No, l’8 marzo non è la “FESTA DELLA DONNA”!

Davvero serve ancora spiegarlo? Dopo tutti questi anni? Davvero serve spiegare che l’8 marzo non è una festa e non è stato inventato per vendere i cioccolatini o per riempire le pizzerie?
Sembra assurdo. Eppure, siamo convinti che da stamattina i telefoni di tutte le donne si stiano riempendo di messaggi che dicono “Buona festa della donna”. E quindi sì, serve ancora spiegarlo. Spiegare che la “Giornata Internazionale della Donna” non è una festa. Che non c’è davvero niente da festeggiare. E che le persone che mandano gli auguri in quel modo non hanno ben chiaro il senso di questa giornata.

Facciamo un breve ripasso sulle origini di questa giornata.

PERCHE’ L’8 MARZO SI CELEBRA LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

PERCHE’ L’8 MARZO SI REGALANO LE MIMOSE?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

A COSA SERVE CELEBRARE LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Serve proprio a ricordare che non c’è nulla da festeggiare, e che per quanto ci illudiamo di aver fatto passi da giganti sulla via del progresso e della civiltà, continuano ad esistere due realtà diverse per gli uomini e per le donne.

Anche volendo limitare l’analisi al nostro Paese, i numeri sono chiarissimi:

  • In Italia lavora il 53% delle donne, contro il 70,6% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile). Le donne inattive (cioè quelle che non lavorano e non cercano lavoro) sono il 42,1% contro il 24,4% degli uomini. (1)
  • La retribuzione media delle donne è inferiore del 43% rispetto a quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini. (2)
  • Per quanto riguarda gli incarichi esecutivi, la situazione è pressoché immutata nel corso dell’ultimo decennio. Stando ad un’indagine svolta dalla rivista Forbes Italia, emerge una minoranza di donne nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato (dirigenti: 83% uomini, 17% donne; quadri: 69% uomini, 31% donne), mentre, se si guarda il dato del mercato nel suo complesso, la situazione risulta migliore (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).
    Nell’ambito del privato, le funzioni che contano più donne manager sono auditingcompliance e risk management (donne dirigenti: 2,2% e quadri 27,3%), legale (donne dirigenti: 1,8% e 11,8% quadri), area tecnica & ricerca e sviluppo (donne dirigenti: 0,9% e quadri 10,6%).
    E ancora risorse umane e organizzazione (donne dirigenti: 1,4% e 9,8% quadri), marketing e comunicazione (donne dirigenti: 1,1% e quadri 9,6%). Tra le società quotate, le ad rappresentano solo il 2% del totale (3,3% nel 2013) e soltanto il 3,8% di chi ricopre il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione (2,9% nel 2013). (2)

  • Una donna su cinque è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma. (3)
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. In 20 anni la differenza tra le pensioni medie delle donne e quelle degli uomini, in Italia, è cresciuta da € 3.900 a € 6.100 (4)
  • Sono 120 le donne uccise in Italia nel 2023. Nell’45% dei casi le donne vengono uccise da un familiare o da un parente. Per gli uomini questa percentuale scende al 3,7%. (5)
  • Oltre il 30% delle donne ha subito nel corso della sua vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che rappresentano la logica conseguenza di un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione. Un tema che avevamo affrontato in questo articolo:

A cosa servono le donne italiane?

Non c’è niente di male a sfruttare questa ricorrenza come occasione per una serata con le amiche. Ciò che conta è ricordare che l’8 marzo non è una festa, ma una giornata dedicata a riflettere su ciò che non possiamo continuare ad accettare e che tutti, uomini e donne, dobbiamo impegnarci a cambiare.

 

Fonti:
(1) ISTAT
(2) Forbes Italia
(3) Il Sole 24 Ore
(4) Econopoly – Il Sole 24 Ore
(5) Fanpage




Una donna coraggiosa contro un destino orrendo

Non era italiana.
Non era cristiana.
Ma era una donna. E soprattutto era una mamma.
Si chiamava Shadida Raza, aveva 29 anni e veniva dal Pakistan.

Non è facile per una donna vivere nel Pakistan. Non è facile vivere in un paese che vuole le donne sottomesse agli uomini, chiuse in casa a sfornare figli e accudirli. Una visione, peraltro, condivisa anche da orribili personaggi nel nostro Paese.

