Salario minimo, la Cassazione sopperisce alla mancanza di una legge


Dopo le 6 sentenze della Cassazione che hanno dato ragione ai lavoratori si sono moltiplicate le cause: “C’è meno paura”


Le sei sentenze (depositate il 3 e il 10 ottobre) con cui la Corte di Cassazione ha ribadito che il salario del lavoratore deve essere dignitoso, rispettoso dell’art. 36 della Costituzione, e quindi alzato dai giudici qualora il contratto collettivo nazionale applicato preveda un minimo troppo basso, possono sembrare tecnicismi ai non addetti ai lavori. Soprattutto se il governo è impegnato ad affossare la legge sul salario minimo proposta dalle opposizioni, con continui rimandi, prima al Cnel, poi con un rinvio alle commissioni in un’eterna pilatesca melina. Ma, come chiariscono al Fatto anche sindacalisti e avvocati giuslavoristi, il quadro che si sta delineando in realtà è ben diverso dal precedente. In estrema sintesi, prima delle multiple sentenze di Cassazione un lavoratore che fosse inquadrato con un contratto collettivo povero, intorno ai 5, 6 o 7 euro lordi orari, ma firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi, poteva rischiare di incontrare sulla sua strada un giudice che respingesse l’idea (già maggioritaria nei tribunali) che il salario dovesse essere alzato dal tribunale, condannando l’azienda a pagare gli arretrati: un caso che s’è presentato nelle corti di appello di Milano e Torino, che hanno spinto alcuni ricorsi fino in Cassazione (con le sentenze ora ribaltate) o in diversi Tar del Sud, che hanno ritenuto la paga del vigilanza privata e servizi fiduciari congrua rispetto al costo della vita locale.

Ma con le ultime sentenze per i giuslavoristi, che ricorsi simili ne fanno, con successo, da anni, le carte in tavola sono cambiate: “È molto difficile che un giudice ignori una sentenza di Cassazione, e anche qualora accadesse, portando il caso in appello e poi in Cassazione con queste sentenze alle spalle è più semplice vedersi riconosciute le differenze retributive”, spiega l’avvocato giuslavorista Lorenzo Venini, che rifiuta di parlare di vittoria certa, data l’autonomia dei giudici, ma ammette che una sconfitta ad oggi diviene piuttosto improbabile. Questa settimana un primo caso al Tar di Bari, su un ricorso della Cgil: il tribunale ha di nuovo ritenuto inadeguata la retribuzione di un lavoratore, condannando il datore di lavoro ad applicare un altro trattamento retributivo (1.218 euro netti al mese). Sentenza che assomiglia a tante altre registrate nel recente passato, ma con una differenza: cita le sentenze di Cassazione, spazzando via ogni dubbio sulla decisione da prendere.

Il cambio di paradigma, o meglio l’accelerazione, sta passando anche tra le fila dei lavoratori, in particolare quelli inquadrati col poverissimo Ccnl Servizi fiduciari, circa 5,5 euro lordi l’ora di minimo e pochi straordinari notturni: sono più di 60 mila. Se ne sono accorti anche i sindacati che già da tempo avevano imboccato la strada dei ricorsi al Tar. Usb vigilanza privata, subodorando un interesse crescente tra i propri iscritti, qualche giorno fa ha pubblicato sui social una chiamata pubblica: “Volete fare ricorso? Contattateci!”. La risposta è stata sorprendente, racconta Vincenzo Lauricella, con diverse decine di mail in pochi minuti: “Già da tre anni facciamo decine di ricorsi simili l’anno, in queste nuove condizioni è probabile che diventino centinaia”. Il processo è lungo: un ricorso collettivo si può fare solo con un datore di lavoro in comune, ma l’idea del sindacato è quella di procedere a diversi ricorsi simili in parallelo: la sensazione di Lauricella è che la vittoria sia pressoché scontata ora, con il rischio di dover arrivare in Cassazione, allungando il procedimento “e i lavoratori lo capiscono, si tratta di più di 300 euro di differenza retributiva al mese, cifre allettanti”.

Usb non sarà l’unico sindacato a muoversi in maniera simile: tutti quelli che già in questi anni hanno proposto ricorsi stanno ricevendo più richieste e con esse gli studi legali di riferimento, dai sindacati di base come Adl Cobas a quelli che hanno pur firmato il contratto servizi fiduciari, ma non ne negano l’inadeguatezza, come la già citata Cgil e Uiltucs, che ha promosso anche i ricorsi arrivati poi in Cassazione. E il ritornello è sempre più spesso lo stesso: sotto una certa cifra non si può andare, per cui, pur rispettando tutti i contratti collettivi, il salario non sarà meno di 1.218 euro mensili. Il grosso dei lavoratori è ancora paralizzato dalla paura di ritorsioni, ma anche poche migliaia di loro potrebbero provocare una valanga che può creare più di un imbarazzo al governo.

 

Articolo di Leonardo Bison su “Il Fatto Quotidiano” del 22/10/2023

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