a una vita anonima, annullarsi nell’ombra del suo uomo. Ma Shadida non aveva nessuna intenzione di rassegnarsi. Era riuscita ad emergere, a sfuggire al grigiore di una vita prestabilita da altri, e lo aveva fatto attraverso lo sport, diventando una campionessa di hockey e arrivando a giocare in nazionale. Shadida giocava anche a calcio nella squadra della sua città. Certo, era costretta a farlo indossando il velo e i pantaloni lunghi, ma questo non l’aveva fermata.

E nel frattempo Shadida non aveva rinunciato a prendere in mano la sua vita anche nella sfera privata, tanto da essere capace di divorziare in un paese in cui questa scelta significa, per una donna, porsi ai margini della società.

Una donna forte, con la quale il destino non è stato generoso. Shadida aveva un bambino di 3 anni, Hassan, con metà del corpo paralizzato per le conseguenze di un ictus.

Cosa farebbe una madre per un figlio malato? Shadida Raza ha fatto ciò che avrebbe fatto una mamma europea: ha girato tutti gli ospedali del suo paese, ma alla fine il verdetto è stato impietoso: in Pakistan non esistono strutture adeguate a curare Hassan, ma in Europa avrebbero potuto aiutarlo.

Per curare un figlio malato una madre farebbe qualsiasi sacrificio. Shadida ha scelto di rischiare tutto, imbarcandosi su una delle carrette del mare, cariche di disperati e dei loro sogni di vivere una vita appena dignitosa. Lo sapeva benissimo che quella su cui si stava imbarcando non era una nave da crociera. Sapeva benissimo di rischiare la vita ma, come ha raccontato la sorella Sadia, “L’unico sogno di Shahida era la cura del suo bambino disabile. Ha rischiato la sua stessa vita dopo che gli ospedali in Pakistan le hanno detto che l’assistenza medica all’estero poteva essere l’unica opzione».

Shadida è una delle oltre 70 persone inghiottite dal mare nel naufragio di Cutro del 26 febbraio. Decine di esseri umani, ognuno dei quali potrebbe raccontarci una storia sconvolgente, tale da portarli accettare il terribile azzardo di un viaggio che rappresentava una sfida con il fato, e che solo persone ciniche e crudeli potrebbero disprezzare, arrivando ad accusare di irresponsabilità chi ha perso tutto perché da perdere non aveva niente.

Era una donna coraggiosa, forte come un uomo”. Questo dice di lei la sorella Sadia. Parole del genere, se riferite ad una donna italiana, non rappresenterebbero un’affermazione particolarmente rilevante. Ma provate ad immaginare di pronunciarle in un paese nel quale l’inferiorità delle donne e la loro subalternità agli uomini sono fatti culturalmente accettati: ecco che dire “era forte come un uomo” diventa una frase rivoluzionaria.

Oggi è la Giornata Internazionale della Donna. Una giornata in cui nelle nostre case, nei nostri uffici, ci sarà spazio per mimose, cioccolatini e auguri. Ed è sicuramente una bella occasione per esprimere o ricevere affetto dalle persone che ci stanno accanto.

Ma se vogliamo attribuire a questa giornata il suo vero significato, dedichiamo almeno un pensiero ad Shadida, ed alle tante donne come lei che devono lottare e sono pronte a dare la vita per conquistare quella normalità della quale spesso non apprezziamo il valore.



Leggi
anche

https://fisacabruzzomolise.com/lavoro-e-societa/donne-che-hanno-cambiato-il-mondo-billie-jean-king

https:/fisacabruzzomolise.com/lavoro-e-societa/katherine-johnson-la-donna-che-ci-porto-sulla-luna

https://fisacabruzzomolise.com/lavoro-e-societa/l8-marzo-tra-leggende-e-realta

 

 




Donne che hanno cambiato il mondo: Billie Jean King

La “Festa della Donna” non esiste. Non è mai esistita.

Quella che si celebra l’8 marzo non è una festa ma la “Giornata Internazionale della Donna”. Non si tratta di voler essere pignoli sulle parole. Lo scopo della Giornata Internazionale della Donna è proprio ricordarci che non c’è nulla da festeggiare.

