Le priorità del Governo: “revocate quell’onorificenza!”

Quali sono le priorità del Governo? Il lavoro? La pace? La sanità? La Scuola? No. Per qualche settimana la priorità è stato il Maresciallo Tito, pseudonimo con cui è passato alla storia Josip Broz.

Facciamo subito chiarezza: la figura di Tito non è sicuramente da prendere ad esempio. Durante la seconda guerra mondiale guidò la lotta partigiana che portò la Jugoslavia a liberarsi dall’invasione nazifascista (ed è bene ricordare che gli invasori non erano solo i Tedeschi, ma anche i fascisti Italiani che, in quanto a brutalità, non furono da meno). Dopo la guerra diventò presidente della Federazione Jugoslavia, dapprima come repubblica socialista soggetta al controllo all’Unione Sovietica, con la quale ruppe nel 1948. Tito trasformò la Repubblica Jugoslava in una dittatura, dura e spietata con gli oppositori. Una dittatura che non sopravvisse alla sua morte, avvenuta nel 1980, con la successiva dissoluzione della Jugoslavia avvenuta attraverso 10 anni di guerre sanguinarie tra i vari territori.

Nel 1969, durante una visita di Stato in Italia, Tito ricevette l’onorificenza di Cavaliere di Gran Cordone della Repubblica Italiana.

Fatto questo breve ripasso di storia, veniamo all’attualità. A partire dal 2004 è stata istituita in Italia la Giornata del Ricordo, a memoria degli orrendi eccidi delle foibe. In merito alle ragioni che portarono all’istituzione di questa giornata abbiamo riportato la spiegazione del prof. Alessandro Barbero in questo articolo:

La verità sulle foibe

Si tratta di una ricorrenza tragica, che merita di essere ricordata, ma che finisce per essere strumentalizzata dai partiti di destra che ne fanno una specie di contraltare rispetto alla festa del 25 aprile, che così non è più il giorno della Liberazione dal nazifascismo, trasformandosi nel giorno di “E allora le foibe?”

E cosa inventarsi, all’approssimarsi del 20° anniversario dall’istituzione della Giornata del Ricordo, per accentuare l’effetto propagandistico di questa ricorrenza? Qualcuno si è ricordato che Tito era il capo di quei partigiani che, per rappresaglia contro le atrocità degli invasori nazifasciste (dettaglio che di solito viene trascurato quando si rievoca questo che resta, comunque, un crimine di guerra), decisero di sfogarsi contro la popolazione inerme di lingua italiana: per questo bisognava assolutamente togliergli l’onorificenza conferitagli dalla Repubblica Italiana. Trascurando un piccolo dettaglio: Tito è morto da 44 anni.

Eppure questo obiettivo era talmente stringente da dedicargli non uno, ma ben tre disegni di legge. Che sono stati discussi, prima di arrivare alla Camera, presso la Costituzione Affari Costituzionali.
Il tema è stato oggetto di diverse riunioni, tra la pressione dei rappresentanti del Governo e le resistenze dell’opposizione, che portavano argomenti come: “Non si può riscrivere la storia. Parliamo di un’onorificenza di 55 anni fa” oppure “Allora togliamo anche a Mussolini il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia”. Posizioni totalmente incompatibili che, a quanto si apprende dalle cronache parlamentari, hanno portato a liti furibonde tra gli esponenti dei vari partiti.
Una situazione senza via d’uscita.

Alla fine, a riportare un minimo di buon senso ci ha pensato il Quirinale, pubblicando sul suo sito questa precisazione. In un riquadro, in neretto, è riportato quanto avrebbe dovuto essere scontato fin dal primo momento:

Le onorificenze sono legate alla esistenza in vita dell’insignito e decadono con la sua morte.

Quindi tutto è bene quel che finisce bene: fine delle ostilità, abbiamo scherzato, va bene così.

A parte una domanda che ci frulla nella testa: ma davvero paghiamo dei parlamentari per perdere settimane con questioni così spudoratamente inconsistenti e inutili?

 




25 aprile: tutte le bugie sull’attentato di Via Rasella

E’ importante preservare la memoria di quello che è accaduto, perché è l’unico modo per evitare che accada di nuovo. E il 25 aprile è il giorno in cui, più che nel resto dell’anno, si cerca di riscrivere la storia per cercare in qualche modo di cambiarne il significato.

Per questo riteniamo utile analizzare tutte le bugie che nelle ultime settimane sono state raccontate riguardo all’episodio simbolo della resistenza italiana, l’attacco partigiano di Via Rasella del 23/4/1944, al quale i Tedeschi reagirono fucilando 335 detenuti politici.

Per farlo ci avvarremo delle parole del professor Alessandro Barbero, che ha esaminato nel dettaglio la vicenda in un video che consigliamo caldamente di vedere per intero. Dura oltre un’ora, ma è un racconto avvincente che vale la pena di ascoltare nei dettagli.


 

NON SI E’ TRATTATO DI UN’AZIONE DI GUERRA, MA DI UN ATTO TERRORISTICO

L’episodio di Via Rasella ha suscitato da sempre enormi polemiche. Cosa succede? Che lo si considera come un fatto in sé, senza collegamenti con quello che era Roma allora: hanno fatto scoppiare un bomba in mezzo a una strada a Roma.

Roma nel febbraio e marzo del ’44 è una città che è occupata da sei mesi dai Tedeschi, che è stata occupata dai Tedeschi dopo tre giorni di combattimenti con l’esercito italiano che cercava di difenderla. Tre giorni di combattimenti contro l’esercito italiano e conto i civili armati che hanno cercato di dare una mano ai soldati, con le donne dei quartieri che scendevano a dar da mangiare alle barricate. Tre giorni di combattimenti che hanno fatto centinaia di morti e feriti.

E’ una capitale europea occupata dai nazisti, e fra tutte le capitali europee è quella in cui c’è la resistenza più intensa. La resistenza in città è nata subito ed è attivissima e violentissima: ci sono sparatorie o esplosioni quasi ogni giorno. Continuamente vengono uccisi soldati tedeschi. Questo lo dirà Kappler, comandante della Gestapo a Roma, al processo per le Fosse Ardeatine: “Nel Tevere spesso venivano ritrovati cadaveri di soldati tedeschi”.
Il comandante delle SS, Dollman, dice: “Roma è stata la capitale che ci ha dato più filo da torcere”.
Il maresciallo Kesselring, capo della Wermacht in Italia: “Roma era diventata per noi una città esplosiva; per noi era un grave problema. Tra l’altro ne risentiva direttamente anche il morale delle truppe combattenti, perché non potevamo più mandare i soldati a Roma per un periodo di riposo di licenza”.
Le truppe combattenti in quel momento stanno combattendo al fronte di Anzio, dove gli Americani sono sbarcati e dove i Tedeschi – che sanno fare la guerra una spanna meglio di chiunque altro – pur essendo debolissimi come forze sono riusciti a bloccarli, inchiodarli nella zona di Anzio, e da Anzio gli Americani non sono più riusciti a uscire, tanto che pare che su un muro di Roma compaia la scritta: “Americani, tenete duro! Verremo noi a liberarvi!”