Una donna pakistana ha una sola possibilità: rassegnarsi a una vita anonima, annullarsi nell’ombra del suo uomo. Ma Shadida non aveva nessuna intenzione di rassegnarsi. Era riuscita ad emergere, a sfuggire al grigiore di una vita prestabilita da altri, e lo aveva fatto attraverso lo sport, diventando una campionessa di hockey e arrivando a giocare in nazionale. Shadida giocava anche a calcio nella squadra della sua città. Certo, era costretta a farlo indossando il velo e i pantaloni lunghi, ma questo non l’aveva fermata.

E nel frattempo Shadida non aveva rinunciato a prendere in mano la sua vita anche nella sfera privata, tanto da essere capace di divorziare in un paese in cui questa scelta significa, per una donna, porsi ai margini della società.

Una donna forte, con la quale il destino non è stato generoso. Shadida aveva un bambino di 3 anni, Hassan, con metà del corpo paralizzato per le conseguenze di un ictus.

Cosa farebbe una madre per un figlio malato? Shadida Raza ha fatto ciò che avrebbe fatto una mamma europea: ha girato tutti gli ospedali del suo paese, ma alla fine il verdetto è stato impietoso: in Pakistan non esistono strutture adeguate a curare Hassan, ma in Europa avrebbero potuto aiutarlo.

Per curare un figlio malato una madre farebbe qualsiasi sacrificio. Shadida ha scelto di rischiare tutto, imbarcandosi su una delle carrette del mare, cariche di disperati e dei loro sogni di vivere una vita appena dignitosa. Lo sapeva benissimo che quella su cui si stava imbarcando non era una nave da crociera. Sapeva benissimo di rischiare la vita ma, come ha raccontato la sorella Sadia, “L’unico sogno di Shahida era la cura del suo bambino disabile. Ha rischiato la sua stessa vita dopo che gli ospedali in Pakistan le hanno detto che l’assistenza medica all’estero poteva essere l’unica opzione».

Shadida è una delle oltre 70 persone inghiottite dal mare nel naufragio di Cutro del 26 febbraio. Decine di esseri umani, ognuno dei quali potrebbe raccontarci una storia sconvolgente, tale da portarli accettare il terribile azzardo di un viaggio che rappresentava una sfida con il fato, e che solo persone ciniche e crudeli potrebbero disprezzare, arrivando ad accusare di irresponsabilità chi ha perso tutto perché da perdere non aveva niente.

Era una donna coraggiosa, forte come un uomo”. Questo dice di lei la sorella Sadia. Parole del genere, se riferite ad una donna italiana, non rappresenterebbero un’affermazione particolarmente rilevante. Ma provate ad immaginare di pronunciarle in un paese nel quale l’inferiorità delle donne e la loro subalternità agli uomini sono fatti culturalmente accettati: ecco che dire “era forte come un uomo” diventa una frase rivoluzionaria.

Oggi è la Giornata Internazionale della Donna. Una giornata in cui nelle nostre case, nei nostri uffici, ci sarà spazio per mimose, cioccolatini e auguri. Ed è sicuramente una bella occasione per esprimere o ricevere affetto dalle persone che ci stanno accanto.

Ma se vogliamo attribuire a questa giornata il suo vero significato, dedichiamo almeno un pensiero ad Shadida, ed alle tante donne come lei che devono lottare e sono pronte a dare la vita per conquistare quella normalità della quale spesso non apprezziamo il valore.



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Donne che hanno cambiato il mondo: Billie Jean King

La “Festa della Donna” non esiste. Non è mai esistita.

Quella che si celebra l’8 marzo non è una festa ma la “Giornata Internazionale della Donna”. Non si tratta di voler essere pignoli sulle parole. Lo scopo della Giornata Internazionale della Donna è proprio ricordarci che non c’è nulla da festeggiare.

Siamo nel 2022 ma ancora oggi, praticamente in tutto il mondo, le donne sono in una condizione d’inferiorità rispetto agli uomini. Nel nostro Paese possiamo avere l’impressione di essere più avanti rispetto ad altre aree del mondo, e questo è vero se guardiamo a nazioni dove, per ragioni religiose o nel rispetto di assurde tradizioni, il valore delle donne è assimilabile a quello di oggetti, di proprietà dei loro uomini.
Ma ancora oggi, nel 2022, le donne italiane hanno più difficoltà a trovare lavoro, percepiscono stipendi più bassi, hanno minori prospettive di carriera rispetto ai loro colleghi maschi.
Ancora oggi, nel 2022, le donne italiane sono oggetto di violenze e vengono uccise da uomini che ritengono di avere su di loro diritto di vita o di morte.

