Da aprile stop allo smart working semplificato

Dal 1° aprile 2024 è scattato lo stop allo smart working agevolato anche nel privato, dove era ancora in vigore per i dipendenti fragili e con figli under 14: non significa che il lavoro agile ora sparirà del tutto, ma che per potervi fare ricorso serviranno accordi individuali tra il lavoratore e il datore di lavoro.


 

Dal 1° aprile 2024 è scattato lo stop per le agevolazioni allo smart working, ancora in vigore nel settore privato per alcune categorie di dipendenti. I lavoratori dovranno quindi tornare in ufficio, ma resta sempre aperta la strada dell’accordo individuale con il datore di lavoro. La norma scaduta lo scorso 31 marzo (dopo diverse proroghe) permetteva ai dipendenti del privato con figli minori di 14 anni e a quelli considerati “fragili” di lavorare da remoto: ora questa possibilità non è totalmente cancellata, ma servirà la sottoscrizione di un accordo individuale tra impresa e lavoratore per accedervi.

In altre parole, la possibilità di ricorrere al lavoro agile non è più riconosciuta come una sorta di diritto del dipendente – come avveniva nei mesi della pandemia – ma dovrà essere definito tramite un accordo sulle “modalità di esecuzione della prestazione”.

Lo smart working agevolato era stato introdotto durante la pandemia di coronavirus come misura per limitare i contagi. Dopo la fine del lockdown e delle chiusure legate all’emergenza sanitaria era stato comunque prorogato diverse volte sia nel settore pubblico che in quello privato. Le agevolazioni per i dipendenti pubblici erano scadute il 31 dicembre 2023, mentre nel privato la proroga finale era stata sancita nel decreto Anticipi dello scorso ottobre e fissava la scadenza per due categorie di dipendenti – i “fragili” e i genitori di under 14, appunto – al 31 marzo 2024.

Dello smart working e dei suoi benefici si è discusso ampiamente in questi anni: con la fine delle agevolazioni non è detto che il lavoro agile scompaia del tutto, ma non sarà più così immediato farvi ricorso. Come detto, il datore di lavoro che vorrà fare ricorso alla modalità flessibile dovrà firmare con ogni dipendente un accordo individuale. Nella disciplina ordinaria dello smart working, alcune categorie di lavoratori manterranno comunque una priorità: si tratta delle richieste dei dipendenti con figli piccoli (al di sotto dei 12 anni di età) o che presentano disabilità (in tal caso senza limiti anagrafici), caregiver o disabili gravi. Rientrare in queste categorie, però, non prevede un automatico diritto al lavoro agile: molto dipende dal datore di lavoro e dal suo riconoscimento o meno di questa modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

 

Fonte: Fanpage

 




Come funziona il sistema previdenziale: proviamo a spiegarlo in modo semplice

Nonostante le tante promesse di questo Governo in campagna elettorale, di fatto con la Legge di Bilancio l’Esecutivo è riuscito a peggiorare ulteriormente l’impianto previdenziale. E’ un tema di forte attualità presso le nostre aziende, sia per le numerose uscite per pensionamento che per gli accordi di esodo.

Per questo motivo, il Dipartimento Previdenza della Fisac Cgil ha predisposto una serie di slides che possono aiutare a comprendere i meccanismi alla base del nostro sistema pensionistico.

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Report Fisac Cgil, inflazione cala ma redditi da lavoro non recuperano

Susy Esposito: “Il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, 11 aprile sciopero”

Inflazione in calo, grazie alla flessione dei prezzi energetici, ma che tende a mantenersi alta nel carrello della spesa. Salari in recupero per effetto della contrattazione ma ancora abbondantemente lontani dal compensare il divario inflattivo. È il quadro delineato dalla nota congiunturale di marzo dell’Ufficio Studi  & Ricerche della Fisac Cgil che si inserisce in un quadro macroeconomico definito “high for longer“, ovvero fatto di tassi di interesse elevati per molto tempo.

In generale, osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, “l’ipotizzato rischio di forte recessione non si è, al momento, palesato nonostante una inflazione in lenta diminuzione e una politica monetaria che continua a essere restrittiva. Ma il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, che grava su dipendenti e pensionati e che incentiva l’evasione mentre intere categorie economiche continuano a non pagare le imposte dovute. Ed è anche per questo che sciopereremo l’11 aprile insieme alla Uil, perché ‘Adesso Basta!’, è ora di una giusta riforma fiscale”.