 

I PARTIGIANI SAPEVANO BENISSIMO CHE AVREBBERO CAUSATO UNA RAPPRESAGLIA PESANTE

Aldilà del clima che si respira in questa città, dove si muore tutti i giorni, la cosa che è fondamentale precisare è che le rappresaglie tedesche sono frequenti ma non regolari, non sistematiche, non annunciate e non matematiche. In altre parole: i Tedeschi ogni tanto fucilano, ma non succede mai – finora non è mai successo – che venissero uccisi 4 Tedeschi e il giorno dopo i Tedeschi fucilassero 40 ostaggi.
Non è neanche mai successo che ci fosse una dichiarazione aperta: “Se uccidete qualcuno noi fucileremo degli Italiani”.
Non c’è neanche mai stato un manifesto che dicesse “Abbiamo fucilato degli ostaggi perché abbiamo avuto dei morti”. Che le rappresaglie ci siano però lo sanno tutti, naturalmente.

La rappresaglia dopo l’attacco di via Rasella è stata una rappresaglia di dimensioni assolutamente imprevedibili, non c’era nessun automatismo in queste cose. I partigiani una cosa la sapevano, perché i manifesti tedeschi una cosa la dicevano: “Chi prende le armi contro di noi sarà messo a morte”.


 

LA RESISTENZA E LA GUERRA PARTIGIANA NON HANNO CONTRIBUITO IN NESSUN MODO ALLA LIBERAZIONE

Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) subisce dagli Alleati continue pressioni per moltiplicare gli attacchi a Roma: gli Alleati ci tengono enormemente. Roma formalmente è città aperta, l’hanno dichiarata città aperta i Tedeschi, ma tutti sanno che è una truffa: i reparti tedeschi passano continuamente sulle Consolari diretti al fronte, e il centro è pieno di comandi e centri di comunicazione tedeschi. Perciò gli alleati chiedono alla Resistenza di intensificare gli attacchi dentro Roma per rendere sempre più difficile ai Tedeschi l’uso della città, delle sue vie di comunicazione, delle sue infrastrutture.
E anche per ragioni morali. Dichiarerà poi Mark Clark – comandante della V Armata, quello che entra a Roma il 4 giugno – che per il morale delle sue truppe era molto importante sapere che la popolazione civile stava dalla loro parte, e che alle spalle del nemico i Partigiani non lo facevano sentire mai tranquillo.

I nostri alleati sono rimasti stupiti e ammirati dell’attentato di Via Rasella. Il Generale Alexander, che comandava tutte le truppe del Mediterraneo, ha detto che lui ha cominciato a rispettare gli Italiani quando ha scoperto che Roma era una città che ha osato sfidare in pieno centro un battaglione tedesco armato.
Detto tra parentesi, la conseguenza di via Rasella non è soltanto la strage delle Fosse Ardeatine. Dopo via Rasella i Tedeschi smettono di far passare i loro convogli in città, e gli Americani per due mesi non bombarderanno più Roma, visto che non ci passano più i convogli tedeschi.


 

LE VITTIME DELL’ATTENTATO NON ERANO TEDESCHE MA ITALIANE E NON ERANO NEANCHE MILITARI, MA UNA BANDA MUSICALE DI MEZZA ETA’

Una delle mille polemiche sull’azione di via Rasella è legata al fatto che quelli che erano stati attaccati sarebbero stati degli innocui poliziotti, gente di mezza età, neanche militari, e per di più mezzi italiani perché reclutati nel Sud Tirolo, cioè l’Alto Adige.
Quest’ultima cosa è l’unica cosa vera: è un reparto reclutato in Alto Adige tra quegli abitanti che hanno optato per essere sudditi di Hitler anziché restare italiani. Quindi è vero, sono Altoatesini. E’ un battaglione del reggimento di polizia militare Bozen, cioè Bolzano. La polizia militare è composta da militari a tutti gli effetti, subordinati in quel momento al comando delle SS, e poco tempo dopo il reggimento sarà ufficialmente inquadrato nelle SS: SS Polizai Regiment Bozen.
E’ vero che non sono giovanissimi: sono tra i 26 e i 43 anni. Rispetto ai ragazzi della Resistenza sono più maturi, indubbiamente. Non sono gente innocua: sono gente che va a fare i rastrellamenti contro i Partigiani nei Castelli Romani. Il battaglione a cui appartiene questa compagnia, dopo l’attacco di via Rasella sarà trasferito in Piemonte, a combattere contro i Partigiani in Piemonte. Un altro battaglione dello stesso reggimento è stato responsabile di eccidi e di crimini di guerra nel Cadore.
Si tratta quindi a tutti gli effetti di forze militari impegnate nei rastrellamenti contro i Partigiani, e che sfilano per Roma armati fino ai denti.

Questo lo racconteranno i superstiti stessi della Compagnia attaccata a via Rasella: anzi, più d’uno dirà:
“Se abbiamo avuto così tanti morti, è perché con lo scoppio della bomba hanno cominciato a scoppiare anche le bombe a mano che avevamo alla cintura. E avevamo tutti il mitra col colpo in canna, perché i nostri ufficiali ci avevano avvertiti che nelle vie di Roma si rischiava di essere attaccati”.


 

LE PERSONE FUCILATE ALLE FOSSE ARDEATINE SONO STATE UCCISE SOLO PERCHE’ ITALIANE

Testimonianza di un superstite del Battaglione Bozen, il furiere Hans Blak interrogato al processo Kappler:
“La rappresaglia alle Fosse Ardeatine fu fatta nel massimo rispetto della legge. Alla fine rimasero soltanto Ebrei, comunisti e altra gente così. Nessuno innocente.”

 


 

GLI ATTENTATORI SONO STATI DEI VIGLIACCHI. GLI ERA STATO CHIESTO DI COSTITUIRSI PER EVITARE LA STRAGE, MA NON LO HANNO FATTO

Le esecuzioni alle Fosse Ardeatine iniziano intorno all’1 e mezza (13 e 30). L’Attentato è avvenuto alle 4 del pomeriggio precedente. A Roma quel giorno, il giorno delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo, tutti parlano dell’attentato di via Rasella, di cui non è stato dato nessun annuncio ufficiale, ma tutti ne parlano. Invece nessuno sa niente della rappresaglia; viene fatta in totale segreto.
Solo il giorno dopo, il 25 a mezzogiorno, il Messaggero esce con un comunicato del comando tedesco che parla della “vile imboscata eseguita da elementi criminali, comunisti badogliani, su incitamento anglo- americano”. E annuncia che il comando ha deciso che per rappresaglia dovevano essere fucilati, per ogni tedesco morto 10 comunisti badogliani. E l’articolo del Messaggero conclude: “L’ordine è già stato eseguito”.
Immediatamente è cominciata la costruzione di una leggenda secondo cui quelli che hanno compiuto l’attacco avrebbero potuto salvare le vittime delle Fosse Ardeatine se avessero risposto all’invito del Comando tedesco di presentarsi.

Invito che non c’è stato.

Come nasce questa cosa? Che su quello che è successo tra via Rasella e le Fosse Ardeatine, in un Paese come l’Italia, non ci sia da aspettarsi troppa chiarezza e troppa trasparenza lo si capisce già il giorno in cui viene annunciata la strage delle Fosse Ardeatine. Basta leggere quello che dice L’Osservatore Romano. Quando dà la notizia delle Fosse Ardeatine dice che ci sono state delle vittime tedesche in un attentato, e che ci sono state delle persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto.
Quindi ci sono state delle vittime tedesche e dei colpevoli che sono sfuggiti all’arresto, per cui sono state sacrificate delle altre persone.
Che ci sia qualcuno che è colpevole di averli fucilati, questi altri, “L’Osservatore Romano” non lo dice.