La storia ci insegna che, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale, i progressi fatti sono stati spesso dovuti al coraggio e alla determinazione di donne straordinarie, che non hanno voluto rassegnarsi allo stato di fatto.

Oggi raccontiamo la storia di una di loro.

Siamo all’inizio degli anni 70, e il tennis è divenuto uno sport popolarissimo in tutto il mondo, con enorme seguito di pubblico e sulla carta stampata. In effetti, però, non è proprio tutto il tennis a beneficiare di tanta attenzione, ma solo quello maschile. I tennisti più forti sono professionisti, guadagnano tanto e godono di fama paragonabile a quella dei divi del cinema. Le tenniste donne sono invece considerate come una specie di fenomeno da baraccone, gradevoli da vedere con i loro gonnellini ma lontane anni luce dai loro colleghi uomini, loro sì veri sportivi. Ovviamente i guadagni delle tenniste donne sono molto diversi: per loro non esiste professionismo, e vincendo un trofeo ottengono un premio 10 volte inferiore rispetto al vincitore del medesimo trofeo maschile.

La protagonista della nostra storia è Bille Jean King, una delle migliori tenniste di sempre, sicuramente tra le migliori della sua epoca, capace di vincere il suo primo Wimbledon, in doppio, a soli 18 anni. Eppure anche lei era costretta a mantenersi tenendo lezioni di tennis, visto che gli introiti derivanti dalla sua attività agonistica sarebbero stati del tutto insufficienti.

Fu lei a capeggiare il movimento di protesta del circuito tennistico femminile, che portò nel 1973 alla fondazione della Woman’s Tennis Association (WTA, tutt’ora esistente) ed al boicottaggio dei tradizionali tornei, a partire dagli Open degli Stati Uniti.

La ribellione era inaccettabile: Billie Jean e le ribelli dovevano essere rimesse al loro posto. E per farlo, saltò fuori Bobby Rigs, ex campione di qualche decennio prima, per tre volte numero uno del ranking.
Ma soprattutto, Bobby Rigs era una sorta di stereotipo vivente, con le sue dichiarazioni fortemente maschiliste: “le donne devono stare in cucina, non sopportano lo stress, è giusto che siano pagate meno perché inferiori geneticamente”. E tanto per rincarare la dose, si autodefiniva “Maiale maschilista”. Riggs lanciò una sfida: pur avendo 55 anni, sarebbe stato in grado di sfidare e sconfiggere con facilità le migliori tenniste donne, tanto inferiore era il livello del tennis femminile.

La prima a raccogliere la sfida fu Margaret Court: bersaglio ideale in quanto temporaneamente giunta al numero uno della classifica mondiale, ma emotivamente impreparata alla sfida che avrebbe affrontato. La Court subì infatti la pressione dell’evento, ma soprattutto il carisma del suo avversario, finendo con l’essere sconfitta con facilità.

Ma non era lei il vero obiettivo: Rigs puntava alla tennista più forte, alla più importante, a Billie Jean King. Che a quel punto non poté fare a meno di raccogliere la sfida.

L’incontro fu preceduto da un lancio giornalistico senza precedenti, in cui l’arroganza e le dichiarazioni maschiliste ed irridenti di Rigs trovavano ampio spazio, tanto da portare la King a dichiarare, dopo l’incontro, “Ho pensato che saremmo tornati indietro di 50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe rovinato il circuito femminile e fatto perdere l’autostima a tutte le donne.”

Fu un grande evento: 30.000 presenti intorno al campo, oltre 90 milioni di telespettatori. Ma stavolta l’esito fu molto diverso: Billie Jean aveva una forza morale che le consentiva di gestire le pressioni, oltre ad una splendida tecnica tennistica. In più, aveva fatto tesoro dell’incontro perso da Margaret Court, evitando di ripetere gli stessi errori. E quindi il risultato del match fu netto: 6-4, 6-3, 6-3 per Billie Jean King.