Siamo nel 2022 ma ancora oggi, praticamente in tutto il mondo, le donne sono in una condizione d’inferiorità rispetto agli uomini. Nel nostro Paese possiamo avere l’impressione di essere più avanti rispetto ad altre aree del mondo, e questo è vero se guardiamo a nazioni dove, per ragioni religiose o nel rispetto di assurde tradizioni, il valore delle donne è assimilabile a quello di oggetti, di proprietà dei loro uomini.
Ma ancora oggi, nel 2022, le donne italiane hanno più difficoltà a trovare lavoro, percepiscono stipendi più bassi, hanno minori prospettive di carriera rispetto ai loro colleghi maschi.
Ancora oggi, nel 2022, le donne italiane sono oggetto di violenze e vengono uccise da uomini che ritengono di avere su di loro diritto di vita o di morte.

La storia ci insegna che, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale, i progressi fatti sono stati spesso dovuti al coraggio e alla determinazione di donne straordinarie, che non hanno voluto rassegnarsi allo stato di fatto.

Oggi raccontiamo la storia di una di loro.

Siamo all’inizio degli anni 70, e il tennis è divenuto uno sport popolarissimo in tutto il mondo, con enorme seguito di pubblico e sulla carta stampata. In effetti, però, non è proprio tutto il tennis a beneficiare di tanta attenzione, ma solo quello maschile. I tennisti più forti sono professionisti, guadagnano tanto e godono di fama paragonabile a quella dei divi del cinema. Le tenniste donne sono invece considerate come una specie di fenomeno da baraccone, gradevoli da vedere con i loro gonnellini ma lontane anni luce dai loro colleghi uomini, loro sì veri sportivi. Ovviamente i guadagni delle tenniste donne sono molto diversi: per loro non esiste professionismo, e vincendo un trofeo ottengono un premio 10 volte inferiore rispetto al vincitore del medesimo trofeo maschile.

La protagonista della nostra storia è Bille Jean King, una delle migliori tenniste di sempre, sicuramente tra le migliori della sua epoca, capace di vincere il suo primo Wimbledon, in doppio, a soli 18 anni. Eppure anche lei era costretta a mantenersi tenendo lezioni di tennis, visto che gli introiti derivanti dalla sua attività agonistica sarebbero stati del tutto insufficienti.

Fu lei a capeggiare il movimento di protesta del circuito tennistico femminile, che portò nel 1973 alla fondazione della Woman’s Tennis Association (WTA, tutt’ora esistente) ed al boicottaggio dei tradizionali tornei, a partire dagli Open degli Stati Uniti.

La ribellione era inaccettabile: Billie Jean e le ribelli dovevano essere rimesse al loro posto. E per farlo, saltò fuori Bobby Rigs, ex campione di qualche decennio prima, per tre volte numero uno del ranking.
Ma soprattutto, Bobby Rigs era una sorta di stereotipo vivente, con le sue dichiarazioni fortemente maschiliste: “le donne devono stare in cucina, non sopportano lo stress, è giusto che siano pagate meno perché inferiori geneticamente”. E tanto per rincarare la dose, si autodefiniva “Maiale maschilista”. Riggs lanciò una sfida: pur avendo 55 anni, sarebbe stato in grado di sfidare e sconfiggere con facilità le migliori tenniste donne, tanto inferiore era il livello del tennis femminile.

La prima a raccogliere la sfida fu Margaret Court: bersaglio ideale in quanto temporaneamente giunta al numero uno della classifica mondiale, ma emotivamente impreparata alla sfida che avrebbe affrontato. La Court subì infatti la pressione dell’evento, ma soprattutto il carisma del suo avversario, finendo con l’essere sconfitta con facilità.

Ma non era lei il vero obiettivo: Rigs puntava alla tennista più forte, alla più importante, a Billie Jean King. Che a quel punto non poté fare a meno di raccogliere la sfida.

L’incontro fu preceduto da un lancio giornalistico senza precedenti, in cui l’arroganza e le dichiarazioni maschiliste ed irridenti di Rigs trovavano ampio spazio, tanto da portare la King a dichiarare, dopo l’incontro, “Ho pensato che saremmo tornati indietro di 50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe rovinato il circuito femminile e fatto perdere l’autostima a tutte le donne.”

