Pubblicità regresso e sciopero generale


Se è vero che la pubblicità è lo specchio di un paese, quello che abbiamo visto nelle ultime settimane deve preoccuparci, e non poco.

In almeno tre campagne pubblicitarie, infatti, abbiamo visto un’immagine del lavoro e dei lavoratori che sarebbe poco definire degradante.

Il primo caso, quello di cui si è parlato tanto, è quello di Renatino e della sua dedizione alla produzione di parmigiano. Per farci capire come dovrebbe essere un vero lavoratore, lo spot ci mostra un povero disgraziato che, dall’età di 18 anni, lavora 365 giorni l’anno e che, come gli viene chiesto dai ragazzi in visita al caseificio, in vita sua non ha mai visto il mare, né Parigi, né messo gli sci. Una vita annullata nel nome della produzione.
Si è detto che quella è un’opera di finzione, che non bisogna esagerare a criticarla, che magari è solo un copione scritto male.

Per questo fa ancora più effetto la campagna pubblicitaria di Amazon, azienda talmente refrattaria ai diritti dei lavoratori da suscitare la preoccupazione di Amnesty International.
La campagna pubblicitaria in corso mostra diversi lavoratori che tessono le lodi del loro munifico datore di lavoro. Tra loro c’è Gianluca, che di sé ci racconta: “Ho smesso di studiare, è il mio grande rimpianto”. Ma per fortuna è arrivata mamma Amazon ad accoglierlo tra le sue braccia.  “L’importante è rialzarsi”. Perché lavorare per Amazon è un traguardo, niente a che vedere con i parassiti che non si rialzano e campano di sussidi. Gianluca ci dice che “imparo cose nuove”, perché “siamo fatti per fare cose grandi”, e “l’importante è crederci”. Imparare a leggere codici a barre, accatastare scatoloni, spostare pedane rappresenta evidentemente un patrimonio al quale una persona deve ambire, altro che quella cultura inutile, con la quale non si mangia: bisogna produrre e ringraziare chi, con spirito mecenatesco, è disposto persino a pagare le persone alle quali offre la possibilità di una simile crescita professionale.
Ma lo spot più inquietante della campagna è quello che ha per protagonista Mohamed. Di sé ci racconta: “la mia frase preferita è (poi dice qualcosa in arabo), che vuol dire non smettere di lottare“. Ma cosa significa per Mohamed lottare? Significa impegnarsi per ottenere condizioni di vita dignitose? Per evitare ad esempio, come raccontano i suoi colleghi del mondo reale, di dover urinare dentro una bottiglia perché mamma Amazon non concede loro neanche il tempo di andare al bagno? No, lottare significa dare tutto sé stesso per permettere al suo datore di lavoro di continuare a trattarlo come un oggetto, una bestia da soma. Eppure Mohammed è grato all’azienda: “Mia sorella è nata con disabilità” “I miei  genitori sono molto contenti perché riesco a aiutarli economicamente”. Alla fine Amazon si è accollata il mantenimento di uno straniero, e questo viene fatto passare non come il corrispettivo (inadeguato) per un duro lavoro, ma come un atto di pura generosità.
Quello che fa male è pensare che le persone che vengono mostrate sono probabilmente veri lavoratori, che hanno recitato un copione molto più inverosimile di quello di Renatino, non si sa quanto volontariamente. La memoria torna ai film di Fantozzi, quando il Megadirettore Galattico si rivolge ai dipendenti chiamandoli “Cari inferiori”.
Inferiori costretti a fare tutto ciò che serve a compiacere i loro padroni e, nonostante questo, condannati a sorridere e ringraziare chi li fa sì lavorare, ma al tempo stesso li priva di ogni prospettiva di una vita dignitosa.

L’ultimo caso emblematico di quanto poco valore venga ormai dato agli esseri umani è quello di uno studio legale che si autocelebrava per essere stato premiato come miglior studio legale d’Italia. Il suo merito? Aver aiutato un’azienda, la GKN di Campi Bisenzio, a cacciare 430 dipendenti: un’operazione della quale, evidentemente, è giusto vantarsi pubblicamente.
Ora, a parte il fatto che lo stesso studio legale è stato sconfitto in appello dalla Fiom di Firenze che giustamente ha commentato: “Chissà cosa spetterà a noi che contro di loro abbiamo presentato e vinto un ricorso in Tribunale per atteggiamento antisindacale!” l’essere arrivati a sventolare come un trofeo l’aver messo sul lastrico centinaia di famiglie rappresenta un punto di non ritorno nella considerazioni di quelli che evidentemente non vengono più viste come persone.

