“L’ITALIA NON E’ UN PAESE RAZZISTA!!!” Siamo proprio sicuri?


Questa è la risposta che immancabilmente ci viene data ogni qualvolta si prova a porre la questione razzismo. E di solito, i più sdegnati e pronti a rispondere sono quelli che dicono “Non sono razzista. Ma…” e lì partono tutti i più triti e ritriti stereotipi su stranieri, persone con la pelle di un altro colore o che professano un’altra religione.
In passato molti Italiani non sapevano di essere razzisti fino a quando non sono entrati in contatto con popoli e culture diverse dalla loro. Da quando la nostra società è diventata multietnica, il mito degli “Italiani brava gente” ha cominciato a vacillare.

Cosa sta succedendo in Italia in questi giorni?

 

SEID, 20 ANNI

“Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”.

Queste parole provengono da una lettera scritta tre anni fa da Seid Visin ad un amico. Seid Visin era nato in Etiopia vent’anni fa. Amava il calcio: aveva giocato nelle giovanili del Milan e del Benevento. Poi aveva deciso di tornare a Nocera Inferiore per conseguire il diploma al liceo scientifico, abbandonando così il sogno del calcio professionistico.
Crescendo ha scoperto qualcosa che non inizialmente non aveva immaginato: lui era diverso. Il colore della sua pelle lo portava a non essere trattato come gli altri, in un paese in cui essere troppo scuri è una colpa. Tanto da aver dovuto lasciare il lavoro di barista: troppa gente rifiutava di farsi servire da lui. Eppure Seid si sentiva italiano, uguale ai ragazzi della sua età.
Ma nonostante tutto, non si atteggiava a vittima. Leggiamo dalla stessa lettera:

“Non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.

Seid è stato trovato senza vita nella sua camera da letto: non ce l’ha fatta ad andare avanti.
Il padre adottivo invita a non strumentalizzare le parole scritte diverso tempo fa, a non collegare il suo suicidio al razzismo, e noi dobbiamo rispettare il suo volere, senza però dimenticare la sofferenza di un ragazzo al quale stupidità, ignoranza e cattiveria hanno impedito di sentirsi uguale ai suoi coetanei.

MOUSSA, 23 ANNI
Moussa Balde veniva dalla Guinea, un paese vittima della violenza incontrollata in cui una vita umana vale pochissimo. Era fuggito come qualsiasi essere umano avrebbe voluto fare al suo posto.
Uno degli stereotipi più radicati tra noi “fortunati” è che essere nati in un Paese nel quale è impossibile vivere costituisca una colpa che rende indegni di aspirare ad una vita “normale” e magari desiderare di essere felici.
Una logica aberrante, che ci porta a bollare come criminali tutti coloro che fuggono dalla povertà e dalla disperazione, ma contemporaneamente ci fa considerare normale che i nostri figli vadano a lavorare all’estero perché “In Italia gli stipendi sono troppo bassi”:
Un atteggiamento che, ci piaccia o no, rappresenta già una forma di razzismo.
Moussa arriva in Italia 4 anni fa come richiedente asilo: sarebbe un suo diritto, viste le condizioni inumane del Paese da cui proviene. Non cerca di andarsene in Francia come molti suoi compagni di viaggio: decide di fidarsi dell’Italia, paese nel quale frequenta le scuole medie ed impara la lingua. Moussa vuole impegnarsi: partecipa attivamente ad iniziative sociali e culturali, ma non riesce ad avere una vita normale. Sì, perché l’asilo non arriva e lui diventa un clandestino.
Tutti noi abbiamo imparato a dare a questa parola un significato tremendo: il clandestino è un criminale, un mostro, un subumano. In realtà, clandestino è semplicemente un essere umano a cui manca un documento, ma resta una persona con tutti i suoi sentimenti, i suoi sogni e le sue paure.
E la persona Moussa è terribilmente tormentata: il Paese nel quale avrebbe voluto costruirsi una vita normale non lo vuole. Da qui la decisione di andarsene in Francia. Ma anche la Francia non lo vuole: Moussa viene prontamente riportato in Italia.
Provate ad immaginare come può essersi sentito: una vita senza speranza, senza una via d’uscita, in cui sembra che tutto il mondo vi respinga.
Lo scorso 9 maggio, mentre sta chiedendo l’elemosina davanti ad un supermercato di Ventimiglia, Moussa viene circondato da fascisti e massacrato con delle spranghe di ferro, senza alcun motivo a parte il vigliacco piacere di infierire su una persona più debole.

Si ritrova in ospedale, dove finalmente spera che qualcun si prenda cura di lui, della sua tragica esistenza. E invece arriva l’ultima amarezza: per la Polizia i criminali non sono quelli che lo hanno aggredito. Moussa è un clandestino, quindi è lui il delinquente, quello che va punito.