Qualche giorno dopo, il federale di Roma Pizzirani che deve gestire lo shock di una città che sta scoprendo cosa è successo – e non a via Rasella ma alle Fosse Ardeatine – dichiarerà per la prima volta che la colpa è di quelli che hanno fatto l’attentato, che se si fossero presentati non ci sarebbe stata la rappresaglia.
Passano 4 anni, è il 1948. Sapete che la tensione che c’è in Italia nel 1948. I comitati civici anticomunisti di Gedda a Roma battono e ribattono: “Quei vigliacchi non si sono presentati quando gli era stato chiesto di presentarsi. Se fossero venuti non ci sarebbero stati i martiri delle Fosse Ardeatine.”

A parte la dinamica dei fatti, con i tempi e gli orari che vi ho detto, che da sola basta a smentire l’idea della richiesta, è assolutamente dimostrato al 100% che nessuno si è mai sognato di chiedere ai responsabili di presentarsi; tantomeno hanno pensato mai di dirlo i responsabili tedeschi. I responsabili tedeschi sono tutti andati a processo e tutti quanti hanno dichiarato che questa cosa non c’è mai stata.
Kappler al suo processo dirà: “La rappresaglia l’abbiamo fatta in totale segreto, perché avevamo paura che se si fosse saputo che fucilavamo così tanta gente scoppiasse un’insurrezione.”
A Kappler hanno anche chiesto se avevano cercato almeno i colpevoli. Kappler, della Gestapo, ha risposto: “Ma no che non li abbiamo cercati. Tanto eravamo sicuri che la popolazione li avrebbe protetti.”
Al processo di Kesserling glielo chiederanno espressamente: “Ma non avete pensato di chiedere ai partigiani di via Rasella di presentarsi?” E Kesserling risponde: “Beh, a pensarci adesso… non sarebbe mica stata una brutta idea!” Insistono: “Ma non lo avete fatto?” “E no” Dice Kesserling “Non lo abbiamo fatto.”

 

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La Grande Guerra degli obiettivi commerciali

Spesso lo studio degli eventi passati ci aiuta a capire meglio il nostro presente. E a volte si possono prendere spunti da ambiti apparentemente del tutto estranei a quelli che viviamo quotidianamente.

Per questo può essere estremamente interessante andare a rileggere le modalità con le quali Generali ed Ufficiali impartivano gli ordini durante la Prima Guerra Mondiale. Il linguaggio era infarcito di retorica, di certezze granitiche.

Prendiamo ad esempio il Generale Capello, comandante della Seconda Armata, destinata ad essere sbaragliata a Caporetto.
In una circolare rivolta ai suoi ufficiali, scriveva:

E’ necessario che l’attacco abbia sempre ed assolutamente il carattere travolgente della valanga

E’ chiaro che con ordini impartiti in questo modo la vittoria non potesse sfuggire: chi poteva resistere ad una valanga? E se l’attacco avesse avuto minore efficacia, la colpa sarebbe stata evidentemente della truppa, incapace di eseguire gli ordini.

Il Generale Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d’Armata (spazzato via nelle prime ore della battaglia di Caporetto), in una circolare ordinava:

Voglio che il nemico preparantesi ad attaccare sia inchiodato sul posto dal nostro fuoco. Se tenti di avanzare, il fuoco sia sterminatore, più per la sua precisone che per il numero dei colpi sparati.
Il tiro di sbarramento deve riuscire magistrale

Facile fare il generale. Basta ordinare che il tiro sia magistrale e sterminatore, e il più è fatto. Se poi questo non riesce, è perché i sottoposti sono incapaci. E già che ci siamo, il nemico va sterminato, ma risparmiando colpi: il taglio dei costi dev’essere comunque la priorità. Se l’artigliere sbaglia il colpo è un traditore della Patria: mancare il bersaglio significa violare gli ordini.
Lo stesso Generale Cavaciocchi, in una successiva dispisizione, scriveva:

Le mitragliatrici devono essere ordinate con arte, con ardire, con genialità.

Che ci vuole ad avere soldati che agiscono in modo geniale? Basta ordinarglielo. Con disposizioni del genere doveva andare per forza tutto bene. Basta eseguire gli ordini e sparare in modo sterminatore, geniale ed economico.

Eppure, inspiegabilmente, la realtà rifiutò di piegarsi alle certezze del Generale.
Appena iniziato l’attacco, i colpi di artiglieria nemici tranciarono tutte le linee telefoniche, impedendo qualsiasi comunicazione tra il Generale Cavaciocchi e la sua truppa.
Ma il Generale aveva previsto tutto, risolvendo a monte il problema. Gli ordini dei giorni precedenti alla battaglia non lasciavano spazi a dubbi:

Avverto che non ammetto, per ragione alcuna, la mancanza di notizie per interruzione delle comunicazioni

Quindi gli ordini erano chiari: se quegli smidollati ed incapaci dei soldati non li avevano eseguiti che colpa poteva avere il Generale?

Tutto questo ci può apparire ridicolo, ma allora era tremendamente serio. Questo modo retorico di comunicare, assolutamente demenziale, traeva origine dalle granitiche certezze del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Cadorna, che non ammetteva che potessero essere messe in discussione. Bastava esprimere un dubbio o esitare nel lanciarsi all’assalto per venire fucilati. Furono oltre 1.500 i soldati italiani fucilati durante la Grande Guerra, frutto anche della scarsa considerazione per le truppe da parte dei vertici dell’Esercito.

Cosa c’entra tutto questo con la nostra realtà? Forse più di quanto possa sembrare. Facciamo alcuni esempi.

In mille riunioni, sempre uguali, si ordina di fissare un certo numero di appuntamenti, e la percentuale di vendite che da questi appuntamenti DEVE derivare. Se la filiale ottiene un numero inferiore di appuntamenti, e in molti casi i clienti si ostinano a non sottoscrivere i prodotti proposti, è colpa dei dipendenti che, nella migliore delle ipotesi, sono incapaci, e spesso vengono accusati di non essersi impegnati abbastanza, o addirittura di essere contro.

Non ci sono (ancora) le fucilazioni per insubordinazione; ma chi di noi non ha notizie di colleghi mortificatitrasferiti o demansionati per non aver ottenuto i risultati richiesti?

Chi di noi, spiegando le difficoltà dovute alle carenze di organico, all’insofferenza di clienti che sempre più spesso riappendono il telefono quando la banca li chiama per l’ennesima volta, ai ritardi dovuti alle procedure, non si è sentito rispondere: “Non voglio sentire scuse” ?
Che è l’equivalente di “Non ammetto, per ragione alcuna, la mancanza di notizie”.

Quante volte ci siamo sentiti frustrati perdendo ore a causa di sistemi informatici obsoleti ed inadeguati? Bisogna risparmiare i proiettili, ma il fuoco dev’essere comunque “magistrale e sterminatore”.

Quante volte abbiamo avuto la sensazione di essere carne da macello, messi in prima linea tra due fuochi (clienti da una parte, superiori dall’altra) con il fine ultimo di far ottenere premi importanti ai capi?

Abbiamo detto che dalla storia possiamo trarre importanti insegnamenti. L’inettitudine dei Generali della Grande Guerra portò alla disfatta di Caporetto, con i soldati che gettavano le armi senza disperarsi per la sconfitta, ma pensando di poter finalmente tornare alle loro case, felici in cuor loro per la fine di una guerra che non gli apparteneva, dalla quale avrebbero tratto beneficio solo i più ricchi, che in trincea non ci andavano.
Volendo fare un ulteriore parallelo con la nostra realtà, non si può ignorare il fatto che ormai qualunque bancario che abbia superato i 50 anni abbia come primo pensiero la sua data di pensionamento: il principale desiderio è quello di fuggire dalla trincea.

