Le stragi sul lavoro, morti per conto terzi: è il profitto, bellezza


A ogni strage sul lavoro ci domandiamo come scriverne, cosa dire che non sia già stato detto centomila volte, come andare oltre la rabbia e l’indignazione, il cordoglio e la vicinanza ai parenti delle vittime. È successo ad agosto, quando a Brandizzo 5 operai sono morti travolti da un treno in corsa, poi a febbraio quando altri 5 lavoratori sono stati schiacciati da una trave nel cantiere dell’Esselunga a Firenze.
Martedì un’esplosione nella centrale idroelettrica di Bargi, nel bacino artificiale di Suviana, sull’appennino Tosco-emiliano, si è portata via Mario, Vincenzo e Pavel, ma il bilancio non è ancora definitivo: ci sono quattro dispersi, otto feriti di cui uno in gravi condizioni. Li chiamano “incidenti” perché sono eventi inattesi, ma nei primi due mesi del 2024 si sono registrate 119 vittime rispetto alle 100 del primo bimestre 2023 (5 vittime in più rispetto al 2022, 15 in più sul 2021 e 11 rispetto al 2020) all’elenco dei caduti mancano ancora quelli di marzo e aprile. Le chiamano morti bianche perché il bianco è il colore della purezza, il contrario del nero, il colore del lavoro sommerso. Le chiamano morti bianche perché sennò dovrebbero definirle “omicidi sul lavoro”.
A parte le stragi, che invadono le prime pagine dei giornali, i morti sul lavoro del giorno per giorno sono al massimo dei trafiletti in cronaca: è un bollettino di guerra, e in guerra la morte è un’abitudine. Oggi, non solo a Bologna, ci saranno manifestazioni per chiedere più sicurezza, più ispezioni, più garanzie.

Dopo Firenze, il governo ha introdotto con un decreto la patente a punti per le imprese, come quella dell’automobile: si parte con 30 punti, si può lavorare con un minimo di 15: se ti muore un operaio te ne tolgono 20, 15 in caso di infortunio grave. Ma, frequentando corsi di aggiornamento e formazione, si possono ripristinare 5 punti (con un morto più un corso di formazione, si arriva di nuovo a 15 punti e si può lavorare): i crediti riacquistati “non possono superare complessivamente il numero di quindici”. Una presa in giro, soprattutto perché il decreto non ha toccato il nodo centrale dei subappalti, che proprio questo governo ha deregolamentato. Così, con i subappalti a cascata, la ditta che vince la gara può affidarsi a una serie infinita di altre aziende o ditte individuali; così i lavoratori a cascata spesso non hanno il contratto di categoria relativo alle mansioni che svolgono (e per i quali, come nell’edilizia, sono previsti presidi di sicurezza più stringenti) o magari nessun contratto. E questo accade, di fatto, anche negli appalti pubblici, sempre grazie al governo Meloni che ora promette di tornare indietro. Le aziende risparmiano sui costi del lavoro e della sicurezza, ci rimettono i dipendenti, anche se sarebbe meglio chiamarli schiavi visto che i diritti sono sempre meno e il salario pure.
L’unica logica è il profitto, a qualunque costo: guadagnare il più possibile, il resto non conta. Nemmeno le vite.

Su La Stampa di ieri si poteva leggere che la diga di Suviana (senza cui, quattro decenni dopo non si sarebbe potuta realizzare la centrale di Bargi) è stata costruita un secolo fa, negli anni Trenta del Novecento: i lavori di scavo della montagna, “portarono a movimentare 85.000 metri cubi di rocce e 45.000 metri cubi di materie alluvionali e terrose in questa zona allora impervia dell’alto appennino tosco-emiliano a cavallo tra Bologna e Pistoia, avevano comportato un grande sacrificio di vite umane. Tredici operai morti oltre a una innumerevole quantità di infortuni”. Cento anni dopo, nella Repubblica fondata sul lavoro, siamo più o meno nelle stesse condizioni.
Almeno gli operai degli anni Trenta sapevano per chi lavoravano e morivano, oggi sono morti per conto terzi.

 

Articolo di Silvia Truzzi su Il Fatto Quotidiano dell’11/4/2024

image_pdfScarica PDF di questo articoloimage_printStampa articolo