Può una partita di tennis cambiare la storia? Evidentemente sì, avendo dimostrato che le donne non sfiguravano rispetto ai loro colleghi uomini. Questo conferirà alla WTA una notevole forza contrattuale, consentendo di ottenere, in tutti i principali tornei del circuito, l’equiparazione dei premi tra uomini e donne, a partire dagli open USA ed arrivando a Wimbledon, ultimo ad adeguarsi nel 2007.

Tutto è bene quel che finisce bene allora? No perché la King si era esposta troppo, e in qualche modo avrebbe dovuto pagare. E l’occasione arrivò da un suo atto ancor più clamoroso: fu la prima atleta a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità, divorziando dal marito per vivere alla luce del sole il suo amore con un’altra donna.

Per la società moralista e bacchettona degli Stati Uniti questa era una provocazione davvero intollerabile. Billie Jean fu costretta a ritirarsi dal circuito professionistico che pure aveva fatto nascere, rassegnandosi a partecipare a tornei minori per guadagnare qualcosa.

Ma anche questa partita la giocò per vincere, con la determinazione ed il coraggio che l’avevano sempre contraddistinta, diventando una paladina dei diritti LGBT. E nel 2006 la struttura nella quale si svolgono gli US Open fu stata rinominata “Billie Jean King National Tennis Center” in suo onore.

Alla fine ha vinto lei. Ha dimostrato che si possono combattere stupidità e pregiudizi avendo come uniche armi una racchetta da tennis ed un’enorme determinazione. Ed è una lezione da ricordare sempre.

E’ a questo che serve la ricorrenza della Giornata Internazionale della Donna: a non farci mai dimenticare che la lotta per i diritti delle donne non è finita e va combattuta ogni giorno. Perché tutte le donne meritano rispetto, senza dover essere costrette a vincere il torneo di WImbledon per conquistarselo.

 

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L’8 marzo tra leggende e realtà

Perché la data dell’8 marzo è stata scelta per celebrare la Giornata Internazionale della Donna?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

Già che ci siamo, perché l’8 marzo si regalano mimose?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

Spogliata da tutte le leggende, la Giornata della Donna ha ancora senso? Assolutamente sì!
Basta leggere un po’ di numeri che fotografano la situazione del nostro Paese:

  • In Italia meno del 50% delle donne lavora, contro il 70% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile).
  • La retribuzione media delle donne è all’incirca il 60% di quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini.
  • Una donna su quattro è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma.
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. Negli ultimi 10 anni, nei Paesi UE il gap pensionistico tra uomini e donne è diminuito del 5%: in Italia siamo in controtendenza, con un aumento del 2%.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che discendono da un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione.
Abbiamo tutti nelle orecchie le urla della leader di uno dei più importanti partiti presenti nel nostro paese, che poco più di un anno fa arringava i suoi seguaci con le parole “Sono una donna, sono una madre, sono Italiana, sono cristiana”.
Una frase che da sola basta a descrivere un modo di vedere il mondo.
Perché in definitiva è a quello che “servono” le donne: alla riproduzione. Alla cura dei figli ed alla pulizia della casa. E da brave madri nate in Italia, a trasmettere alle future generazioni gli insegnamenti cristiani e le nostre tradizioni che tanto contribuiscono a tenere le donne in una condizione di subordinazione.
Ed è agghiacciante che a lanciare questo slogan sia stata una donna.
Un concetto che un membro dello stesso partito ha tenuto a ribadire nei giorni scorsi: “Il padre deve dare le regole, la madre accudire.”
Esiste una diffusa corrente di pensiero per la quale non è cambiato evidentemente molto dal 1934 quando Mussolini scriveva che l’occupazione femminile “… ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione e fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”.
Ed è una logica conseguenza di questo modo di pensare la convinzione che la donna debba in qualche modo “appartenere” all’uomo, e la sua scelta di interrompere un rapporto sia un torto inaccettabile per l’uomo “padrone”, da punire con durezza. Una logica aberrante, ma che causa ogni anno la morte di tante donne colpevoli di voler vivere liberamente la propria esistenza:75 vittime nel solo 2020, già 12 da inizio 2021.
E anche quando non si arriva al gesto estremo, all’uccisione di una donna, sono comunque tanti gli uomini che pensano che una donna non possa avere il diritto di dire di no.
I dati ISTAT dicono che in Italia il 31,5% delle donne abbia subito una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. Parliamo di una donna su tre: una percentuale abnorme, spaventosa.

