Il piano di Confindustria: licenziare i più anziani e assumere precari


Se mettiamo in ordine le dichiarazioni pubbliche e le interviste rilasciate negli ultimi giorni da Carlo Bonomi e il tam tam del giornale di casa, viene fuori il programma completo della Confindustria sul tema del lavoro.

In sintesi estrema, è questo: nonostante siamo ancora nel pieno della pandemia, alle aziende bisogna permettere di licenziare perché, dice il leader degli industriali, “il blocco dei licenziamenti si sta trasformando in blocco delle assunzioni”. Quindi togliere il divieto darebbe via libera alla nascita di nuovi posti. Di che tipo? Intanto quelli con contratti precari, per i quali Bonomi chiede di togliere definitivamente l’obbligo di motivarne il ricorso con la causale e i vincoli imposti dal decreto Dignità che ne ha arginato l’esplosione avviata col decreto Poletti del governo Renzi. E poi con un misto di sgravi fiscali e “solidarietà espansiva”, riducendo cioè l’orario di lavoro e lo stipendio agli attuali dipendenti, così da usare quei risparmi per far entrare i nuovi. Come tutelare poi quelli mandati a casa? Riformando gli ammortizzatori sociali, rendendo universale la cassa integrazione, senza però specificare su chi dovrebbero ricadere i costi.

La parola d’ordine, quindi, è lasciare le imprese libere di tagliare gli organici e sostituirli con giovani a tempo determinato e, quindi, con salari inferiori. È ancora aperta la partita del decreto Sostegno, quello che prima si chiamava Ristori e da settimane viene rimandato. Bonomi si inserisce battendo cassa con il decalogo confindustriale, riproponendo lo strano sillogismo per cui, sbloccando i licenziamenti, le imprese assumerebbero.

Il divieto di mettere alla porta dipendenti per ragioni economiche – in tutti gli altri casi è consentito – è in vigore dal 17 marzo 2020 e scadrà a fine mese. L’idea del governo – a maggior ragione con la terza ondata del Covid – è prorogarlo fino al 30 giugno. Finora ha funzionato per proteggere quantomeno i posti a tempo indeterminato, come confermano i dati Istat, ma non sono mancati i datori che l’hanno ignorato: tra aprile e settembre, infatti, le tabelle Inps segnano comunque 127.330 licenziamenti economici, aumentati soprattutto a fine estate, quando sono stati permessi per cessazione delle attività o con accordi di incentivi all’esodo. Un numero lontano dagli oltre 343/mila del 2019, ma comunque alto. E se già la diga ha mostrato di avere qualche crepa, aprirla del tutto provocherebbe una catastrofe occupazionale. Nel 2020, stima la Banca d’Italia, la moratoria ha evitato 700 mila licenziamenti: ambienti sindacali ne prevedono oltre il milione con la fine del divieto in primavera.

È qui che dovrebbe intervenire la riforma – cara anche alla Confindustria – degli ammortizzatori sociali. Quelli disegnati nel 2015 dal Jobs Act hanno dimostrato di lasciare senza protezione una grossa fetta di lavoratori, tanto da rendere necessaria la cassa in deroga. L’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo aveva affidato a una commissione di esperti la redazione di un piano e il 25 gennaio era pronta a presentarlo alle parti sociali. La caduta del governo ha bloccato tutto, ma il suo successore Andrea Orlando sembra voler proseguire su quella strada: ha promesso ai sindacati una convocazione nei primi di marzo, che però ancora non è arrivata e non si sa quando arriverà. Il nodo sarà individuare chi dovrà pagare le nuove tutele, più o meno generose che siano. Bonomi glissa sull’argomento, eppure è fondamentale: se in fase iniziale la riforma potrà infatti essere finanziata con la fiscalità generale, subito dopo bisognerà renderla assicurativa, quindi dovrà comportare aumenti contributivi (difficile sia questa la proposta di Confindustria).

Come detto, in cambio della libertà di licenziare, Bonomi promette una staffetta generazionale nelle aziende, ma solo rivedendo (cioè cancellando) il “meccanismo delle causali” del dl Dignità, in parte sospeso causa Covid fino al 31 marzo. L’altra richiesta è il permesso per le aziende sotto i 250 dipendenti di usare il contratto di espansione: sistema col quale i lavoratori accettano una riduzione di orario e stipendio per favorire gli ingressi di giovani. Ovviamente accompagnato da sgravi: “Va rafforzato il bonus per giovani e donne”. Soldi pubblici, insomma: d’altronde si finisce in “Sussidistan” solo se vanno nelle tasche di poveri e disoccupati, mentre se a beneficiarne sono le imprese va tutto bene.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” dell’11/3/21

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