Fu un grande evento: 30.000 presenti intorno al campo, oltre 90 milioni di telespettatori. Ma stavolta l’esito fu molto diverso: Billie Jean aveva una forza morale che le consentiva di gestire le pressioni, oltre ad una splendida tecnica tennistica. In più, aveva fatto tesoro dell’incontro perso da Margaret Court, evitando di ripetere gli stessi errori. E quindi il risultato del match fu netto: 6-4, 6-3, 6-3 per Billie Jean King.

Può una partita di tennis cambiare la storia? Evidentemente sì, avendo dimostrato che le donne non sfiguravano rispetto ai loro colleghi uomini. Questo conferirà alla WTA una notevole forza contrattuale, consentendo di ottenere, in tutti i principali tornei del circuito, l’equiparazione dei premi tra uomini e donne, a partire dagli open USA ed arrivando a Wimbledon, ultimo ad adeguarsi nel 2007.

Tutto è bene quel che finisce bene allora? No perché la King si era esposta troppo, e in qualche modo avrebbe dovuto pagare. E l’occasione arrivò da un suo atto ancor più clamoroso: fu la prima atleta a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità, divorziando dal marito per vivere alla luce del sole il suo amore con un’altra donna.

Per la società moralista e bacchettona degli Stati Uniti questa era una provocazione davvero intollerabile. Billie Jean fu costretta a ritirarsi dal circuito professionistico che pure aveva fatto nascere, rassegnandosi a partecipare a tornei minori per guadagnare qualcosa.

Ma anche questa partita la giocò per vincere, con la determinazione ed il coraggio che l’avevano sempre contraddistinta, diventando una paladina dei diritti LGBT. E nel 2006 la struttura nella quale si svolgono gli US Open fu stata rinominata “Billie Jean King National Tennis Center” in suo onore.

Alla fine ha vinto lei. Ha dimostrato che si possono combattere stupidità e pregiudizi avendo come uniche armi una racchetta da tennis ed un’enorme determinazione. Ed è una lezione da ricordare sempre.

E’ a questo che serve la ricorrenza della Giornata Internazionale della Donna: a non farci mai dimenticare che la lotta per i diritti delle donne non è finita e va combattuta ogni giorno. Perché tutte le donne meritano rispetto, senza dover essere costrette a vincere il torneo di WImbledon per conquistarselo.

 

Leggi anche

https://fisacabruzzomolise.com/lavoro-e-societa/l8-marzo-tra-leggende-e-realta

https://fisacabruzzomolise.com/lavoro-e-societa/katherine-johnson-la-donna-che-ci-porto-sulla-luna

 

 




L’8 marzo tra leggende e realtà

Perché la data dell’8 marzo è stata scelta per celebrare la Giornata Internazionale della Donna?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

Già che ci siamo, perché l’8 marzo si regalano mimose?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

Spogliata da tutte le leggende, la Giornata della Donna ha ancora senso? Assolutamente sì!
Basta leggere un po’ di numeri che fotografano la situazione del nostro Paese:

  • In Italia meno del 50% delle donne lavora, contro il 70% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile).
  • La retribuzione media delle donne è all’incirca il 60% di quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini.
  • Una donna su quattro è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma.
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. Negli ultimi 10 anni, nei Paesi UE il gap pensionistico tra uomini e donne è diminuito del 5%: in Italia siamo in controtendenza, con un aumento del 2%.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che discendono da un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione.
Abbiamo tutti nelle orecchie le urla della leader di uno dei più importanti partiti presenti nel nostro paese, che poco più di un anno fa arringava i suoi seguaci con le parole “Sono una donna, sono una madre, sono Italiana, sono cristiana”.
Una frase che da sola basta a descrivere un modo di vedere il mondo.
Perché in definitiva è a quello che “servono” le donne: alla riproduzione. Alla cura dei figli ed alla pulizia della casa. E da brave madri nate in Italia, a trasmettere alle future generazioni gli insegnamenti cristiani e le nostre tradizioni che tanto contribuiscono a tenere le donne in una condizione di subordinazione.
Ed è agghiacciante che a lanciare questo slogan sia stata una donna.
Un concetto che un membro dello stesso partito ha tenuto a ribadire nei giorni scorsi: “Il padre deve dare le regole, la madre accudire.”
Esiste una diffusa corrente di pensiero per la quale non è cambiato evidentemente molto dal 1934 quando Mussolini scriveva che l’occupazione femminile “… ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione e fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”.
Ed è una logica conseguenza di questo modo di pensare la convinzione che la donna debba in qualche modo “appartenere” all’uomo, e la sua scelta di interrompere un rapporto sia un torto inaccettabile per l’uomo “padrone”, da punire con durezza. Una logica aberrante, ma che causa ogni anno la morte di tante donne colpevoli di voler vivere liberamente la propria esistenza:75 vittime nel solo 2020, già 12 da inizio 2021.
E anche quando non si arriva al gesto estremo, all’uccisione di una donna, sono comunque tanti gli uomini che pensano che una donna non possa avere il diritto di dire di no.
I dati ISTAT dicono che in Italia il 31,5% delle donne abbia subito una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. Parliamo di una donna su tre: una percentuale abnorme, spaventosa.