Alla fine fu necessario un cambio di rotta, il licenziamento di Cadorna e la sua sostituzione con Diaz, un trattamento più umano per i soldati, puntando a rimotivarli ed a ricostruire il loro morale, per rimettere insieme un esercito e scoprire che, se guidati adeguatamente, quegli stessi soldati erano capaci di sconfiggere gli Austriaci a Vittorio Veneto e vincere la guerra.

 

N.B. Per i riferimenti storici abbiamo attinto alla meritoria opera del prof. Alessandro Barbero

 

 

 

 




Come scoppiano le guerre?

La lezione dimenticata delle due guerre mondiali è che le guerre possono scoppiare anche quando nessuno le vuole.

Inizia con queste parole l’avvincente, ma davvero preoccupante, video nel quale il Prof. Barbero spiega gli eventi che possono portare alla nascita di una guerra spaventosa mentre tuti pensavano che non sarebbe potuto accadere.

Leggendo o ascoltando il suo racconto, colpiscono le tante analogie che si possono trovare con quanto sta accadendo in Ucraina. Una lezione essenziale per capire dove egoismi e incapacità dei governanti di leggere le situazioni, sottovalutando le conseguenze delle loro scelte, possono portare.

Una lezione che speriamo venga ricordata e compresa dagli attuali protagonisti.


 

La lezione dimenticata delle due guerre mondiali è che le guerre possono scoppiare anche quando nessuno le vuole.

Pensate alla prima guerra mondiale. Comincia tutto con un attentato, qualcosa che nel mondo di oggi possiamo capire benissimo: un atto di di terrorismo internazionale che sconvolge il mondo. A Sarajevo, nei Balcani, ammazzano l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero Austriaco: una delle 6 grandi potenze europee che all’epoca si consideravano padrone del mondo.

Tutto il mondo è scioccato, ma nessuno s’immagina che ne verrà fuori una guerra mondiale. Neanche lontanamente! Nemmeno gli Austriaci, che hanno subìto questo attentato e che pensano però che potrebbero approfittarne per regolare i conti con un vicino scomodo: la Serbia.

Gli attentatori sono Serbi, l’Austria-Ungheria e la Serbia sono da sempre rivali . In Austria sono convinti che in questo attentato ci sia lo zampino dei servizi segreti serbi; e il bello è che hanno ragione, le complicità c’erano davvero. A questo punto l’Austria ragiona come hanno ragionato in tempi più vicini a noi certi paesi che, dopo un attentato – pensiamo alle Torri Gemelle, per esempio – hanno deciso che bisognava punire gli “Stati canaglia” che finanziano il terrorismo internazionale. Per l’Austria-Ungheria quello stato canaglia è la piccola Serbia. Perciò l’Austria è convinta che il mondo non batterà ciglio se gli Austriaci impartiscono ai Serbi la lezione che si meritano.

L’Austria manda alla Serbia un ultimatum inaccettabile: se il governo serbo dovesse accettare, praticamente perderebbe la sua indipendenza. Perciò la Serbia rifiuta, e l’Austria-Ungheria dichiara guerra. Ma nessuno s’immagina che ne verrà fuori una guerra mondiale: sarà una piccola guerra balcanica. Salvo che la piccola Serbia ha un grande fratello: la Russia. La Russia dello zar Nicola II: un grande paese slavo come la Serbia, ortodosso come la Serbia. La Russia decide che la Serbia dev’essere difesa, e dichiara guerra all’Austria.

Ma anche l’Austria ha un grande fratello. L’Austria è una grande potenza, non un piccolo paese come la Serbia, ma è una grande potenza non di prima qualità. Un paese ancora molto arretrato, un po’ come l’Italia di allora, non ancora pienamente industrializzato. Però ha un grande fratello molto più potente: la Germania. Germania che in quel momento forse è il paese più potente del mondo, di sicuro il meglio armato. La Germania del kaiser Guglielmo II. Il secondo reich, come dicono loro. Ed è alleato dell’Austria-Ungheria.

Come mai i Russi, lo zar di Russia, dichiara guerra all’Austria credendo che la Germania non interverrà? Perché lo zar Nicola e il Kaiser Guglielmo sono cugini acquisiti, si conoscono da tanto tempo e sono amici. Si chiamano per nome, anzi si chiamano “Nicky” e “WillY”. E perciò Nicky – lo zar – è convinto che suo cugino Willy gli permetterà di far guerra all’Austria senza intervenire.
E per qualche giorno c’è uno scambio di telegrammi, in inglese, tra lo zar di Russia e il Kaiser di Germania, in cui lo zar scrive al cugino dicendo “Ma tu capisci, io non posso permettere che un piccolo paese come la Serbia venga distrutto ingiustamente, ma tu non interverrai, vero?” E si firma Nicky.
E suo cugino il kaiser gli risponde “Tu non capisci. Io sono alleato con l’Austria. E’ impossibile che io non entri in questa guerra, se voi davvero la fate”.
Vanno avanti così per qualche giorno finché Willy dichiara guerra a Nicky.

E così a questo punto tre delle sei grandi potenze europee sono in guerra, ma entra subito una quarta che fino a pochi giorni prima non ci pensava neanche lontanamente.
La Francia è alleata della Russia. Bisogna pensare a com’è fatta l’Europa di allora: c’erano meno stati di adesso, non c’erano la Polonia e gli altri stati dell’Europa Orientale. La Germania confinava da un lato con la Francia e dall’altra parte con la Russia: perciò la Russia e la Francia, che avevano una gran paura della Germania, erano alleate, per forza. E quando la Germania dichiara guerra alla Russia, la Francia dichiara guerra alla Germania.

A questo punto rimangono fuori la più debole delle sei potenze europee, l’Italia, e la più forte, la Gran Bretagna, padrona del commercio mondiale, padrona dei mari. La Gran Bretagna non è alleata ufficialmente con nessuno, può restare fuori. E avrebbe una gran voglia di restare fuori. I giornali inglesi lo scrivono: “Morire per Sarajevo? Mai!” Però la Gran Bretagna ha una preoccupazione: il Belgio. La neutralità del Belgio. Perché gli’interessa il Belgio? Pensate a dov’è il Belgio, sul canale della Manica, affacciato davanti all’Inghilterra coi suoi grandi porti: Ostenda, Anversa, che sono la garanzia per l’Inghilterra di avere un collegamento con l’Europa anche se l’Europa sprofondasse nella guerra, purché il Belgio rimanga neutrale. Il Belgio è un’invenzione della politica inglese, è stato inventato nell’800 dagli Inglesi a questo scopo. Persone inglesi fanno sapere alle potenze belligeranti che loro resteranno neutrali, purché nessuno tocchi il Belgio.
La Francia risponde immediatamente che non ne ha nessuna intenzione. A Berlino, capitale del Reich, il Kaiser Gugliemo convoca il fedmaresciallo Von Moltke, comandante in capo dell’esercito, per dargli la buona notizia: “La Gran Bretagna resta fuori, basta che non tocchiamo il Belgio”.
Il maresciallo Von Moltke risponde: “Ah, peccato! Perché noi abbiamo un piano perfetto per vincere la guerra. Un piano che studiamo da decenni, perfetto in ogni particolare: ci porterà a Parigi in poche settimane. Però prevede d’invadere il Belgio.”
Il kaiser chiede ai generali se non è possibile fermare questo piano. Von Moltke si mette a piangere: non è possibile, è tutto già in movimento. Migliaia di treni. E così il Belgio il giorno dopo viene invaso.
E anche la Gran Bretagna entra in guerra.

