Gli stipendi delle donne


Le foto della manifestazione del 24 ottobre a Reykjavik sono stupende. C’era il sole, la piazza nelle immagini appare immensa e gremita. La moltitudine è assai diversa da una qualunque altra piazza: sono solo donne e, leggo, persone non binarie, in maggioranza giovani. Sono tutte in piedi composte, come allineate da una regia ma invece senz’altro da comune educazione, hanno tutte cappotti e piumini, cappelli, le mani giunte o in tasca. Sono serie, molte indossano occhiali scuri. La folla appare immensa, per prospettiva e compostezza, ma non lo è: erano 70-100mila persone.

D’altra parte l’intera popolazione dell’Islanda è composta da 370mila persone: se scendessero tutti per strada insieme, neonati e anziani compresi, tutti con nessuna eccezione, potrebbero entrare al Circo Massimo. Tuttavia 100mila, sul totale, fa quasi una persona su tre. Non riesco a immaginare che tipo di protesta potrebbe chiamare in piazza un terzo degli italiani, venti milioni. Erano a chiedere parità di salario, principio da cui discende ogni altra declinazione dell’uguaglianza: in Islanda sono parecchio avanti.

Ci sono quasi arrivati, solo che in alcune professioni la differenza di retribuzione è ancora del 20 per cento circa. Beate loro, viene da dire. Hanno anche una legge che impone alle aziende di certificare che gli stipendi siano identici a parità di mansioni, solo che nei settori dove le donne sono in maggioranza, per esempio assistenza e pulizie, i salari sono così bassi da tenere le lavoratrici in condizione subalterna. Però pensavo: già l’obbligo di certificare la parità di redditi, applicare la direttiva europea pubblicata in Gazzetta a maggio di quest’anno, potrebbe essere utile. Così, fantasticavo.

 

Fonte: invececoncita Blog di Concita De Gregorio

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