Se c’è un augurio da rivolgere a tutte le donne è che possa arrivare un giorno in cui nessuno si ricordi più di quando si celebrava la Giornata Internazionale della Donna, un giorno in cui nessuno ricorderà il tempo in cui esistevano assurde discriminazioni tra i sessi.

Ma quel giorno è lontano, davvero lontano. Per questo ognuno di noi ha il dovere di battersi in ogni modo per renderlo un po’ più vicino.




Violenza sulle donne: nessun dorma!

In occasione della Giornata Internazionale delle Donne ripubblichiamo la splendida ricerca effettuata da Emanuela Marini, componente della segreteria Fisac Banca d’Italia, che ha studiato alcune delle più note opere liriche scoprendo che nella loro trama è possibile ritrovare tutte le casistiche delle violenze sulle donne: il femminicidio, la violenza fisica, morale, economica, gli stereotipi ecc…

Una riflessione su come il fenomeno della violenza di genere sia profondamente radicato nella nostra cultura da secoli, e solo in tempi recenti si sia cominciato finalmente a vederlo per quello che realmente è: una profonda ingiustizia, un segno d’inciviltà da combattere con forza e decisione.

A rendere più interessante la lettura, per i melomani c’è la possibilità di ascoltare le arie alle quali si fa riferimento nella trattazione.

 

Nessun dorma – L’opera racconta la violenza

 

 




Katherine Johnson, la donna che ci portò sulla luna

Era testarda Katherine Johnson, ribelle, ma anche appassionata di spazio e di numeri. Una donna dalle mille sfaccettature, intelligente come poche, che riuscì nell’impresa più grande: portare l’uomo sulla Luna. Si è spenta lo scorso 24 febbraio all’età di 101 anni, con grande dignità e la consapevolezza di aver lasciato un segno indelebile nella storia dell’umanità.

Negli anni Cinquanta era stata assunta dalla Nasa e da subito si era fatta notare per la sua spiccata intelligenza. Poco dopo era stata scelta per calcolare le traiettorie nella missione Freedom 7, guidata da Alan Shepard. Il successo non aveva fermato Katherine Johnson, che negli anni aveva collezionato tanti altri traguardi, fra cui il titolo come prima donna a pubblicare un testo di matematica astronomica.

Fino alla missione orbitale di John Glenn, dove Katherine realizzò un sistema di comunicazione in grado di collegare le stazioni con Cape Canaveral, le Bermuda e Washington, una sorta di rete in grado di controllare la traiettoria seguita dalla capsula. Leggenda vuole che prima di partire l’astronauta chiese alla Johnson di ripetere i calcoli con la sua calcolatrice, nonostante fossero già stati fatti da un gruppo di ingegneri.

Se lei dice Ok allora vado”, disse Glenn, pronto a fidarsi solo della matematica. E aveva ragione. Negli anni successivi Katherine avrebbe partecipato con successo a diverse altre missioni, dando sempre un contributo decisivo, dagli studi sulle sonde pronte per scoprire Marte al viaggio dell’Apollo 11 nel 1969 con il celebre sbarco sulla Luna.

Pochi lo sanno, ma la missione Apollo 11 stava per fallire. A risolvere la situazione fu proprio Margaret Hamilton. Pochi attimi prima dello sbarco sulla Luna infatti il radar venne attivato per errore, mandando il computer in sovraccarico. La situazione stava per precipitare, ma la matematica aveva già pensato a questa evenienza.
Mentre scriveva il software infatti aveva sviluppato un algoritmo che consentiva al programma di accorgersi di un sovraccarico e segnalarlo. Il problema dunque venne risolto in breve tempo e gli astronauti riuscirono ad arrivare sul satellite.
Se il computer non avesse individuato il problema – scrisse nel 1971 – e non lo avesse risolto, dubito che la missione Apollo 11 sarebbe giunta a buon fine”. Dieci anni dopo Margaret lasciò il MIT e la Nasa, creando una sua compagnia, la Hamilton Technologies e coniando il termine “software engineering”.

Una conquista enorme, fatta in un periodo in cui lo sviluppo dei programmi veniva affidato quasi sempre alle donne, perché considerato secondario. In realtà il lavoro della Hamilton risultò fondamentale per costruire un pezzo di Storia dell’umanità.