Nel giro di poche settimane si è scatenata una guerra mondiale che nessuno immaginava e nessuno voleva.

 


 

Poi c’è la seconda guerra mondiale. Qui la storia è un po’ diversa, ma fa rabbrividire anche quella. Perché anche quella guerra nessuno la voleva. Si era in un’Europa ancora così traumatizzata dai milioni di morti della prima, che veramente l’idea di un’altra guerra era l’ultima cosa che volevano.
Non la voleva neanche Hitler, il quale però era andato al potere in Germania promettendo ai Tedeschi che avrebbe di nuovo trasformato la Germania in una grande potenza. Che avrebbe messo fine alla vergogna del Trattato di Versailles, il trattato con cui si era conclusa la prima guerra mondiale, che aveva punito la Germania, che l’aveva privata di territori abitati da tedeschi. I trattati, dopo la prima guerra mondiale, avevano anche sciolto il grande impero Austro-Ungarico, fatto nascere nuovi stati: la Cecoslovacchia, la Polonia. Questi stati avevano minoranze tedesche. La stessa Austria era diventata un piccolo paese tedesco dove molti desideravano di far parte di una grande Germania.

Hitler non ha nessuna intenzione di scatenare una guerra mondiale, ma vuole riprendersi un po’ per volta quello che pensa appartenga alla Germania, ed è convinto che il mondo lo lascerà fare. E ci prova, e vede che il mondo davvero lascia fare.
Il primo passo è l’Anschluss, l’annessione dell’Austria nel marzo del ’38.
L’esercito tedesco entra in Austria, dove non incontra nessuna resistenza, anzi è accolto da folle plaudenti. Si fa un plebiscito: il 99% degli Austriaci vota a favore dell’Anschluss, l’annessione alla Grande Germania. Il cardinale di Vienna, Innitzer, invita gli Austriaci a pregare per il loro nuovo fuhrer che li proteggerà dal Comunismo. E nei paesi democratici, in Inghilterra, in Francia, nessuno dice niente. Anzi, in Inghilterra qualcuno dice: “In fondo noi due secoli fa abbiamo fatto l’unione della Scozia all’Inghilterra, perché non possono farlo anche loro?”
Hitler prende nota: nessuno ha detto niente.

La prossima vittima è la Cecoslovacchia dove c’è una regione, i Sudeti, abitata da una minoranza tedesca. Hitler da tempo insiste che quella regione deve tornare alla Germania. Nei Sudeti, tra i Tedeschi dei Sudeti, c’è un partito nazista agli ordini di Hitler, che comincia a creare disordini e compiere atti di terrorismo. La Cecoslovacchia comincia a sprofondare nel caos e i governi democratici, la Francia, l’Inghilterra, spiegano ai Cecoslovacchi che Hitler in fondo non ha tutti i torni, che alla Germania davvero il Trattato di Versailles sta stretto. Perché la Cecoslovacchia non vuole cedere questa regione alla Germania, visto che è abitata da tedeschi? In Inghilterra, in Francia hanno un tale terrore di una nuova guerra, e hanno anche una cattiva coscienza perché in fondo lo sanno che il Trattato di Versailles ha dato tutte le colpe alla Germania e non era proprio giusto. Insomma, i Cecoslovacchi sono sotto pressione. E alla fine sono costretti a cedere. E’ il mondo che li costringe a cedere.
Nel settembre del ’38 viene fuori una conferenza tra quattro grandi potenze: la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini, la Francia e l’Inghilterra. Si tiene, questa conferenza, a Monaco di Baviera, dove i Cecoslovacchi non vengono invitati: aspettano fuori dalla porta per sapere quale sarà il loro destino. E a Monaco, le quattro potenze – di cui due dittature e due democrazie – decidono che la Cecoslovacchia deve cedere i Sudeti alla Germania.
Per noi oggi la conferenza di Monaco è un episodio vergognoso, ma allora non lo vedevano così. Il Primo Ministro inglese, Chamberlain, torna a casa convinto di aver vinto, perché ha evitato una guerra.
Ci sono i filmanti di lui che scende dall’aereo sventolando il trattato e dice ai giornalisti: “Qui c’è la mia firma, qui c’è la firma di herr Hitler: vi ho portato la pace, la pace per il nostro tempo.” Chamberlain conclude rivolgendosi agli Inglesi e dicendo: “Cari amici, andate pure a casa e stanotte andate e dormire, e dormite tranquilli”.
C’è solo un uomo, in Inghilterra, che sa che questo accordo è stato una vergogna, e che porterà male: E’ Winston Chuchill, il principale avversario di Chamberlain nel suo stesso partito, il Partito Conservatore.
Churchill dirà a Chamberlain:Avevate la scelta fra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra”.

Hitler non viole la guerra, beninteso, ma quello che ha imparato è che gli lasciano fare tutto. Adesso vuola anche il resto della Cecoslovacchia. Nella primavera del ’39 in Cecoslovacchia – in quel che resta della Cecoslovacchia – scoppiano disordini fomentati dai nazisti, e finalmente Hitler convoca a Berlino il Presidente Cecoslovacco per dirgli che la Wermacht, l’esercito tedesco, è pronto a entrare in Cecoslovacchia peer garantire l’ordine, per garantire la pace e che se non firma una richiesta in questo senso, il Presidente cecoslovacco, la Luftwaffe è pronta a bombardare e radere al suolo Praga.
Al Presidente cecoslovacco viene un infarto, e poi lo costringono a firmare. E l’esercito tedesco entra in Cecoslovacchia che con i Sudeti ha perso la maggior parte delle sue industrie, ha perso tutte le sue fortificazioni di frontiera e quindi non è più in grado di resistere.
E Hitler prende nota: anche questo me l’hanno lasciato fare. Nessuno ha detto niente.

In verità qualcuno dice qualcosa. A Londra Neville Chamberlain comincia a pensare che forse si è sbagliato. E’ costretto ad andare alla camera e rendere conto di quello che è successo, e il suo discorso è impressionante, perché si vede un uomo che non vuole credere di essersi sbagliato. Chamberlain dice in sostanza: “Avevamo assicurazioni precise con la firma di herr Hitler, adesso viene quasi da temere che forse non ci possiamo proprio fidare veramente fino in fondo di queste assicurazioni, visto quello che poi ogni volta succede…”
Ma sta di fatto che nessuno muove un dito, e Hitler passa alla prossima vittima: la Polonia.

La Polonia che ha un regime autoritario, militarista, e che si è presa anche lei un pezzetto di Cecoslovacchia, convinta di essere amica della Germania perché Hitler ha rassicurato più volte i Polacchi: non vuole niente da loro.
invece adesso scopre che vuole qualcosa anche da loro. Anche la Polonia ha dei cittadini tedeschi, in particolare la città di Danzica che è abitata da tedeschi ma, con il Trattato di Versailles, è stata assegnata alla Polonia. E anchge a Danzica, tra la sua popolazione tedesca, c’è un partito nazista che comincia a seminare il disordine, a provocare attentati. Hitler comincia a spiegare al mondo che bisogna proteggere i tedeschi che vivono in Polonia, bisogna proteggere questa minoranza oppressa. La propaganda nazista comincia a mettere in giro storie terribili dell’oppressione polacca contro i Tedeschi, e i governi dell’Inghilterra, della Francia non sanno cosa fare. Perché nessuno vuole la guerra. Ecco, i governi hanno promesso ai loro popoli che mai più ci sarà una guerra. Però sono anche alleati della Polonia. E hanno anche capito che Hitler non si fermerà se si continuerà a lasciarlo andare avanti.
All’inizio l’Inghiterra e la Francia cercano di convincere i Polacchi a cedere, cercano di convincere la Polonia a regalare Danzica a Hitler e tutto quello che vuole pur di evitare una guerra. I Polacchi tengono duro: ancora il primo settembre del ’39 l’ambasciatore inglese a Varsavia riceve un telegramma dal suo ministro, Lord Halifax che gli dice:” Ma dovete assolutamente convincere i Polacchi a trattare, andare dai tedeschi a chiedere cosa vogliono, mettersi d’accordo”.
L’ambasciatore britannico risponde quella sera con un telegramma a Londra e dicendo “non mi sembra che sia il caso di seguire le istruzioni che mi avete mandato sta
mattina in vista del fatto che, oggi all’alba, l’esercito tedesco ha invaso la Polonia.