Se c’è un augurio da rivolgere a tutte le donne è che possa arrivare un giorno in cui nessuno si ricordi più di quando si celebrava la Giornata Internazionale della Donna, un giorno in cui nessuno ricorderà il tempo in cui esistevano assurde discriminazioni tra i sessi.

Ma quel giorno è lontano, davvero lontano. Per questo ognuno di noi ha il dovere di battersi in ogni modo per renderlo un po’ più vicino.




A cosa serve la Festa della Donna?

Siamo nel 2019 e viviamo in Italia, un Paese che può vantare – come disse qualcuno non molto tempo fa – la sua civiltà superiore.
Noi non siamo brutti e cattivi come quelli che vivono dall’altra parte del Mediterraneo: loro sì che umiliano le donne, ma da noi le cose vanno diversamente.

Parliamoci chiaro: serve ancora la Festa della Donna in Italia, nel 2019?

A darci la risposta a questa domanda ci ha pensato la Lega Salvini Premier di Crotone.

Sono tanti gli insegnamenti che possiamo trarre da questo che più che un volantino sembra un manifesto dell’altissimo livello che la nostra civiltà superiore ha raggiunto.

E allora, grazie alle menti illuminate che hanno scritto questa serie di amenità, scopriamo che consentire ad un bambino di crescere in una famiglia diversa da quella tradizionale offende la dignità delle donne (Ma perché? In che modo?).

Scopriamo che nell’interesse delle donne bisognerebbe abolire le quote rosa (che effettivamente  in un mondo perfetto non dovrebbero esistere, ma che diventano indispensabili in un Paese governato da gente che scrive e pensa queste cose).

Abbiamo appreso che “l’autodeterminazione della donna della donna causa un atteggiamento rancoroso” (immaginiamo quanto possa invece essere felice una donna, ma anche un uomo, costretti a subire le imposizioni di chi pretende di decidere per conto loro).

Soprattutto, il merito di questo volantino è aver spiegato, in modo chiaro ed inequivocabile, quale sia la funzione della donna nella società: il suo ruolo naturale è la promozione ed il sostegno della famiglia. Come dire: stiano a casa ad allattare i figli e non rompano i coglioni.

Ci consola, tuttavia, sapere che “la Lega Salvini Premier di Crotone è convinta che la donna ha una grande missione sociale da compiere”:
Studiare i congiuntivi, tanto per dirne una?

Dobbiamo davvero essere grati ai “camerati” di Crotone, perché se mai ci fosse stato bisogno di un promemoria per ricordarci quanto sia scura la notte, loro ce ne hanno fornito uno efficacissimo.
Perché su questo volantino si può anche scherzare, ma il dramma è che sono in tanti a pensarla così, a riprova del fatto che in Italia le lancette della storia hanno cominciato da tempo a girare al contrario.

E allora possiamo rispondere alla domanda iniziale: certo che c’è bisogno della Festa della Donna!
Anzi, della Giornata Internazionale della Donna, perché è così che si chiama.
E pazienza se è un nome troppo lungo per scriverlo sulle vetrine dei ristoranti, dei fiorai e dei negozi di cioccolatini.