Se vai in questi Paesi, BPER Banca non la trovi più


In questi giorni sulle reti televisive nazionali, sui giornali e sui siti internet capita frequentemente di imbattersi nella campagna pubblicitaria di BPER Banca. Si tratta di spot molto accattivanti, che puntano a lanciare il messaggio di una banca vicina alle persone e allo loro esigenze.

Questo lo slogan dalla campagna:

 

 

In realtà, BPER Banca non la trovi se vai a Pisticci. O a Pacentro. O a Consandolo. O in una delle decine di località e Comuni che la BPER ha deciso di abbandonare.

Non si tratta, ovviamente, di una scelta che riguarda solo il nostro Istituto. C’è stato un passato in cui le banche facevano a gara per aprire nuove filiali, sforzandosi di coprire capillarmente l’intero territorio nazionale. Oggi la sfida è a chi chiude più sportelli: chiusure concentrate ovviamente nelle zone meno floride economicamente.

Apparentemente la scelta non fa una grinza: una filiale chiusa significa risparmiare molti soldi, tanto chi vuole può utilizzare i servizi online. E se poi non è in grado, pazienza, il problema è suo: è il mercato, baby!

Ma siamo sicuri che sia una scelta vincente?

Chiudere una filiale in un paesino di una zona interna significa escludere dai servizi bancari diverse categorie di persone: anziani, stranieri che non conoscono bene la lingua, soggetti economicamente fragili che non hanno accesso alla rete. Pensiamo solo al disagio di un anziano che vive da solo in una località di montagna ed ha il problema di andare a ritirare la pensione: anche uno spostamento di pochi chilometri diventerebbe un ostacolo insormontabile.
Chiudere una filiale in un paesino di una zona interna significa accelerarne lo spopolamento, contribuendo a trasformarlo in una città fantasma.

Dal punto di vista delle banche è indubbiamente una mossa vantaggiosa nel breve periodo: dal prossimo bilancio le voci di spesa diminuiranno in modo significativo, e anche se questo comporterà una lieve flessione dei ricavi provenienti dalle zone abbandonate il saldo sarà fortemente positivo. Peccato che quella “lieve flessione” arrivi da persone che saranno costrette a trasferirsi, da piccole aziende che dovranno spostare la sede o cessare l’attività, da posti di lavoro che verranno a mancare. Dietro i freddi numeri c’è la desertificazione di aree del paese sempre più ampie, con la perdita irrimediabile di un patrimonio culturale, storico, ed economico.

Quella che può sembrare una buona idea nel breve periodo diventa una scelta suicida se si guarda più in là nel tempo. Perché l’idea di un’Italia con zone ricche sempre più concentrate, e zone disagiate e abbandonate a sé stesse sempre più estese, non appare compatibile con i progetti di aziende che anche in futuro vorranno continuare a produrre utili.
Pensare di ottenere ricchezza diffondendo povertà è a dir poco folle.

Tempo fa, quando a comandare non era la legge del profitto immediato a tutti i costi, si parlava di responsabilità sociale dell’impresa. Il concetto è semplice: un’azienda deve contribuire a creare e diffondere benessere nel contesto in cui opera. E non deve farlo perché è buona e brava, ma perché le conviene: nessuna azienda può prosperare se tutt’intorno aumenta il disagio sociale. Per chiarire il concetto pensiamo ad un lussuosissimo negozio di abbigliamento, pieno di luci e di colori, posto tra le baracche di una favela: quanto potrebbe durare?

In realtà i manager delle banche non sono impazziti. Il punto è che a loro interessa solo il prossimo bilancio: di quello che accadrà da qui a qualche anno non gli importa assolutamente nulla. E questo perché da un lato puntano ad ottenere i ricchi premi che derivano dal raggiungimento degli obiettivi loro assegnati, dall’altro perché sanno che da qui a qualche anno l’assetto del sistema bancario sarà molto diverso viste le continue fusioni e incorporazioni, e quindi in definitiva perché stare a preoccuparsi del futuro di aziende che tra qualche anno potrebbero non esistere più?

Nei giorni scorsi ha creato enorme scalpore l’Assessora alla Sanità della Regione Lombardia quando ha proposto di dare priorità, per le vaccinazioni contro il Covid, alle Regioni che maggiormente contribuiscono a produrre PIL. Come dire che chi non è utile allo sforzo produttivo ha meno diritto di curarsi e vivere rispetto a chi produce. Un concetto aberrante, che ha suscitato reazioni tali da spingere l’improvvida assessora a fare marcia indietro con l’abusata formula di rito: “Sono stata fraintesa”.

Ma questo è esattamente ciò che le banche stanno ponendo in essere da anni: se sei nato in una regione che non produce abbastanza PIL, o sei colpevole di risiedere in un comune isolato, non hai il diritto di accedere ad una serie di servizi che in altre zone si considerano scontati. E questo perché con te la banca non guadagna a sufficienza.

Tra qualche settimana partirà il progetto “Gemini”, l’accorpamento in BPER di oltre 500 filiali ex UBI Banca, sforzo che vedrà tutti noi impegnati in un modo o nell’altro. Diamo ovviamente il benvenuto ai nuovi colleghi, che siamo felici di accogliere nella nostra Azienda, ma qualche preoccupazione per il futuro c’è. L’acquisizione di tante filiali rischia seriamente di produrre un’ accelerazione nelle chiusure degli sportelli, ovviamente concentrandole laddove l’Azienda ritiene di avere minori margini di guadagno.
Col risultato di contribuire a rendere più povere e disagiate zone del Paese sempre più vaste.

Speriamo di sbagliarci. Speriamo che come dice lo spot, BPER voglia davvero aiutare Bianca ad aprire il suo ortofrutta, anche se dovesse ostinarsi a non voler risiedere in una grande città.
Altrimenti dovremmo pensare che questo spot non sia altro che una foglia di fico, un modo per celare la realtà mostrando qualcosa che non esiste.

E’ il mercato, baby!

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