Ci metteranno ancora tre o quattro giorni la Francia e l’Inghilterra a decidere di dichiarare guerra. Per tre o quattro giorni Hitler credi di farla franca anche questa volta. Non la voleva neanche lui quella guerra: aveva scommesso: Tante scommesse gli erano andate bene, quella gli è andata male.




L’alternanza scuola lavoro spiegata in parole semplici.

Quello che riportiamo è un intervento del Prof. Alessandro Barbero, datato giugno 2017, nel quale spiegava le ragioni che avevano portato all’introduzione della “Buona scuola” e dell’alternanza scuola-lavoro.

Riascoltandole adesso le sue parole appaiono profetiche, e si finisce per considerare inevitabile che prima o poi dovesse succedere che un ragazzo di 18 anni, invece di essere seduto al suo banco in classe, perdesse la vita per un incidente sul lavoro.

Riportiamo la trascrizione dell’intervento. Chi preferisce può guardare il video, linkato in fondo all’articolo.

Io parlerei anche di scuola in questo contesto, perché parlare di scuola è difficilissimo. Ovviamente saranno spunti anche molto eterogenei.
E’ quello il canale che storicamente serviva per far sì che i saperi elaborati dagli specialisti venissero poi diffusi. E’ a scuola che uno si trovava di fronte un libro di testo che si supponeva dovesse riassumere le cose, lo stato dell’arte nel vero senso di questa espressione: cioè tutto ciò che gli specialisti oggi pensano e conoscono, e tu lo studiavi, e si dava per scontato che chi andava a scuola doveva uscirne essendo al corrente a grandi linee di tutte le cose più importanti della cultura.
Ovviamente il problema era: chi andava a scuola?
Per molto tempo a scuola ci andavano in pochi, e andava bene così perché guarda caso, quando a scuola ci andavano in pochi – penso al settecento, all’ottocento, ancora all’inizio del novecento – si dava però per scontato che andare a scuola, andare al liceo, intendo dire fare le superiori, era indispensabile per avere poi un ruolo dirigenziale nella vita.
L’esercito italiano, durante la prima guerra mondiale, ha un disperato bisogno di ufficiali, tanto che alla fine manda a comandare i plotoni e le compagnie dei diciannovenni, ma su una cosa non transige: devono aver finito le scuole superiori. Alla fine si accetta anche l’istituto tecnico, va bene, ma per fare l’ufficiale deve aver finito le scuole superiori.
Perché sapere il latino serve per fare l’ufficiale in trincea? Sì, evidentemente! Questa era la loro risposta.
Così come in Inghilterra, se uno
voleva fare il pastore anglicano, la via normale era: intanto ti iscrivi a Oxford o a Cambridge, e quando ti sei laureato potrai fare il pastore anglicano.
Poi lo sappiamo tutti cosa è successo. E’ successo che si è detto: “In un grande movimento democratico tutti devono avere accesso a questo, tutti devono avere tanti anni durante i quali studiano e si impadroniscono della cultura comune. Non si deve più avere un mondo in cui solo l’élitequelli che comandano possiedono la cultura: tutti devono averla, tutti i ragazzi devono avere anni e anni durante i quali studiano e imparano anziché dover lavorare come è sempre successo ai loro padri e ai loro nonni.”
E poi lo sappiamo tutti. O meglio, non lo sappiamo affatto ma abbiamo – io ho – la vaga sensazione di un po’ di cose che sono successe. Che in questo percorso si è cominciato a dire: “Sì però il latino andava bene per tutti finché erano soltanto i padroni che andavano a scuola, adesso che ci vanno anche i figli degli operai a cosa serve insegnare a loro il latino?”
E via via si è cominciato a dire: “Ma il libro di testo dopo tutto serve? Oggi poi che abbiamo tutte queste meraviglie, si fa tutto online, a che cosa serve?”

E lì il ritorno indietro. Mentre prima, finché a scuola ci andavano i figli dei padroni, tutti sapevano che andare a scuola era importantissimo per fare di te una persona più forte e con più possibilità, quando hanno cominciato ad andarci anche i figli degli operai si è cominciato a dire: “Ma in fondo in fondo siamo sicuri che poi tutto questo serve?
E
adesso siamo arrivati al punto che questa grande conquista per cui si era detto: “Tutti devono avere davanti molti anni durante i quali studiano senza chiedersi a cosa mi servirà questo specificamente” non va più bene, si è cominciato a dire e a pensare che per mandare la gente a scuola però la cosa poi deve essere spendibile sul mercato del lavoro, e si è arrivati adesso all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi, come ai loro nonni analfabeti: “Anche se avete soltanto sedici, o diciassette, o diciotto anni, però un po’ di lavoro lo dovete fare. Che è questo lusso di passare quegli anni solo a studiare a scuola?
No no! Alternanza scuola lavoro!”

Guarda il video:




Perché festeggiare ancora il 25 Aprile?

Perché festeggiare ancora il 25 aprile?

Risponde con il suo stile chiaro ed efficace il prof. Alessando Barbero, in un breve video registrato nel 2020. Di seguito il testo dell’intervento; in alternativa si può scegliere di guardare il filmato linkato in fondo all’articolo.

“Perchè il 25 Aprile? Non è una domanda oziosa. E credo che anche la risposta non sia ovvia,

In Italia oggi – ma in realtà già da parecchi anni – le celebrazioni del 25 Aprile stanno attraversando una fase di transizione. Quelli che c’erano son rimasti in pochi; non c’è quasi più nessuno che ricordi davvero cosa volesse dire vivere nell’Italia di allora e che cosa sia stata quella guerra. Oggi viviamo in un mondo diverso: la stragrande maggioranza della gente è nata dopo e vive in un presente carico di preoccupazioni, ha davanti a sé un futuro pieno d’incognite se non di paure ed è anche comprensibile che per tanta gente questi fatti così lontani nel tempo non vogliano più dire molto. E anzi, io credo che noi storici dovremo accettare l’idea che verrà un giorno in cui il 25 Aprile, la Resistenza in generale, sarà ricordata come oggi ricordiamo il Risorgimento: un avvenimento storico, di cui si parla nei libri. Conosciamo i nomi di quei personaggi, di quegli eroi, di quelle battaglie perché le abbiamo studiate a scuola, ma non riusciamo più a capire veramente chi fossero, a condividere la loro visione del mondo, a capire perché erano disposti a farsi ammazzare.
Succederà anche alla Resistenza e non c’è niente da fare, bisogna accettarlo.

Però il 25 Aprile, nell’Italia di oggi, non è a rischio per l’indifferenza di una moltitudine di persone che vivono in un mondo diverso e, legittimamente, pensano al futuro e non al passato. Non è questo il punto.