Inflazione e salari

L’incremento dei salari, spiega la nota congiunturale della Fisac Cgil, “seppur in recupero grazie alla contrattazione, è ancora abbondantemente lontano dal compensare pienamente il divario inflattivo: la decisa decelerazione dell’inflazione nel corso del 2023 ha ridotto la distanza tra la dinamica dei prezzi (Ipca) e le retribuzioni contrattuali a circa tre punti percentuali, meno della metà di quella osservata nel 2022”. Importante rilevare come questo dato, si legge, “sia fortemente influenzato dai rinnovi contrattuali dei settori pubblici, meno da quelli dei settori privati”.

Inoltre, prosegue la nota dell’Ufficio Studi & Ricerche Fisac Cgil, “alla fine del 2023, nei 44 contratti in vigore per la parte economica solo il 47,6% dei dipendenti totali (48% del monte retributivo) risultava coperto mentre ben 6,5 milioni di lavoratori (il 52,6%) attendono il rinnovo dei loro 29 contratti nazionali. Altro dato allarmante, rilevato sempre dall’Istat, è quello per cui il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi del dicembre 2023, in sintesi è andato perduto un ulteriore anno”.

Tassi bancari, depositi e prestiti

Tassi in calo, riporta la Fisac Cgil. L’Euribor a 3 mesi, che a novembre registrava una media del 3,98%, con un picco del 4% di metà mese, si attesta a un livello del 3,90%. Il tasso EurIRS a 10 anni, più sensibile alle dinamiche di lungo periodo, è collocato al 2,63% in discesa rispetto ai livelli di novembre 2023 (pari ad una media superiore al 3%). L’intera curva per durata di questi indicatori si trova oggi abbondantemente sotto la soglia del 3%; l’indicatore trentennale registra, a marzo 2024, valori intorno al 2,3%.

Il calo dei tassi di riferimento però, si rileva nella nota, “non ha ancora determinato una inversione di tendenza: il credito alle famiglie e alle società non finanziarie risulta, a febbraio 2024, ancora in contrazione del 2,7%. Secondo dati rilevati da Crif per il 2023 la domanda di mutui delle famiglie si è ridotta del 17,2% rispetto al 2022 mentre a settembre dello stesso anno i nuovi mutui erogati segnavano il -24% (-5,2% le surroghe)”. Interessante notare “come il 38,8% dei mutui richiesti sia di durata tra i 25/30 anni e che l’età dei richiedenti sia attestata tra i 45 ed i 75 anni per più di un terzo (35,4%) mentre i più giovani ne rappresentino meno del 30%”.

Qualità del credito e sofferenze

Nel primo mese del 2024 risultano in aumento le sofferenze bancarie al netto delle svalutazioni, come rilevato da Abi. L’incremento, pari a 2,2 miliardi di euro (+14,2% rispetto a dicembre 2023) è certamente collegato alle crescenti difficoltà del comparto piccole imprese nel far fronte al costo del credito. “Tuttavia, in termini assoluti, siamo ancora molto lontani – spiega la nota della Fisac Cgil – rispetto al picco di 88,8 miliardi di euro di sofferenze nette raggiunto dal sistema bancario italiano nell’ultimo trimestre 2015”.

Considerazioni

“Viviamo un momento di grandi contraddizioni – osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito -. Alti tassi di interesse fanno aumentare il rischio di un ‘hard landing’, di un atterraggio critico, che presuppone recessione, perdita di posti di lavoro e impoverimento delle famiglie. Eppure queste conseguenze non si sono determinate: siamo in una dimensione di ‘soft landing’ dove però aumentano diseguaglianze e povertà e dove la ricchezza è sempre più polarizzata”.

Il nostro Paese, spiega Esposito, “è completamente immerso in queste contraddizioni, acuite dalle storiche carenze strutturali. Dopo alcuni ed eccezionali anni di crescita, frutto di politiche post pandemia, siamo tornati a valori poco superiori allo zero mentre viene consegnata agli effetti del Pnrr (e dei suoi ritardi ed incognite) una qualche risposta. Le politiche del Governo, che celebra apparenti tassi di occupazione e reddito più elevati, mentre la disoccupazione giovanile continua ad essere la seconda più elevata d’Europa e la precarietà imperversa, ignorano i bisogni della maggioranza di lavoratrici, *lavoratori e *pensionate/i, favorendo viceversa, attraverso il fisco, le fasce più benestanti della popolazione.

Adesso Basta: l’11 aprile sarà sciopero generale, conclude Esposito.

 

Scarica la nota congiunturale a cura dell’Ufficio Studi & Ricerche della Fisac Cgil




Cgil e Uil, giovedì 11 aprile sciopero generale di 4 ore per tutti i settori privati

Cgil e Uil proclamano per tutti i settori privati 4 ore di sciopero generale per giovedì 11 aprile 2024 ed invitano tutte le lavoratrici e i lavoratori a aderire e a partecipare alle iniziative e mobilitazioni che saranno organizzate a livello territoriale.