Si dirà che si sta esagerando, che in fondo sono solo spot. Ma gli spot sono evidentemente realizzati seguendo le indicazioni dei committenti, che guarda caso sono le nostre controparti, e che evidentemente ci tengono a dare questa immagine di loro e dei loro dipendenti. Le stesse controparti che sbraitano contro il reddito di cittadinanza, perché vorrebbero pagare i lavoratori, che tanto generosamente mantengono, meno di un sussidio di povertà, ma per farlo avrebbero bisogno che quel sussidio non esistesse.

E’ contro questa visione del mondo che la Cgil sciopererà assieme alla Uil il prossimo 16 dicembre. Una visione del mondo che chiunque attribuisca un valore alle parole “giustizia” e “solidarietà” non può che rifiutare.

Qualcuno dirà che per noi è diverso, che la categoria dei bancari non ha nulla a che vedere con i personaggi degli spot citati.
Eppure in ognuno di noi c’un po’ di Renatino: ogni volta che facciamo straordinario senza farcelo pagare, ogni volta che restiamo in ufficio durante la pausa pranzo per finire un corso online, ogni volta che rinunciamo alle ferie perché le campagne commerciali vanno completate…
In ognuno di noi c’è un pizzico di Mohamed: quando vendiamo ad un cliente un prodotto non adatto a lui solo perché dobbiamo raggiungere un “obiettivo sfidante” , quando guardiamo i dati di vendita ed abbiamo paura di ritorsioni perché sono inferiori a quello che ci era stato chiesto. È normale aver paura di andare a lavorare?
Ogni filiale che viene chiusa in un piccolo paese è la nostra GKN, e dietro quelle chiusure, decretate non perché le banche abbiano problemi economici ma solo perché gli utili non bastano mai, ci saranno dei dirigenti premiati. Premiati per aver contribuito a spopolare un centro abitato.

Dobbiamo, com’è giusto, approfondire i motivi dello sciopero.
Possiamo parlare del fatto che nei prossimi mesi l’Italia riceverà dall’Europa oltre 190 miliardi di Euro per il programma Next Generation UE, e del fatto che questa somma arriverà nell’unica nazione industrializzata nella quale gli stipendi sono mediamente più bassi rispetto a 30 anni fa.

 

Potremmo aspettarci che questa montagna di denaro venga investita in modo da elevare le retribuzioni e migliorare il tenore di vita delle fasce più deboli. Ma il governo non ha nessuna intenzione di usare questi soldi  per ridurre le diseguaglianze, fedele alla teoria dello sgocciolamento tanto in voga tra le destre: i soldi si danno ai ricchi. I poveri potranno contendersi le briciole che cadranno dalla loro tavola, e dovranno pure ringraziare. Una teoria che ha prodotto effetti devastanti: oggi in Italia oltre un lavoratore su 10, pur percependo uno stipendio, è sotto la soglia di povertà.

Potremmo parlare di pensioni, del fatto che in Europa siamo il paese con l’età pensionabile più alta, di un governo che si era impegnato a ricercare con i Sindacati possibili forme di flessibilità ma poi di questo argomento non ha voluto parlare.

Potremmo parlare della mancanza di prospettive per chi inizia a lavorare tra salari da fame, contratti a singhiozzo, pensioni con le quali non potranno mantenersi da vecchi.

Potremmo parlare di scuole, di sanità, di ambiente, di disabili, di pari opportunità, degli oltre 100 miliardi annui di evasione fiscale… tutti temi sui quali il Governo non apporterà migliorie.

Decidere se aderire o meno ad uno sciopero significa schierarsi, dall’ una o dall’altra parte. Partecipare allo sciopero è un modo per ribellarsi, per provare a rifiutare, per noi ma soprattutto per i nostri figli, una società che contrappone pochi padroni (e i loro rappresentanti), e tantissimi “inferiori” sempre più poveri, sempre più sfruttati, sempre più privati di diritti.
Chi non sciopera afferma implicitamente che le cose vanno bene così come stanno. Ed è una posizione legittima. Però poi perde il diritto di lamentarsi, magari venendo tra qualche anno a chiederci: “Dov’era la Cgil?
Noi ci saremo, come ci siamo sempre stati. E stavolta speriamo di essere davvero in tanti.

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