A me sembra che il 25 Aprile, nell’Italia di oggi, sia a rischio soprattutto perché c’é una parte del Paese che ha imparato dalle proprie famiglie che il fascismo non era poi così male, e che Mussolini in fondo ha governato bene, ha fatto tante cose buone. E che i partigiani invece erano dei poco di buono, dei delinquenti. E che tutta la retorica che si è fatta da allora in poi sulla Resistenza è esagerata, insopportabile…
Poi ci sono quelli che fanno finta di credere che la Resistenza l’abbiano fatta solo i Comunisti. Come se a Torino la Liberazione, la “Casa del fascio” presa dai Partigiani, non fosse stata ribattezzata “Palazzo Campana” in onore del Marchese Cordero di Pamparato: ufficiale di carriera, medaglia d’argento in Africa, nobile, cattolico e comandante partigiano.
Ci sono quelli che, siccome sono di destra e nazionalisti, arricciano il naso quando sentono Bella Ciao: “Una canzone comunista!”  Quando questa è una canzone che parla di un Italiano che si sveglia al mattino e trova il Paese invaso dallo straniero, e decide di andare a combattere.
Bel modo di essere Italiani, ostentare disprezzo per questa canzone!

Ma è proprio a questa gente, io credo, che il 25 aprile dovrebbe parlare. E’ a loro che dobbiamo rivolgerci per dirgli: “I vostri padri, i vostri nonni sono stati fascisti? Hanno creduto in Mussolini? E va bene. Un sacco di gente perbene è stata fascista e ha creduto in Mussolini. Questo nessuno ha paura di dirlo. Ma voi, voi davvero avreste preferito che vincessero Hitler e Mussolini? Davvero avreste voluto che le camere a gas continuassero ad ingoiare gente? Davvero preferireste vivere nell’Italia delle leggi razziali e della camicia nera invece di questa nostra Italia uscita dalla Resistenza?”

Io credo che anche queste persone che ostentano disprezzo per il 25 aprile e rifiutano di celebrarlo farebbero molta fatica a rispondere a queste domande.


 

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La verità sulle foibe

L’analisi, come sempre lucidissima, del professor Alessandro Barbero in occasione della ricorrenza del Giorno del Ricordo delle foibe


Cosa sono le foibe?

Alla fine della guerra, sui confini orientali d’Italia, l’esercito partigiano jugoslavo comunista, avanzando in un territorio che da molti anni era occupato degli Italiani e dove quindi abitava un gran numero d’Italiani (Dalmazia, Istria, fino a Trieste), fa fuggire davanti a sé la popolazione italiana terrorizzata e uccide effettivamente migliaia di Italiani civili, gettando poi i cadaveri in queste forre del terreno che ci sono sono da quelle parti. Le foibe, appunto.
Un eccidio di molte migliaia di civili.

I partigiani jugoslavi comunisti stanno dalla parte dei vincitori, combattono dalla parte “giusta” quindi per molto tempo di questa cosa non è che non se ne parli – se ne parla eccome – ma a livello ufficiale nessuno si sognerebbe che sia una cosa di cui si debba fare un giorno del ricordo, per esempio. Perché è uno dei tanti casi in cui i vincitori, che avevano ragione e stavano dalla parte giusta, hanno fatto delle porcate.
Cosa che succede normalmente, perché nella realtà non è che ci sono i buoni e i cattivi come nei film americani. La realtà è più complicata di così e i vincitori, che stanno dalla parte giusta, fanno un sacco di porcate: buttano la bomba atomica su Hiroshima  e poi, come se non bastasse, ne hanno ancora un’altra e buttano anche quella e distruggono un’altra città.
E ciò non impedisce affatto di dire che “meno male che han vinto loro” perché avevano ragione loro, in base ai nostri valori di oggi.

Poi cosa succede? Succede che quella parte dell’Italia che per tanto tempo ha vissuto male il 25 aprile, la celebrazione della Resistenza, perché “erano famiglie come la mia” dove ci si era schierati dall’altra parte, sempre più sentono di avere più spazio e che il pendolo si è spostato e chi la pensa così ha sempre più importanza, e a un certo punto un Governo che – non lo può dire – ma è fatto da gente che in realtà si sentiva più dalla parte dei fascisti che non dei Partigiani, decide che bisogna equilibrare il 25 aprile.
C’è questa grande festa che piace a quelli della sinistra? E allora facciamo anche un altro giorno del ricordo per ricordare invece un’altra cosa dall’altra parte.

E nasce il giorno delle foibe.

Non ci son state le foibe? Certo che ci sono state.
E’ stata un’atrocità? Certo che è stata un’atrocità.
Non bisogna parlarne? Certo che bisogna parlarne, La storia si occupa di tutto e va a vedere tutto. E la storia fatta bene viene fatta senza preoccuparsi di dire “ah, ma quella schifezza lì l’han fatta i miei amici, quindi non ne parlo”. La storia fatta bene vuol dire precisamente: “io vado a vedere tutto, perché voglio sapere tutto. Perché a me interessa la verità di quello che è successo“.

Questo nei Paesi dove la storia è libera, naturalmente. In una dittatura, una delle prime cose che la dittatura censura è la ricerca storica. Una delle prime cose che in una dittatura si va a vedere è: “cosa dicono i libri di storia che si studiano a scuola? Riscriviamoli. Quella cosa lì non ci piace che venga detta. Togliamola”
Nelle dittature è normale; dei libri di chimica non frega niente a nessuno. La chimica è una cosa oggettiva e quindi non vengono censurati. I libri di storia sì, perché come capite ci sono tante cose che si può decidere di dire o non dire, sono molto importanti e le mettiamo al centro oppure “ci sono state però ragazzi, ne son successe tante di cose…”
Le foibe sono appunto uno di quei casi in cui se uno lo vuole dire… cioè, uno lo deve sapere ovviamente. E gli storici le hanno sempre studiate.

Dopodiché si tratta di dire: “Dobbiamo mettere al centro del discorso pubblico quell’episodio lì, perché è emblematico, è da quello che si capisce davvero cos’era quell’epoca e cioè che i partigiani comunisti erano molto cattivi e che gli Italiani sono stati ingiustamente perseguitati e sterminati”?

Oppure dobbiamo discutere di quella cosa lì per vederne tutti gli aspetti? Se discuti di quella cosa lì per vederne tutti gli aspetti scopri – aldilà del fatto che è successo quello sterminio in un mondo dove la gente crepava tutti i giorni, continuamente, dappertutto, dove le città venivano bombardate, la gente bruciata viva dai bombardamenti, la gente moriva nei lager, morivano i soldati in combattimento a migliaia tutti i giorni e questo già ti rimette un po’,  come dire, le cose in prospettiva –  scopri che se i comunisti jugoslavi erano così incazzati con gli Italiani è perché gli Italiani quei territori lì li avevano occupati nel 1918 dopo aver vinto la Prima Guerra Mondiale, e avevano cominciato a bastonare gli abitanti slavi, a proibirgli di parlare nella loro lingua, a decidere che quei paesi lì dovevano diventare italiani e dimenticarsi di essere stati slavi, e così via, e che dopo vent’anni di divieti, di bastonate e di abusi la popolazione slava locale odiava gli Italiani. E a quel punto, come succede, li odiava tutti: non è che stava a dire quello lì è buono, quello lì è cattivo, quello lì è fascista, quell’altro no: odiava gli Italiani.
E questo non vuol dire che chi prendeva le famiglie, gli sparava alla nuca e li buttava nei crepacci non debba rispondere davanti alla sua coscienza di quello che ha fatto. Però vuol dire che noi sappiamo un po’ di più di quel che è successo  e del perché è successo.
Quella è la storia.