Uscito dall’ospedale si ritrova recluso nel Centro di Permanenza Rimpatri (una specie di carcere per persone che non hanno commesso reati) in attesa di essere espulso. E lì, lo scorso 23 maggio Moussa decide di liberarsi dal peso di un’esistenza insopportabile.

Non si dava pace per aver ricevuto un trattamento che non capiva e non meritava. E alla fine ha trovato il modo per uscire dall’inferno nel quale era vissuto.

NELSON, 30 ANNI
Questa storia parte in modo diverso dalle altre. Nelson Yontu è nato in Camerun, ma nel nostro Paese è riuscito a farsi strada. Si è laureato in medicina a Padova, è stato assunto dall’INPS e fa il medico fiscale, cioè la persona che si occupa di verificare la veridicità dei certificati di coloro che si assentano dal lavoro.
In Italia non è un lavoro facile. Siamo un paese che è sempre pronto a schierarsi con i furbi. Il falso malato suscita in fondo simpatia, e se qualcuno prova a smascherarlo è lui l’infame, non chi aveva cercato di frodare lo Stato ed il suo datore di lavoro. Immaginiamo cosa può succedere nel Paese che “Non è razzista ma…” se a svolgere il ruolo dell’infame è una persona di colore.
E in effetti, è quello che è accaduto lo scorso 2 giugno, durante una visita fiscale a Chioggia. Nelson suona alla porta del presunto malato ma non lo trova. Passano pochi minuti e il finto malato, probabilmente avvertito dai familiari, torna di corsa in bicicletta, in costume da bagno ed infradito. Cosa succede a quel punto? Lo racconta la moglie in un post pubblicato su Facebook:
Succede che in orario di visita un uomo che non era in casa, avvisato telefonicamente dai vicini, arriva in bicicletta indossando il costume e invece di giustificare con vergogna la propria assenza, ti sequestra chiudendo il cancello della palazzina e ti minaccia ripetutamente di morte.
Succede che avvicina la mano a un bastone mentre ti urla “Negro di merda, da qui non esci vivo“, “Non puoi venire in Italia a fare il cazzo che ti pare“, “Tu mi firmi che ero in casa o ti spacco la testa”, poi ti strappa il tablet dalle mani e lo scaraventa su un muretto rompendolo in mille pezzi.
Succede che tutto avviene davanti ai vicini affacciati alle finestre e ai cancelli e, mentre tu chiedi “Per favore chiamate la polizia”, “Per favore aprite il cancello”, loro ti guardano sghignazzando, si piazzano sulla sedia che lui ci ha messo davanti per bloccarti la strada e si prendono gioco di te “No, adesso te la vedi con lui”.
Succede che nonostante le tue richieste di aiuto di fronte a un uomo violento, nessuno viene in tuo soccorso o prova a calmarlo. Anzi, mentre tu tenti di chiamare il 112 in un momento di distrazione dell’uomo, le vicine lo informano che hai chiamato la polizia, che hai il cellulare nascosto tra i fogli e lui te lo strappa privandoti della tua unica possibilità di salvezza.
Succede che per salvarti la vita vieni obbligato a sottoscrivere il falso e quando finalmente riesci ad allontanarti e ad entrare nella tua auto, l’uomo ti raggiunge per dirti “Sei morto, ti vengo a prendere” e con violenza inaudita divelle la maniglia della portiera dell’auto di cui stai pagando le rate, per scagliarla contro il tuo finestrino. E mentre tu tenti di andartene, un altro vicino gli offre un passaggio in moto per inseguirti mentre scappi.
Perché sei nero.
La coppia ha annunciato che probabilmente se ne andrà. Perché hanno una bambina di due anni, che non vogliono vogliono far vivere in questo modo. Non vogliono che provi quello che ha provato il povero Seid.

 


La CGIL, come dice l’Art.1  dello Statuto, è un’organizzazione plurietnica che ripudia fascismo e razzismo.
Perché il razzismo, anche quello che ormai siamo abituati a considerare normale, quello delle chiacchiere da bar e delle stupidaggini scritte sui social, uccide e distrugge vite umane.
E non serve sempre usare la violenza fisica: bastano le parole ad uccidere.
Seid e Moussa non ci sono più, Nelson avrà la propria vita stravolta, e come loro ci sono tantissimi esseri umani le cui storie non arrivano agli onori della cronaca.
Le loro tragedie non sono colpa del destino: hanno milioni di mandanti che, con gesti e parole apparentemente innocue, hanno contribuito attivamente a distruggere degli esseri umani.
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