Vite in subappalto


Anche quando tutto è per così dire in regola, cioè quando non ci sono lavoratori clandestini senza carte presi a giornata, morti che da vivi chiamavi solo per nome, Mustafà, Karima, Gezim, ché non ne hai mai saputo il cognome. Anche quando sono subappalti, esternalizzazioni, contratti a progetto a norma di legge vigente: quando insomma l’azienda madre preferisce far fare ad altri un lavoro che in origine faceva fare ai suoi. Ecco: anche quando è tutto a posto c’è qualcosa, in questo sistema, che non va.

Bisognerebbe fermarsi un momento, mettersi seduti e ragionarci in modo semplice, chiaro. Quello che conviene all’azienda madre non è detto che convenga ai lavoratori (quasi mai) né ai consumatori, a noi.
Paghiamo forse meno le bollette, le prestazioni mediche, i libri o i giornali da quando le aziende – pubbliche o private – hanno deciso di chiudere interi comparti, mandare a casa decine di dipendenti e affidare a ditte esterne il lavoro che prima facevano gli interni?
Non  i pare. Non mi pare che il ticket per un’ecografia costi meno se a farla è un medico contrattista, cioè un medico che guadagna di più a fare da esterno (chiamato a contratto, anche giornaliero) la stessa cosa che faceva o avrebbe fatto da interno. Noi paghiamo lo stesso prezzo, il medico prende di più a giornata ma perde in garanzie, in continuità assicurazione pensione, tutele. Lavora a cottimo, diciamo. Meglio un uovo oggi, eccetera.
L’azienda spende meno e ci guadagna, almeno apparentemente: almeno fino a che non arriva un disastro, un’inchiesta, una domanda di risarcimento milionaria. Il lavoro è più precario. Il servizio è meno accurato.

In certe aziende editoriali e culturali, il settore che conosco meglio, storici editori e produttori hanno da molti anni chiuso comparti come l’archivio, ora automatizzato, la moderazione dei commenti (prima era la risposta alle lettere), la produzione di video, la post produzione (montaggio, suono, colore), la correzione dei testi, la traduzione, la segretaria organizzativa e a volte la produzione stessa di eventi dal vivo. Si affidano a professionisti esterni. Ottimo, no? Perché così lavorano persone che non avrebbero mai lavorato, nessuno ti assume più come interno se non con la pistola del sindacato puntata alla tempia e sempre in cambio di prepensionamenti più o meno “volontari”, il cosiddetto “snellimento” della forza lavoro.

Ma il risultato della dieta non è sempre lo stesso. Un conto è alzare il telefono e parlare con qualcuno che ne sa più di te perché in azienda fa quel mestiere da anni, ti orienta e ti tutela, un altro è mandare una mail a Kevin che oggi non è di turno e ti risponderà domani Loredana che però non è al corrente del problema perché non era di turno ieri, e comunque è ormai troppo tardi, il rullo corre, è andata com’è andata e speriamo bene.
Il prezzo finale del prodotto, ripeto, non cambia. Anzi talvolta aumenta: La sua qualità s’impoverisce. I lavoratori sono a cottimo. Chi risparmia è uno solo.

“La sicurezza sul lavoro è un dovere. Non è un costo né un lusso” ha detto il cardinale Matteo Maria Zuppi a Bologna a proposito della tragedia di Suviana.
Meno male che Zuppi c’è, citando. La sicurezza, la continuità, le tutele. Quello che conviene all’azienda – pagare gente fuori per non tenere gente dentro – non è detto, vedete, che convenga a chi lavora.

Non dico che, se fossero stati interni, i sette lavoratori morti nell’esplosione della centrale di Bargi non sarebbero morti. Dico che avrebbero avuto , le famiglie , più semplice e diretta tutela legale. Pensione, assicurazione legale, risarcimento. Per quel che conta, e conta molto, sarebbe stata l’azienda a farsene carico. Non un’inchiesta giudiziaria che dovrà appurare, nei tempi biblici della giustizia, responsabilità e regolarità dei subappalti: è sempre qualcun altro il colpevole.

C’era un tempo, me lo ricordo bene perché mio nonno lavorava in fabbrica, in cui se qualcosa ti capitava era l’azienda a prendersi cura di te, della tua famiglia, dei figli a cui talvolta la ditta assicurava la continuità negli studi e persino un lavoro. Era un altro mondo, lo so.
Ma era peggiore di questo? Siamo andati verso un progresso sociale, collettivo, con le esternalizzazioni e le liberalizzazioni o solo verso l’interesse economico dell’imprenditore?

Non so se avete visto le immagini del luogo del disastro, a Bargi. Sono le stanze degli incubi. Ventimila leghe sotto il lago. Una miniera – minatori – ma sott’acqua. Senza luce naturale, senza aria viva, la pressione del lago alle pareti. Lavoravano a 54 metri sotto la superficie. A meno otto, meno nove sono esplose le turbine (o quel che è successo, l’inchiesta dirà).
Erano tutti esperti, erano quasi tutti esterni. Uno dei morti, Mario Pisani, aveva 73 anni. Era andato in pensione e ora lavorava come consulente con una sua società. Va bene così?

“Non c’è nessun  problema nell’affidare lavori in subappalto” ha detto il Procuratore che indaga. E’ previsto dalla legge, si può. Resta da chiedersi perché, a vantaggio di chi.
Se vendo dieci pezzi a cento euro o dodici pezzi a novanta guadagno lo stesso, sempre mille sono. Ma mi conviene venderne dieci a cento, perché altrimenti dovrei lavorare di più; dodici manovre sono più di dieci, costano turni, personale. contributi. Se subappalto un collaudo spendo meno.
Poi ci sono le vite. Il ricatto del lavoro, o così o niente, ci sono le famiglie, le storie ferite, i lutti con cui per sempre d’ora in avanti fare i conti.
Ci siamo noi. Il mondo che abbiamo immaginato, quello che abbiamo lasciato diventasse. Senza protestare troppo perché in fondo – persino ventimila leghe laggiù sott’acqua – o così o niente.

Che terribile orizzonte di speranza stiamo lasciando a chi arriva.

Articolo di Concita De Gregorio su Repubblica del 14/4/2024

 

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