Creare invece un giorno della memoria per controbilanciare l’altro, quello è l’uso della memoria che fa la politica.
Tutto quello che a me interessa è che abbiate gli strumenti per distinguere le due cose. Poi ognuno si schiera e può anche dire: “A me quell’uso politico della memoria mi sta bene, anch’io penso che i comunisti erano degli schifosi bastardi e mi va bene che si celebrino le loro vittime”.
Però bisogna saper distinguere.

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Nazismo, Fascismo e Comunismo: la differenza spiegata in parole semplici

Lo storico Alessandro Barbero spiega, in modo semplice e convincente, le differenze tra Nazismo, Fascismo e Comunismo.
Puoi scegliere in che modo seguire la sua spiegazione: leggendo il testo o guardando il video linkato alla fine dell’articolo.


Il Nazismo è una cosa che è stata inventata in Germania negli anni ‘20 e vent’anni dopo è finita: nel 1945 i capi nazisti sono morti tutti. Chiunque era stato nazista si è affrettato a buttare via il distintivo e a giurare che lui, per carità: “Sì, mi ero iscritto al partito per obbligo, però mai stato nazista in vita mia!” E il Nazismo lì è finito.
Poi voi direte “Ci sono ancora gli Skinheads in Germania Est che si ispirano a queste cose” (non ci stanno simpatici, magari): ma non è qualcosa di profondamente radicato e significativo. Il Nazismo, di per sé, è il Regime nazista: una roba che è stata messa su in Germania, che aveva lo scopo di rendere potente la Germania e sterminare gli Ebrei, scopo dichiarato fin dall’inizio. È stato quello. Tanto che, se voi trovate oggi uno che dice: “Io sono nazista”, è inutile chiedergli: “Ma Hitler ti sta simpatico?” Perché se uno è nazista, Hitler gli sta simpatico.
Il Nazismo aveva come simbolo la croce uncinata, la svastica; e la svastica vuol dire quello. Se uno oggi si volesse mettere una svastica all’occhiello, vuol dire: “Io sono per la dittatura, il militarismo, lo sterminio degli Ebrei, la grande Germania e così via”. Vuol dire quello.

E il Fascismo?
Il Fascismo è nato nel ‘19 e nel ‘45 è morto. È durato poco più di vent’anni anche lui. È morto il Fascismo ma non sono spariti i fascisti. L’Italia era piena di fascisti ed è tutt’ora piena di fascisti, perché il regime ha governato il Paese per lungo tempo, con un consenso diffuso anche se non generalizzato, ha fatto delle cose che una parte del Paese voleva. Nella memoria delle famiglie italiane moltissime famiglie hanno memoria di nonni antifascisti, operai finiti in galera, partigiani. Moltissime altre famiglie, invece, hanno memoria di nonni fascisti che hanno raccontato ai loro figli che nell’Italia fascista si viveva benissimo, non c’era nessun problema e non si capisce perché oggi si deve…. è così, questo è un dato di fatto. Però Il Fascismo in quanto tale, come fenomeno storico, dura dal ‘19 al ‘45. Dopo c’è il Neofascismo che è un’altra cosa. E infatti, se voi trovate qualcuno  (lo trovate di sicuro, anche qui nel quartiere penso sia pieno di persone che dicono “Ah, io sono fascista in realtà”) è inutile chiedergli: “E Mussolini ti sta simpatico?” Perché se uno è fascista, essere fascista vuol dire identificarsi col regime di Mussolini. Quello è. E il fascio littorio è il simbolo di quel regime, di quei valori. Quali sono i valori? Beh, l’Italia dev’essere forte, potente, unita, non bisogna litigare,  non ci devono essere partiti (che litigano fra loro), non ci devono essere giornali che scrivono cose scandalose. Dev’essere un Paese unito, forte, gerarchico. Non bisogna eleggere i Sindaci: decide il Governo chi dev’essere il Sindaco di Roma. Bisogna marciare tutti quanti per le strade, tutti inquadrati, e così l’Italia sarà forte, potente e rispettata. È una roba che piaceva a un sacco di gente. E a me, se qualcuno mi dice: “ Questa roba mi piace” mi sta anche bene. Ha tutto il diritto di dirlo, naturalmente. Però il Fascismo è quello.

Ma il Comunismo?
Ammettiamo pure che sia finito anche lui, perché nel mondo di oggi non lo si vede come una forza organizzata e attiva e neanche come un ideale preciso condiviso, come una cultura diffusa. Ammettiamolo pure. Ammettiamo che sia finito il Comunismo, che i Cinesi non siano comunisti, è tutta un’altra cosa (e lì sarebbe lunga), ma ammettiamo che sia finito.
È nato all’inizio dell’800 il Comunismo. Nel 1848 esce un librino firmato da Marx e Engels che comincia con le parole “Uno spettro si aggira per l’Europa”. E cioè i padroni, i ricchi hanno i brividi perché si sono accorti che i loro operai non si accontentano più di lavorare ed essere sfruttati ma si stanno organizzando e vogliono qualcosa. Vogliono cambiare il mondo.
Comincia nella prima metà dell’800 e dura fino a ieri. Centocinquant’anni. Il Comunismo è esistito in tutti i Paesi, nel senso che in tutti i Paesi del mondo ci sono state persone che dicevano “Io sono comunista, voglio il Comunismo”; ci sono state organizzazioni e partiti comunisti. Nella grande maggioranza dei Paesi non sono mai andati al potere, sono sempre stati perseguitati. Essere comunista voleva dire rischiare la galera o molto peggio. Perché ci sono tanti Paesi dove essere comunista a un certo punto voleva dire: ti sbattono al muro se ti trovano.
Dopodiché i partiti comunisti sono andati al potere in molti Paesi, per primo in Russia nel 1917 e poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel ‘45 in tanti altri Paesi. E non c’è nessun dubbio che al governo siano stati disastrosi. Non c’è nessun dubbio sul fatto che i Comunisti, dovunque sono andati al governo, hanno messo in piedi dei regimi fallimentari.
In Unione Sovietica è stato messo in piedi un regime omicida e assassino che ha dato tante cose – molta più eguaglianza che sotto il capitalismo – ma anche molta retorica vuota, molta propaganda insopportabile e molta violenza omicida. Stalin incarna un comunismo al potere che nei suoi anni, in quei vent’anni in cui Stalin è stato al potere in Unione Sovietica, ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler. Certo!
Dopodiché, il Comunismo è quello?
Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia appena unita di Vittorio Emanuele II che il Comunismo sono i campi di concentramento. Vallo un po’ a dire a quelli che si son fatti ammazzare in tanti Paesi lottando contro il colonialismo per esempio, e pensando che il Comunismo era una cosa meravigliosa.
Erano degli illusi? Può darsi benissimo. Però essere comunista, per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista, ha voluto dire: “Noi sogniamo un mondo migliore”. E cioè non un mondo dove marciamo tutti inquadrati e invadiamo l’Etiopia o la Polonia, beninteso: un’altra cosa. Un mondo dove sono tutti fratelli, tutti uguali.
Era un’utopia, erano degli illusi? È probabile. Quando hanno avuto la possibilità di applicarlo hanno fatto dei disastri! Verissimo. Dopodiché, la differenza mi pare evidente rispetto al Fascismo e al Nazismo. E se uno ignora questa differenza ignora la verità. Perché  la verità è che tu non puoi dire “Essere comunista è come essere nazista, la falce e martello è come la svastica”. Sono due cose diverse.

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