GLI OBIETTIVI E LE RAGIONI DELLO SCIOPERO SONO:

 

1. ZERO MORTI SUL LAVORO

  • La salute e la sicurezza sul lavoro devono diventare un vincolo per poter esercitare l’attività d’impresa;
  • Cancellare le leggi che negli anni hanno reso il lavoro precario e frammentato;
  • Superare il subappalto a cascata e ripristinare la parità di trattamento economico e normativo per le lavoratrici e i lavoratori di tutti gli appalti pubblici e privati;
  • Rafforzare le attività di vigilanza e prevenzione incrementando le assunzioni nell’Ispettorato del Lavoro e nelle Aziende Sanitarie Locali;
  • Mai al lavoro senza un’adeguata formazione e diritto alla formazione continua per tutte le lavoratrici e i lavoratori;
  • Una vera patente a punti, per tutte le aziende e per tutti i settori, che blocchi le attività alle imprese che non rispettano le norme di sicurezza;
  • Diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di eleggere in tutti i luoghi di lavoro i propri Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza;
  • Obbligo delle imprese ad applicare i CCNL firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative ed al rispetto delle norme sulla sicurezza; quali condizioni per poter accedere a finanziamenti/incentivi pubblici.

 

2. PER UNA GIUSTA RIFORMA FISCALE

Lavoratori dipendenti e Pensionati pagano oltre il 90% del gettito IRPEF, mentre intere categorie economiche continuano a non pagare fino al 70% delle imposte dovute. L’evasione complessiva continua ad essere pari a 90 miliardi all’anno.

  • La delega che il governo sta applicando invece di combattere l’evasione fiscale e contributiva introduce nuove sanatorie, condoni e concordati. Non tassa gli extraprofitti, favorisce le rendite finanziare e immobiliari, il lavoro autonomo benestante e le grandi ricchezze; Questa impostazione del governo va contrastata ed invertita:
  • È necessario ridurre la tassazione sul lavoro dipendente ed i pensionati, tassare le rendite e contrastare l’evasione;
  • Promuovere così un fisco progressivo abolendo la flat tax, estendendo la base imponibile dell’IRPEF a tutti i redditi;
  • Indicizzare all’inflazione reale le detrazioni da lavoro e da pensione e detassare gli aumenti contrattuali;
  • Occorre andare a prendere le risorse dove sono per finanziare sanità istruzionenon autosufficienzadiritti sociali e investimenti pubblici.

 

3. PER UN NUOVO MODELLO SOCIALE E DI FARE IMPRESA

Vogliamo rimettere al centro delle politiche economiche e sociali del governo e delle Imprese il valore del lavoro a partire dal rinnovo dei CONTRATTI NAZIONALI e da una legge sulla rappresentanza, la centralità della salute e della persona, la qualità di un’occupazione stabile e non precaria, una seria riforma delle pensioni, il rilancio degli investimenti pubblici e privati per riconvertire e innovare il nostro sistema produttivo e puntare alla piena e buona occupazione a partire dal Mezzogiorno.

 

Scarica il volantino




Credito Cooperativo: definito il testo del nuovo Contratto CCB

3 - Fisac Cgil

Delegazione sindacale Gruppo Cassa Centrale Banca


 

Alle lavoratrici e lavoratori
delle BCC e delle Società
del Gruppo Cassa Centrale Banca
Loro sedi

Definito il testo del nuovo contratto integrativo del Gruppo Cassa Centrale Banca

L’accordo del 1° dicembre scorso impegnava Capogruppo e Delegazione sindacale di Gruppo a definire un testo coordinato del Contratto Integrativo di Gruppo che raccogliesse tutta la relativa normativa.

Dopo vari incontri tenutisi in sede tecnica, abbiamo definito il testo coordinato del Contratto Integrativo del Gruppo Cassa Centrale Banca, approvato nella giornata di ieri anche dalla Delegazione Datoriale.

Il testo armonizza gli accordi sottoscritti il 1° giugno e il 1° dicembre 2023 e contiene, facendone diventare parte integrante, i contratti integrativi di secondo livello stipulati con le Aziende del Gruppo e con le Federazioni locali e che continuano a trovare applicazione presso le diverse aziende e BCC già destinatarie, per le materie non trattate nel CIG.

Un risultato importante e non scontato perché fa “vivere” nel C.I.G. i contratti regionali previgenti, che rischiavano altrimenti di essere persi. Inoltre, con questo lavoro, abbiamo voluto raccogliere in un unico documento tutta la normativa applicata nel Gruppo, favorendone in tal modo la consultazione.

