Un mondo di governi pubblici deboli e di banche centrali private forti


Oramai si è diffusa l’idea che sono i dirigenti belle banche centrali che consentono al capitale di spadroneggiare. La tesi da molti sostenuta si basa sul fatto che le banche centrali, le quali sono quasi sempre enti privati, hanno di fatto sancito che, nella economia globalizzata del dopo guerra fredda, i lavoratori delle industrie e del terziario del mondo, ossia gli eredi “necessari” del capitalismo, debbano condurre una vita da miserabili. A supporto vengono mostrati i dati storici che mostrano che la loro politica è quella di tollerare tassi di crescita sostenuti (dal 5% in su) nei paesi emergenti e di respingere ogni tentativo di una crescita economica rapida nei paesi industrializzati, evidentemente per evitare gli effetti di un rialzo anche minimo del tasso di inflazione.

Molti sostengono che, invece che bilanciare gli interessi tra chi non dispone di un capitale di partenza (che possiamo definire i proletari del nuovo millennio, ossia, coloro che per vivere possono contare unicamente sulla retribuzione derivante dall’offerta a terzi del loro lavoro) e deve indebitarsi e chi possiede capitali da dare in prestito, hanno permesso che l’economia del mondo industrializzato fosse diretta in modo che gli interessi dei debitori, ossia delle maggioranza delle giovani famiglie di lavoratori subordinati,  venissero immolati agli interessi dei capitalisti creditori, cioè dei banchieri e di coloro che hanno vissuto e vivono dei capitali investiti nel mercato azionario.

Se osserviamo gli USA, verifichiamo che gli Stati Uniti stanno vivendo una fase storica in cui la finanza domina su tutto; al centro di questa strana cultura si colloca la borsa e come strumento di azione abbiamo i money managers, anziché le fabbriche e/o i laboratori di ricerca. Sembra che i laureati che vengono fuori dalle grandi scuole di amministrazione aziendale del paese (come Harvard o Stanford) si dirigano di corsa verso le banche di investimenti anziché orientarsi verso un lavoro nell’ambito della economia reale. Ora possiamo accettare con un buon grado di convinzione che storicamente la finanziarizzazione della società è stato un segnale che la posizione economica di un paese sia entrata in una fase di declino.

Alla metà del 1700 le élite olandesi (l’Olanda è il primo paese dove si afferma il capitalismo) erano ormai ridotte ad un piccolo gruppo di speculatori e di redditieri, i quali percepivano redditi non derivanti dal lavoro, ma da capitali (prestavano denaro a qualsiasi monarca). Poi la Gran Bretagna (secondo paese dove si è affermato con forza  il sistema capitalistico) si trovò in una fase simile nel primo decennio del 1900: mentre  la sua industria manifatturiera perdeva terreno, il settore dei servizi finanziari divenne estremamente forte e la sua élite di banchieri e rentiers, i quali controllavano quasi la metà dei capitali di rischio di tutto il mondo,  erano convinti che le attività e gli investimenti finanziari avrebbero neutralizzato qualsiasi crisi dell’industria (in particolare la tessile, la  siderurgica e la cantieristica navale, tridente vincente della produzione anglosassone). È evidente che questi finanzieri avevano torto marcio ed è sempre più chiaro che hanno torto anche coloro che oggi inneggiano alla saggezza delle borse.

Pressando su un ambiente economico in cui i tassi di interesse al netto dell’inflazione sono e permangono alti, i capi delle banche centrali del mondo industrializzato hanno rappresentato un gigantesco trasferimento di reddito dalle famiglie (e anche dalle piccole imprese) alle banche ed alle istituzioni finanziarie internazionali per agevolare la trasformazione del mondo del capitalismo industriale in un mondo del capitalismo finanziario e i lavoratori sono diventati le vittime di questo imbroglio. È assurdo, ma, vediamo molti lavoratori trasformati in una bizzarra modernità del ventunesimo secolo, in una classe di pseudo-capitalisti che fa il tifo per gli interessi del capitale, perché il lavoro non basta più a pagare le bollette, mentre gli investimenti borsistici, anche marginali, danno l’illusione di un futuro migliore.