Nel 1986 aveva deciso di lasciare la Nasa, ma era ormai diventata una leggenda. A raccontare la sua storia straordinaria un libro e un film, Hidden Figures (Il diritto di contare). Nel 2015 l’allora presidente Barack Obama le aveva reso omaggio consegnandole la Presidential Medal of Freedom, considerata la più alta onorificenza civile americana, mentre la Mattel aveva creato una Barbie con le sue sembianze per ispirare le future generazioni.

Fonte: www.dilei.it




A cosa serve la Festa della Donna?

Siamo nel 2019 e viviamo in Italia, un Paese che può vantare – come disse qualcuno non molto tempo fa – la sua civiltà superiore.
Noi non siamo brutti e cattivi come quelli che vivono dall’altra parte del Mediterraneo: loro sì che umiliano le donne, ma da noi le cose vanno diversamente.

Parliamoci chiaro: serve ancora la Festa della Donna in Italia, nel 2019?

A darci la risposta a questa domanda ci ha pensato la Lega Salvini Premier di Crotone.

Sono tanti gli insegnamenti che possiamo trarre da questo che più che un volantino sembra un manifesto dell’altissimo livello che la nostra civiltà superiore ha raggiunto.

E allora, grazie alle menti illuminate che hanno scritto questa serie di amenità, scopriamo che consentire ad un bambino di crescere in una famiglia diversa da quella tradizionale offende la dignità delle donne (Ma perché? In che modo?).

Scopriamo che nell’interesse delle donne bisognerebbe abolire le quote rosa (che effettivamente  in un mondo perfetto non dovrebbero esistere, ma che diventano indispensabili in un Paese governato da gente che scrive e pensa queste cose).

Abbiamo appreso che “l’autodeterminazione della donna della donna causa un atteggiamento rancoroso” (immaginiamo quanto possa invece essere felice una donna, ma anche un uomo, costretti a subire le imposizioni di chi pretende di decidere per conto loro).

Soprattutto, il merito di questo volantino è aver spiegato, in modo chiaro ed inequivocabile, quale sia la funzione della donna nella società: il suo ruolo naturale è la promozione ed il sostegno della famiglia. Come dire: stiano a casa ad allattare i figli e non rompano i coglioni.

Ci consola, tuttavia, sapere che “la Lega Salvini Premier di Crotone è convinta che la donna ha una grande missione sociale da compiere”:
Studiare i congiuntivi, tanto per dirne una?

Dobbiamo davvero essere grati ai “camerati” di Crotone, perché se mai ci fosse stato bisogno di un promemoria per ricordarci quanto sia scura la notte, loro ce ne hanno fornito uno efficacissimo.
Perché su questo volantino si può anche scherzare, ma il dramma è che sono in tanti a pensarla così, a riprova del fatto che in Italia le lancette della storia hanno cominciato da tempo a girare al contrario.

E allora possiamo rispondere alla domanda iniziale: certo che c’è bisogno della Festa della Donna!
Anzi, della Giornata Internazionale della Donna, perché è così che si chiama.
E pazienza se è un nome troppo lungo per scriverlo sulle vetrine dei ristoranti, dei fiorai e dei negozi di cioccolatini.




Molestie sui luoghi di lavoro

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, per ricordarci quanto sia lunga la strada da percorrere per arrivare ad una vera parità, pubblichiamo uno studio dell’Esecutivo Donne Fisac relativo alle molestie sui luoghi di lavoro.

 

Art. 26 Codice delle pari opportunità (D.lgs. 11/4/2006, n.198)
– Molestie e molestie sessuali
Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei
comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse
al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una
lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio,
ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali,
ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale,
espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e
di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
offensivo.
Sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno
favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di
aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi
sottomessi.