Rimaniamo a disposizione per qualsiasi chiarimento e salutiamo cordialmente.

Trento, 26 marzo 2024

 

LA DELEGAZIONE SINDACALE DI GRUPPO
FABI – FIRST/CISL – FISAC/CGIL – UGL CREDITO – UILCA

 

ALLEGATI:

 




La decontribuzione fa danni

Tutti i bonus e il cuneo fiscale aumentano il peso sul fronte tributario


 

Secondo quanto emerge dal Rapporto Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente invariati con una crescita dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’Area OCSE, soprattutto per la bassa produttività del lavoro. Anche l’OCSE rileva che negli ultimi 30 anni l’Italia è l’unico Paese in cui si è avuta una perdita dei salari reali del 2,9%: nell’Est Europa le retribuzioni sono raddoppiate. E negli altri Paesi troviamo il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca, il +33% della Germania , il +31% della Francia, il +25% di Belgio e Austria e perfino il +14% del Portogallo e il +6% della Spagna.

Che cosa si può fare per rimediare a questa perdita e migliorare le condizioni retributive dei lavoratori rendendole più appetibili rispetto al lavoro irregolare che riguarda circa 3,2 milioni (dato Istat) pari a circa 80 miliardi di compensi sottratti al fisco e all’Inps?
In primis ci dovrebbero pensare la parti sociali che, dopo l’abolizione della scala mobile nel 1992, hanno l’onere e il ruolo di mantenere il potere reale e di acquisto tramite i rinnovi contrattuali di primo e secondo livello. Invece da noi, per mettere più soldi in busta paga o ridurre il costo del lavoro e favore le assunzioni, vista anche la crisi della contrattualità, le forze sindacali e politiche hanno optato per mettere a carico della fiscalità (cioè dei pochi che pagano le tasse) questi oneri attraverso la riduzione del cuneo contributivo.
Per il 2024 di bonus ne sono previsti tantissimi: uno sgravio del 7% della contribuzione Ivs per i lavoratori con redditi fino a 25.000 € (1.923 €/mese per 12 mensilità) e del 6% per quelli con redditi inferiori ai fatidici 35.000 € (2.692 €/mese, tredicesima esclusa). E poi il 30% di sgravi contributivi al Sud ma solo fino al 30 giugno perché ritenuti aiuti di Stato dalla Commissione Europea, sgravi per le assunzioni di giovani (bonus giovani), bonus percettori dell’Adi (assegno di inclusione che ha sostituito il Reddito di Cittadinanza e il Sfl (supporto Formazione e Lavoro), bonus part-time e agevolazioni per le donne vittime di violenza, i disoccupato, le donne in generale e gli over 50; un numero elevato di sgravi che produce un mancato gettito per l’INPS di circa 15 miliardi.

Sulla decontribuzione Bankitalia ha dichiarato, nell’audizione sulla Legge di Bilancio, che: “Se il taglio del cuneo contributivo fosse reso permanente, tale riduzione degli oneri previdenziali a carico dei lavoratori modificherebbe il nesso tra contributi versati e benefici erogati alla base del sistema pensionistico contributivo, con conseguenze che andrebbero attentamente valutate”. In pratica lo Stato finge di incassare i contributi che invece vanno a favore di lavoratori e imprese, e poi tramite le tasse manda i soldi all’Inps per un costo annuale di oltre 24 miliardi, quasi l’intero deficit dell’Inps.

 

Estratti dall’articolo di Alberto Brambilla sul Corriere Economia del 25/3/2024




Avvio della trattativa per il rinnovo del CCNL del Credito Cooperativo

3 - Fisac Cgil

Si è tenuto nel pomeriggio di giovedì 21 marzo il primo incontro tra le Segreterie Nazionali delle Organizzazioni Sindacali e la Delegazione Sindacale di Federcasse per l’avvio del negoziato di rinnovo del Ccnl, dopo l’invio della piattaforma il 1° marzo scorso, al termine della tornata assembleare che ha portato alla sua approvazione a larghissima maggioranza, con un consenso del 99%.

Le Organizzazioni Sindacali hanno illustrato le tematiche presenti in piattaforma con una visione complessiva sul senso di questo rinnovo contrattuale, che vuole proseguire il percorso di adeguamento ed innovazione iniziato nel 2019 e proseguito nel 2022, che deve trovare ora una fase di compimento per una cornice economica e normativa distintiva del settore ed al passo con i tempi.