Oramai tutti viviamo in un mondo di governi deboli e di banche centrali forti come conseguenza dell’emergere della nuova economia globale: nessun settore dell’economia è stato più rapido di quello finanziario nel trasformare la potente combinazione di globalizzazione e nuove tecnologie in una macchina per fare soldi (siamo in una nuova era del capitalismo finanziario). Da questo possiamo chiederci se i capi delle banche centrali del mondo, ai quali era stato affidato dai governi ancora sovrani il compito di tenere sotto controllo la finanza, non siano stati trasformati in schiavi dai capitalisti padroni del nuovo mondo della finanza. Ricordiamo che all’inizio degli anni 70, prima che l’economia globale fosse congiunta tramite la rete ai megabyte, l’ammontare totale in dollari delle transazioni finanziarie condotte dalle imprese degli Stati Uniti  sui mercati azionari nell’arco di un anno intero era inferiore al prodotto nazionale degli USA, ma dalla fine degli anni 90, grazie alle transazioni elettroniche, gli scambi dei settori  finanziari hanno raggiunto un volume annuo totale incomparabile con il volume d’affari dell’economia reale (anche se è nell’economia reale che ci si guadagna da vivere). In sostanza, sembra che con la fine della guerra fredda e l’emergere della nuova economia globale i leader del mondo finanziario abbiano rimpiazzato le gerarchie del complesso industriale militare nel ruolo di big dell’economia.

Dalla fine della guerra fredda Washington ha consacrato i suoi sforzi ad appagare le esigenze del settore finanziario, e con la deregulation finanziaria ha offerto alle istituzioni finanziarie la libertà di ampliare le proprie attività e – tra l’altro – di giovarsi  della capacità di effettuare prestiti ad interesse elevato. L’inclinazione ad assegnare poteri crescenti alle banche centrali è affiorata per effetto dell’inflazione determinata dalla politica del presidente Johnson in materia di finanziamento della guerra nel Vietnam, si è poi rafforzata dopo l’embargo petrolifero decretato dallo Opec nel 1973 e, dopo la fine della guerra fredda, le banche centrali hanno incominciato a guidare completamente la politica economica. La globalizzazione dei mercati finanziari non ha fatto che spingere le  banche centrali a tutelare gli interessi di credito; infatti i proprietari di capitali liquidi temono l’inflazione quindi, in un mondo dove il capitale può spostarsi velocemente e scarseggia rispetto all’eccesso di domanda di manodopera disponibile, si è riscontrato un trasloco di potere verso tutte le istituzioni che hanno un interesse ad evitare l’inflazione, come le banche e il mercato azionario, il quale è un mercato aperto dei prestiti, dominato dai creditori e che tende quindi a fare i loro interessi.

E’ noto che quando i prezzi salgono i debitori possono ripagare i loro debiti ai creditori in denaro svalutato e questo è il motivo per cui i creditori non vogliono l’inflazione, ma quando i prezzi calano, i debitori sono costretti a ripagare i debiti con denaro più costoso, cioè più difficile da acquisire e così, i creditori prosperano a spese dei lavoratori. E‘ evidente che se viene realizzata con un senso di equilibrio la stabilità dei prezzi è un obiettivo legittimo, ma vi è una enorme differenza tra il facilitare la stabilità dei prezzi e il sostenere la deflazione: vogliamo dire che i paesi del mondo industrializzato vengono obbligati a inseguire politiche economiche non coerenti con la stabilità dei prezzi, ma, unicamente deflazionistiche. Ma forse, è la storia dell’economia dalla fine della Seconda guerra mondiale che ci spiega che il lavoro, per prosperare, ha bisogno di un forte tasso di crescita economica e che non possiamo accettare i diktat del sistema finanziario globale e dei suoi mercati.

Non si può che sperare che siano in errore coloro che vedono le politiche seguite dalle banche centrali di oggi come una ripetizione di quelle perseguite negli anni 20 del secolo scorso: infatti, anche allora infuriava la stessa follia finanziaria, che oggi attribuisce ai banchieri centrali un monopolio sulla scienza delle finanze, e anche allora prevalevano politiche monetarie che si sono poi rivelate altamente deflazioniste. Poi non possiamo non ricordare che i sindacati erano deboli, ed anche oggi appuntiamo una certa debolezza delle organizzazioni sindacali nei paesi industrializzati, senza contare che i redditi da capitale sono in aumento rispetto ai redditi da lavoro e che la distribuzione dei redditi si realizza sempre più disuguale come registrato negli anni venti.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti

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