Ma davvero con il Jobs Act i licenziamenti sono diminuiti?


Il deputato di Italia Viva Luigi Marattin sostiene che una semplice differenza tra percentuali sia la “prova” che il Jobs Act abbia causato una diminuzione dei licenziamenti.


Anzitutto una premessa: questi non sono arrovellamenti su questioni tecniche: spiegare perché l’affermazione è infondata è importante, sia per la rilevanza del tema in sé, sia perché pubblico e giornalisti devono imparare a difendersi dalle interpretazioni fantasiose dei dati.

Per sostenere che tra due variabili (il “trattamento”, cioè il Jobs Act, e il suo effetto ipotetico, cioè i licenziamenti) esiste un rapporto di causa-effetto bisogna confrontare l’andamento dei licenziamenti in un gruppo di lavoratori “trattati” in modo “randomizzato” (cioè che, per puro caso, abbiano sottoscritto un contratto di lavoro successivamente all’approvazione del Jobs Act) e in un gruppo “di controllo”.

Bisogna inoltre tenere conto della miriade di altri fattori macroeconomici e individuali che possono influenzare la probabilità di licenziamento dei lavoratori trattati e non trattati. Nonché delle forze che possono orientare nella stessa direzione sia l’esposizione al trattamento (in questo caso l’assunzione regolata dalla nuova misura di policy) e il suo ipotetico effetto (i licenziamenti).

Ora, uno studio che tenga conto di tali aspetti metodologici esiste. Per identificare l’effetto del Jobs Act, Tito Boeri e Pietro Garibaldi hanno usato un dataset formidabile, che contiene informazioni su assunzioni e licenziamenti dell’intero universo delle imprese italiane tra i 10 e i 20 dipendenti e sulla storia professionale dei rispettivi lavoratori. Il paper si può scaricare qui.

L’analisi empirica seleziona tutte le assunzioni e i licenziamenti effettuati tra il gennaio 2014 e il dicembre 2016. Poiché dal marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti i contratti dei nuovi assunti sono stati regolati dal Jobs Act, le imprese con più di 15 dipendenti sono considerate “trattate” (cioè si assume che i loro nuovi dipendenti abbiano sottoscritto contratti regolati dal Jobs Act), mentre quelle sotto i 15 dipendenti sono il “gruppo di controllo”.

Grazie alla ricchezza dei dati, le stime tengono conto dei molti fattori che potrebbero creare confusione inducendo a scambiare una correlazione spuria per un nesso causale, come le caratteristiche personali dei lavoratori, la situazione macroeconomica e i trend seguiti dalle variabili rilevanti prima dell’introduzione del Jobs Act.

Per accertare l’esistenza di un rapporto di causa-effetto, gli autori hanno analizzato la differenza nelle assunzioni e nei licenziamenti *prima* e *dopo* l’introduzione del Jobs Act e tra le imprese “trattate” e “di controllo”.

I risultati sono molto interessanti. In sintesi:

– Nelle imprese “trattate” si osserva un aumento del 60% delle assunzioni a tempo indeterminato e del 100% della conversione dei rapporti a tempo determinato rispetto al gruppo di controllo.

– Ma le imprese trattate registrano anche un aumento dei licenziamenti del 50% rispetto alle imprese non trattate.

Quindi: la differenza tra le percentuali di licenziamento dei lavoratori assunti coi due regimi è suggestiva ma non consente alcuna inferenza causale. In altre parole, sulla base di quel dato è impossibile affermare che il Jobs Act abbia diminuito i licenziamenti.

Le uniche stime credibili (cioè metodologicamente fondate) che per il momento abbiamo a disposizione suggeriscono che, invece, sia avvenuto l’esatto contrario. Il Jobs Act ha causato un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, ma anche un aumento dei licenziamenti, statisticamente significativo e di dimensioni notevoli.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

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