Tra i principali temi e ambiti con i quali si avvierà il confronto negoziale con Federcasse si prevede:

  • rafforzamento dell’area contrattuale, anche attraverso l’avvio istituzionale degli enti bilaterali, per impiegare fin da subito le risorse disponibili a sostegno dell’occupazione, occupabilità e formazione;
  • adeguamento delle retribuzioni a fronte dell’erosione inflattiva degli stipendi ed in considerazione della maggiore produttività del settore, che ha registrato ragguardevoli risultati economici raggiunti anche al sostanziale contributo delle Lavoratrici e dei Lavoratori in anni di forte trasformazione del Credito Cooperativo;
  • organizzazione del lavoro, con la richiesta di riduzione dell’orario a 35 ore, e prosecuzione del confronto sugli inquadramenti dopo l’accordo del 2 agosto scorso, oltre ad una approfondita disamina sul lavoro agile e telelavoro;
  • forme di partecipazione da definire nell’ambito della contrattazione collettiva;
  • welfare, con rafforzamento della previdenza complementare, delle casse sanitarie, della LTC, anche in raccordo con le buone prassi e con le previsioni dei Gruppi;
  • area conciliazione tempi di vita e di lavoro, azioni sociali, valori Esg.

Una piattaforma targata Credito Cooperativo per un rinnovo di contratto su cui le Segreterie Nazionali di Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Ugl Credito e Uilca, unitariamente, esprimono la ferma volontà di avviare una fase di rinnovo contrattuale che dia risposte concrete ed esigibili in tempi rapidi a tutte le Lavoratrici ed i Lavoratori del nostro settore e ribadiscono la necessità di tenere separati e non sovrapposti i livelli contrattuali (CCNL e Contratti Integrativi).

Secondo la disponibilità datoriale, i prossimi incontri sono previsti a partire dall’indomani del primo Consiglio Nazionale di Federcasse utile del 19 aprile e sono pertanto stati agendati nelle giornate del 22 aprile, 7 maggio e 30 maggio. Dal prossimo incontro diventerà quindi del tutto evidente la volontà politica di controparte di sviluppare un percorso di rinnovo produttivo ed intensivo nel rispetto delle legittime attese e prerogative di tutte le Lavoratrici e i Lavoratori del settore. In tal senso confidiamo in una maggiore disponibilità di controparte nel proporre ulteriori date di incontro.

Roma, 21/03/2024

Le Segreterie Nazionali
FABI – FIRST/CISL – FISAC/CGIL – UGL CREDITO – UILCA




Che lavoro! A 6 milioni di dipendenti 11mila € l’anno

Quasi 6 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 11 mila euro lordi all’anno. In pratica, un dipendente su tre porta a casa mediamente meno di 850 euro netti al mese. E se consideriamo la fascia che va fino a massimo 17 mila euro – quindi appena 1.200 netti mensili – contiamo altri due milioni di persone. Il tema del lavoro povero ha diverse sfaccettature. Negli ultimi mesi il dibattito si è concentrato sul problema del basso salario orario, ma questo non è l’unico e forse neppure il più grave. Ieri la Cgil ha diffuso nuove rielaborazioni di dati Inps nell’ambito della campagna contro il precariato lanciata nelle scorse settimane dal sindacato guidato da Maurizio Landini.

Il focus si concentra non sui salari orari ma sui redditi annui, che dipendono anche da quanto effettivamente le persone lavorano: per quanti mesi dell’anno o per quante ore alla settimana. Dai numeri emerge con chiarezza quello che nel nostro Paese sta comportando la sotto-occupazione, cioè l’eccesso di lavoretti, di part time involontario, di domanda di lavoro stagionale e a bassa specializzazione: un esercito di addetti con redditi insufficienti a una vita dignitosa. Ecco perché il motivo non è solo nei minimi salariali molto bassi di alcuni contratti collettivi, ma anche dalla scarsa intensità dei loro impieghi, molto discontinui.

Ricapitolando: oltre 2,4 milioni di lavoratori guadagnano meno di 5 mila euro annui. Di questi, 1,8 milioni – quindi la maggior parte – è retribuita per un periodo di massimo tre mesi. Ma attenzione perché abbiamo quasi 50 mila lavoratori che non superano i 5 mila euro pur essendo in servizio per tutto l’anno. Se estendiamo lo sguardo all’intera fascia sotto i 10 mila euro, abbiamo ben 324 mila persone che hanno guadagni sotto quella soglia pur essendo retribuiti per l’intero anno. Questo vuol dire che parliamo di persone che lavorano part time per tutto l’anno o che, pur avendo un full time, hanno stipendi miseri. Insomma, il lavoro povero è la sintesi di un misto di fattori: bassi salari e carriere spezzettate. Entrambi gli elementi sono ignorati dal governo, che ha deciso di non introdurre il salario minimo per legge e ha approvato nell’ultimo anno e mezzo una serie di provvedimenti che incentivano ulteriormente l’utilizzo di contratti precari da parte delle imprese. C’è sicuramente, sullo sfondo di questi numeri, pure l’effetto del lavoro irregolare, ma questo è difficile da quantificare e comunque non sminuisce il problema.