 

Molestie sui luoghi di lavoro: rapporto ISTAT

Il 13 febbraio 2018 è stata presentata dall’Istat un’indagine denominata “Multiscopo sulle Famiglie: Sicurezza dei cittadini”. Essa si colloca in una serie di osservazioni a cadenza quinquennale ed ha la finalità di conoscere sia la dimensione che la diffusione del fenomeno della criminalità, le conseguenze dei reati e la percezione che degli stessi hanno i cittadini. All’interno della suddetta indagine si trova un modulo riguardante le molestie a sfondo sessuale e i ricatti sessuali sul lavoro. Le precedenti furono realizzate nel 1997/98, nel 2002 e nel 2008/09.
Tuttavia, soltanto in questa ultima, che ha riguardato un campione di 50.350 persone tra i 14 ed i 65 anni, i quesiti sulle molestie sono stati rivolti anche agli uomini (15.764 donne e 16.347 uomini) ed in più, oltre alle molestie verbali, all’esibizionismo, ai pedinamenti, alle telefonate oscene e alle molestie fisiche sessuali, sono stati creati tre nuovi quesiti, volti a studiare il fenomeno delle molestie perpetrate via internet. Con riferimento al mondo del lavoro, sono stati, infine, rilevati i ricatti subiti solo dalle donne (in quanto tali) per essere assunte, per conservare il posto di lavoro e per ottenere avanzamenti di carriera.
Di seguito i dati più importanti:

  • 8 milioni 816 mila donne (il 43,6% del totale) hanno subito nel corso della vita una qualche forma di molestia sessuale, di queste 3 milioni e 118 mila negli ultimi 3 anni.
    Con riferimento alle sole tipologie di molestie rilevate nella precedente indagine (2008-2009) il fenomeno risulta in forte diminuzione passando dal 18,7% al 12,8%.
  • Gli autori delle molestie sessuali sono soprattutto uomini, in una percentuale del 97% se la vittima è una donna e del 85,4% se la vittima è un uomo.
  • Le molestie con contatto fisico (subite dal 15,8% delle donne), ossia quando le vittime sono baciate o toccate contro la loro volontà, sono perpetrate  nella maggior parte dei casi da estranei o da persone che si conoscono poco (60%).
  • La forma più diffusa di molestia rimane quella verbale, subita dal 24% delle donne e dall’ 8,2% degli uomini.
  • Molto diffuse sono risultate anche le molestie effettuate tramite web: il 6,8% delle donne ha ricevuto offese e commenti osceni sui social network.
  • 2 milioni di persone, pari al 5% della popolazione tra i 14 e i 65 anni, hanno subito molestie quando erano minorenni (7,8% delle donne e 2,2% degli uomini). Il 42,7% delle donne molestate e il 62,1% degli uomini molestati non ne hanno parlato con nessuno al momento del fatto. Quando ne hanno parlato, lo hanno fatto con familiari o amici e – molto raramente (solo lo 0,2% degli uomini e l’1,3% delle donne) – con figure specializzate, quali medici, psicologi, avvocati, forze dell’ordine o centri antiviolenza.
  • Con riferimento al mondo del lavoro, si stima che siano 1 milione 404 mila, ossia l’8,9%, le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro (425 mila negli ultimi 3 anni) da parte di un collega o del datore di lavoro.
  • Con riferimento ai soli ricatti sessuali sui luoghi di lavoro si stima che, nel corso della vita,1 milione 173 mila donne, cioè il 7,5%, ne siano state vittime, in fase di assunzione, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere una progressione di carriera. Le più colpite sono state le donne laureate (8,5%) e le donne tra i 35 ed i 44 anni (8,6%) e tra i 45 e i 54 anni (8,9%). Con riferimento all’ultimo triennio, le vittime sono state 167 mila, ossia l’ 1,1% delle donne che lavorano o che hanno lavorato in passato. Nella quasi totalità dei casi, autore del ricatto sessuale nei confronti delle donne è un uomo e, con rifermento a tutti i tipi di ricatti sessuali sul lavoro, il 32,4% viene ripetuto con cadenza giornaliera o, comunque, più volte a settimana. Al centro e al nord-est si rilevano le percentuali più alte, rispettivamente il 13,5% e l’8,3%. Le professioni maggiormente colpite sono le
    professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione, dirigenti, impiegati, professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi. Ci sono quindi delle professioni in cui è più probabile che si verifichino molestie e paradossalmente queste sono nell’ambito delle professioni più qualificate.
  • In generale, la percezione della gravità delle molestie fisiche subite è profondamente diversa tra donne e uomini: il 74,6% delle donne le considera molto o abbastanza gravi, mentre per gli uomini la percezione di gravità si attesta al 47,2%.

A distanza di sette anni dall’ultima indagine che cosa è cambiato?