Il confronto tra Italia ed Europa resta impietoso. Da noi un dipendente a tempo pieno guadagna in media 31.500 euro all’anno, contro i 45.500 della Germania e i 41.700 della Francia. Se consideriamo i quasi 17 milioni di dipendenti italiani, la retribuzione media è di 22.839 euro lordi all’anno. Tra questi abbiamo 7,9 milioni di dipendenti discontinui e 2,2 milioni di part time per tutto l’anno. Tutti questi dati si riferiscono all’ultimo aggiornamento disponibile, del 2022. “La situazione non è certo migliorata nel 2023 – aggiunge Christian Ferrari, segretario confederale Cgil – anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%, cumulandosi con quella dei due anni precedenti, raggiungendo un totale del 17,3%”.

Di fronte a questo scenario che spiega la scarsa solidità del nostro mercato del lavoro, il governo continua a rallegrarsi dei dati sull’occupazione. La ministra del Lavoro Marina Calderone parla di numeri “confortanti” e sventola continuamente i dati sulle assunzioni previste dalle imprese, ma come al solito si ignora la qualità di questi posti: secondo lo stesso bollettino Anpal-UnionCamere, che pure è una fonte molto cara a Calderone, a febbraio le imprese prevedevano quasi 408 mila entrate, ma solo il 20% a tempo indeterminato, più un altro 5% in apprendistato. Ben il 52% è a tempo determinato, un altro 10% in somministrazione, un altro 9% ancora con contratti di collaborazione.

Sono le forme contrattuali che contribuiscono a formare il precariato e a determinare i bassi redditi.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 17 marzo 2024




Le priorità del Governo: “revocate quell’onorificenza!”

Quali sono le priorità del Governo? Il lavoro? La pace? La sanità? La Scuola? No. Per qualche settimana la priorità è stato il Maresciallo Tito, pseudonimo con cui è passato alla storia Josip Broz.

Facciamo subito chiarezza: la figura di Tito non è sicuramente da prendere ad esempio. Durante la seconda guerra mondiale guidò la lotta partigiana che portò la Jugoslavia a liberarsi dall’invasione nazifascista (ed è bene ricordare che gli invasori non erano solo i Tedeschi, ma anche i fascisti Italiani che, in quanto a brutalità, non furono da meno). Dopo la guerra diventò presidente della Federazione Jugoslavia, dapprima come repubblica socialista soggetta al controllo all’Unione Sovietica, con la quale ruppe nel 1948. Tito trasformò la Repubblica Jugoslava in una dittatura, dura e spietata con gli oppositori. Una dittatura che non sopravvisse alla sua morte, avvenuta nel 1980, con la successiva dissoluzione della Jugoslavia avvenuta attraverso 10 anni di guerre sanguinarie tra i vari territori.

Nel 1969, durante una visita di Stato in Italia, Tito ricevette l’onorificenza di Cavaliere di Gran Cordone della Repubblica Italiana.

Fatto questo breve ripasso di storia, veniamo all’attualità. A partire dal 2004 è stata istituita in Italia la Giornata del Ricordo, a memoria degli orrendi eccidi delle foibe. In merito alle ragioni che portarono all’istituzione di questa giornata abbiamo riportato la spiegazione del prof. Alessandro Barbero in questo articolo:

La verità sulle foibe

Si tratta di una ricorrenza tragica, che merita di essere ricordata, ma che finisce per essere strumentalizzata dai partiti di destra che ne fanno una specie di contraltare rispetto alla festa del 25 aprile, che così non è più il giorno della Liberazione dal nazifascismo, trasformandosi nel giorno di “E allora le foibe?”

E cosa inventarsi, all’approssimarsi del 20° anniversario dall’istituzione della Giornata del Ricordo, per accentuare l’effetto propagandistico di questa ricorrenza? Qualcuno si è ricordato che Tito era il capo di quei partigiani che, per rappresaglia contro le atrocità degli invasori nazifasciste (dettaglio che di solito viene trascurato quando si rievoca questo che resta, comunque, un crimine di guerra), decisero di sfogarsi contro la popolazione inerme di lingua italiana: per questo bisognava assolutamente togliergli l’onorificenza conferitagli dalla Repubblica Italiana. Trascurando un piccolo dettaglio: Tito è morto da 44 anni.

Eppure questo obiettivo era talmente stringente da dedicargli non uno, ma ben tre disegni di legge. Che sono stati discussi, prima di arrivare alla Camera, presso la Costituzione Affari Costituzionali.
Il tema è stato oggetto di diverse riunioni, tra la pressione dei rappresentanti del Governo e le resistenze dell’opposizione, che portavano argomenti come: “Non si può riscrivere la storia. Parliamo di un’onorificenza di 55 anni fa” oppure “Allora togliamo anche a Mussolini il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia”. Posizioni totalmente incompatibili che, a quanto si apprende dalle cronache parlamentari, hanno portato a liti furibonde tra gli esponenti dei vari partiti.
Una situazione senza via d’uscita.

Alla fine, a riportare un minimo di buon senso ci ha pensato il Quirinale, pubblicando sul suo sito questa precisazione. In un riquadro, in neretto, è riportato quanto avrebbe dovuto essere scontato fin dal primo momento:

Le onorificenze sono legate alla esistenza in vita dell’insignito e decadono con la sua morte.

Quindi tutto è bene quel che finisce bene: fine delle ostilità, abbiamo scherzato, va bene così.

A parte una domanda che ci frulla nella testa: ma davvero paghiamo dei parlamentari per perdere settimane con questioni così spudoratamente inconsistenti e inutili?

 




Seduzioni governative verso la “Supply Side Economics”?

John Fitzgerald Kennedy, in un messaggio all’ONU del 25 settembre 1961, nel periodo più caldo della guerra fredda, non ebbe paura di dire che “L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità”.

Lo stesso, nell’anno successivo, quando indusse l’industria siderurgica a ritrattare gli aumenti dei prezzi mentre il governo americano imponeva l’avvio di grandi iniziative pubbliche come le missioni spaziali, la guerra alla miseria ed i programmi assistenziali (medicare e medicaid), fece la seguente battuta poco edificante per il sistema economico degli USA: “tutti gli uomini di affari sono bastardi”.

Ora queste due affermazioni sembrano di grande attualità ed utilità in quanto ci portano a chiederci se è vero o non è vero che la guerra sia provocata dalla logica capitalistica del profitto a qualsiasi condizione e in qualunque modo.  Finita la guerra fredda, l’economia presenta una crescita economica lenta nel mondo industrializzato, unito alla stagnazione o addirittura alla flessione dei redditi della maggioranza dei lavoratori con una crescente disuguaglianza, segnale anche di una altra tendenza che rappresenterà anche essa un fattore scatenante della nuova crisi del capitalismo, ossia l’aumento insostenibile dell’indebitamento dei lavoratori medi.

Molti avevano riposto fiducia a fine secolo sulla nascita e sullo sviluppo dell’industria dell’high tech e della conseguente nuova economia di servizi, ma i fatti hanno dimostrato che anche su queste ha dominato l’ascesa del settore finanziario, con la sua prosperante supremazia sui settori dell’economia reale che producono beni e servizi e lavoro. Come soluzione l’America ha accantonato la ragione per lasciare spazio alla fede nella Supply Side Economics o economia delle offerte. Questa è divenuta la fede ufficiale della libera impresa abbracciata con entusiasmo dall’amministrazione Reagan. Infatti, gli economisti del supply side si erano impadroniti della politica fiscale USA sostenendo talaltro la singolare tesi che abbassare le imposte avrebbe stimolato (o incentivato, per usare il termine da essi amato e che oggi qualche nostro politico si pregia di utilizzare) l’economia ad un livello tale che un taglio colossale delle tasse (imposte dirette) avrebbe nientemeno determinato il pareggio di bilancio (ovviamente attuando anche forti riduzioni della spesa pubblica). In questa follia collettiva, spunta anche la figura populista dell’uomo d’affari, di un valoroso venuto su dal nulla, un vero eroe popolare del sistema della libera impresa in grado di aiutare tutti, comprese le minoranze etniche ispano-americane.

I fatti, ossia il forte aumento del deficit nazionale USA durante le amministrazioni Reagan e Bush, hanno smontato il caposaldo teorico della supply side economy, secondo cui riducendo fortemente le aliquote delle imposte sui redditi si stimolerebbe un conseguente aumento dei redditi e dei consumi al punto che, anche riducendo le tasse, il gettito fiscale sarebbe sufficiente a compensare tale riduzione. Quale che sia l’andamento della spesa pubblica, i tagli alle imposte da un lato possono forse stimolare la crescita dei redditi, ma dall’altro è certo che, aumentando i redditi disponibili, non si ottengano dei risultati soddisfacenti, in quanto i maggiori introiti vengono destinati dai lavoratori medio-alti sia alla spesa che al risparmio privato, e dai redditieri, nella nuova economia globale, principalmente per pagare l’importazione (di beni e servizi di pregio). A giustificazione di quanto detto è risultato che, durante la Presidenza Reagan, si è avuto un aumento del deficit pubblico e del disavanzo al bilancio commerciale (addirittura quadruplicato).