  • E’ diminuito dal 33,4% al 10,5% il tasso di vittimizzazione per le telefonate oscene, anche grazie alla costante crescita negli ultimi 20 anni del possesso dei cellulari, a discapito delle linee telefoniche fisse, e alla possibilità di rintracciare il chiamante attraverso la visualizzazione del numero.
  • Anche il numero delle vittime di molestie fisiche è diminuito passando dal 5,7% del 1997/1998 al 2,7% del 2015/2016 probabilmente sia grazie ai mutamenti legislativi, che hanno trasformato il quadro normativo rafforzando le tutele, sia per la costante crescita di consapevolezza del fenomeno da parte delle donne.
  • Le molestie fisiche sul luogo di lavoro, con riferimento agli ultimi tre anni di osservazione, ossia 2013-2016, sono leggermente superiori (8,9%) rispetto a quelle del periodo precedente (2008-2009) in cui le vittime erano l’8,5%.
  • Nel 2015-2016, dopo una fase in cui erano diminuiti (2002), aumentano di nuovo i ricatti sessuali subiti nel corso della vita.

Le caratteristiche del reato di molestia sono ben indicate all’art. 26 del codice di pari opportunità che, adeguandosi alla normativa europea, oggi prevede che, ai sensi della legge, conta solo il punto di vista del molestato e non quello del molestatore. Non occorre, infatti, indagare sulla motivazione che spinge un soggetto a molestare: se il comportamento vìola la dignità di una persona si tratta di molestia. Non occorre nemmeno che ci sia dolo, è sufficiente l’effetto. La prospettiva, quindi, è stata rovesciata rispetto al passato, quando spesso, il reato veniva banalizzato, ridotto superficialmente a semplice comportamento scherzoso o inoffensivo.

Le donne però continuano a non denunciare !

Nell’ 80,9% dei casi, la donna che subisce un ricatto sessuale non ne parla con nessuno sul posto di lavoro (dato rimasto sostanzialmente invariato rispetto all’indagine precedente che riportava una percentuale dell’81,7%).

I motivi per i quali le donne non denunciano i ricatti sessuali subiti sono legati alla scarsa gravità attribuita all’episodio (27,4%), alla mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine (23,4%), alla scelta di rinunciare al posto di lavoro per non subire il ricatto (19,8%), all’essere state capaci di cavarsela da sole o con l’aiuto di familiari (18,6%) e, infine, dalla paura di essere giudicate male (12,7%).

Secondo la psicologa e sociologa Inés Hercovich, le donne hanno paura di parlare perché: “è forte in loro la convinzione che nessuno crederebbe alla storia”. Quando una donna racconta la violenza subita suscita nell’ascoltare una sensazione di orrore e disgusto, cose che scioccano, che nessuno vorrebbe mai sentire. Cose che si preferisce non sapere per non doverci fare i conti.
Diversa è la situazione che si viene a creare quando si legge la notizia di uno stupro su un quotidiano. In questo caso il lettore immagina si tratti di una donna giovane e bella e di un uomo depravato appartenente alla feccia della società. Dunque si muove lungo i binari di stereotipi ben conosciuti, che non causano sconvolgimenti eccessivi ma solo un senso di fastidio, quasi come se in quella scena non fossero presenti esseri umani. Manca purtroppo la convinzione da parte delle donne di essere credute, di essere tutelate. Manca una cultura tale che gli eviti qualsiasi giudizio, come fosse colpa loro. Inoltre, se la donna denuncia sa che molto probabilmente verrà allontanata dal suo posto di lavoro e quindi tenta di conservarlo. La maggior parte delle denunce, infatti, arrivano da donne che hanno già lasciato quel lavoro.”

In questo quadro, è fondamentale evidenziare il ruolo che possiamo svolgere come
sindacato,facendoci promotori costanti di iniziative di lotta alla violenza di genere, con particolare attenzione al mondo del lavoro ed alle molestie che in esso trovano terreno fertile. Combattere la cultura del potere e della prevaricazione, eliminare le disuguaglianza nel mondo del lavoro, significa però anche permeare di prospettiva di genere l’intera contrattazione, significa proporre nelle aziende una formazione continua mirata al rispetto e all’uguaglianza di genere così da arginare questo”eccesso di indifferenza generale”, conferendo alla lotta alla violenza e alle discriminazioni una maggiore legittimità sociale.

Roma, Febbraio 2018

Esecutivo Donne Fisac

 

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