Ovviamente, questa politica, fornendo una scusa socialmente accettabile per ridurre le imposte, nel tranquillizzare le coscienze è divenuta un potente strumento per raccogliere consensi e finanziamenti per il partito repubblicano, in particolare tra le persone benestanti. Ora, possiamo dire che non sono in errore coloro che sostengono che la globalizzazione renda l’economia dell’offerta ancora più nociva per la collettività di quanto dimostri il suo recente passato perché il suo caposaldo, che si basa sulla tesi di imposte basse per stimolare l’aumento dei redditi e di conseguenza il gettito fiscale, è contraddetto dal semplice fatto che una percentuale considerevole del denaro non versata al fisco viene indirizzata sull’estero per l’acquisto di beni e servizi. Eppure sembra che, anche nei nostri giorni, il capitalismo nordamericano torni ad imporre ai paesi politicamente satelliti (deboli) questa azzardata politica economica. Infatti, su queste logiche siamo oramai bersagliati a casa nostra a livello mediatico dai partiti al governo, i quali rivendicano in continuità di avere effettuato il taglio delle tasse più importante degli ultimi decenni (vedi Ansa, il Sole 24 Ore, ecc.), arrivando a parlare di pizzo di stato e di condoni tombali, in una logica di meno tasse uguale più redditi per tutti.

Forse rammentare quanto accaduto nel recente passato in gran parte dei paesi dell’America Latina può essere illuminante.  L’Argentina, ad esempio, ha subito ripetute svolte reazionarie che hanno provocato violente tensioni sociali. Le dittature militari, instaurate con il supporto nordamericano, hanno seguito come obiettivo economico la riduzione drastica delle retribuzioni reali e una energica riduzione delle spese pubbliche, sia in termini di spese sociali, che di infrastrutture e promozione dello sviluppo industriale, in linea con la politica neoliberista ispirata alle teorie di Milton Friedman. Inoltre, sono stati progressivamente ridotti i dazi protettivi per facilitare le importazioni nordamericane, con conseguente flessione dell’industria manifatturiera e fallimento di un certo numero di imprese, il tutto per stremare un settore nel quale le masse operaie potevano ancora esercitare pressioni sulla classe dirigente. In sintesi, mentre da un lato si è prodotto il ristagno delle retribuzioni, la flessione dell’occupazione, l’arresto nello sviluppo dell’industria manifatturiera, dall’altro è stato dato un forte sostegno all’industria mineraria e all’agricoltura nelle mani del grande capitale, con un aumento dei redditi dei capitalisti e delle aziende familiari. Purtroppo sono diminuite le produzioni di beni di consumo popolare e sono aumentate quelle degli altri beni, in particolare dei beni di importazione.

In altre parole, la politica di sostituzione delle importazioni con produzione interne, che nel passato era stata seguita con successo, è stata soppiantata da una politica di sostituzione di certe produzioni interne con importazioni, e di conseguenza è cresciuto il deficit della bilancia commerciale. Questo deficit, per un certo periodo, è stato colmato da un afflusso netto di capitali che sono entrati nel paese, sia per la stabilità politica assicurata dalla dittatura, sia per gli alti guadagni attesi. Purtroppo, il forte spostamento del reddito nazionale a favore dei redditi capitalistici e contro i redditi da lavoro implica interessi crescenti e questo afflusso di capitali di debito ha comportato a mano a mano un enorme onere, sotto forma di un servizio del debito (per ammortamenti e interessi), che ha attivato una spirale che ha reso via via più critica la situazione economica del paese fino al fallimento. Non possiamo non ricordare che oggi tra i paesi con i più onerosi servizi del debito troviamo anche il nostro, il quale, nonostante il collocamento continuo dei titoli del tesoro, vive condizioni finanziarie difficili, poiché l’indebitamento con l’estero è principalmente la conseguenza di impieghi speculativi incentivati dagli alti interessi reali. E’ superfluo rammentare che la distinzione tra impieghi propriamente produttivi e impieghi speculativi è data semplicemente dal fatto che sono impieghi produttivi quelli che danno luogo ad un aumento del reddito nazionale, mentre sono investimenti speculativi quelli che in sé e per sé comportano solamente una redistribuzione del reddito a vantaggio di alcuni (capitalisti) e a danno di altri (la massa dei lavoratori consumatori), e non un suo accrescimento.

Morale della favola, la politica della riduzione delle tasse alle classi agiate (imposte dirette) e la tolleranza dell’evasione fiscale significa unicamente accettare di intraprendere un viaggio senza ritorno.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale
Fisac Chieti