La voce e il corpo delle donne


“Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”

esclamava Nanni Moretti in una memorabile scena del film “Palombella rossa”.

Le parole contano.
C’è una parola inglese, ad esempio, che non è un neologismo ma il cui uso, negli ultimi tempi, è diventato più significativo: BOSSY.
Com’è facile immaginare, questa parola deriva da “boss”, “capo”, e secondo il sito internet del Cambridge dictionary una persona “bossy” è una che dice sempre alle persone cosa devono fare.
In astratto si tratta dunque di un aggettivo che può essere predicato sia rispetto ad un uomo che ad una donna.
Proviamo però a perdere qualche minuto per leggere gli esempi che lo stesso Cambridge dictionary fa per spiegarci la parola “bossy”:

  • Lei è forte senza essere bossy.
  • Smettila di essere così maestrina e bossy!
  • Blake potrebbe sembrare bossy, ma devo dirti che è Lisa che porta veramente i pantaloni in quella relazione.
  • La mia sorella maggiore era molto bossy.
  • Le ragazze di quell’età possono essere piuttosto bossy.

L’aggettivo negativo bossy, nella pratica, viene dunque riferito prevalentemente, se non esclusivamente, a soggetti di sesso femminile.
È chiaro: l’essere un BOSS è una prerogativa necessariamente maschile, quindi una donna in una posizione apicale non può che essere BOSSY, prepotente, e tentare di scimmiottare le qualità maschili.
Niente di strano: da che mondo è mondo, se si vuole fare un complimento ad una donna ed elevarla al rango degli uomini si dice che “ha le palle”, o che è “cazzuta”.
Difficile imbattersi in complimenti altrettanto efficaci che non implichino il possesso di genitali maschili.
Una donna, per essere idonea al comando, deve comportarsi, vestirsi, esprimersi come un uomo.

Margaret Thatcher prendeva lezioni per rendere la voce più profonda, ed ancora oggi, nei corsi di leadership, si raccomanda alle donne di abbassare il tono della voce per renderla più calda, più “maschile”.
La voce delle donne è sempre stato un problema.
Si pensi ad uno dei capisaldi della letteratura occidentale: l’Odissea.
Ad un certo punto, Penelope, moglie di Ulisse, che è lontano perché impegnato in uno dei suoi lunghissimi viaggi, scende dalle sue stanze private e si reca nella grande sala della reggia, dove un cantore allieta i presenti cantando le avversità che gli eroi greci affrontano per tornare a casa.
Penelope, turbata e rattristata dal tema della canzone, si rivolge al cantore chiedendogli di cantare qualcosa di più lieto.
E lì, il figlio Telemaco – che è di fatto un ragazzino – interviene e, dopo aver giustificato il cantore, così la liquida: “Madre, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia e comanda alle ancelle di badare al lavoro. La PAROLA spetterà qui agli uomini, a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa”.
È probabile che questo rappresenti il primo episodio letterario di un uomo, in questo caso un ragazzino, che mette a tacere una donna, indipendentemente dall’età, dal grado sociale e dal rispetto dei ruoli familiari.
Perché, per anni, il privilegio di poter parlare in pubblico è stato solo ed esclusivamente degli uomini. Oppure la voce delle donne porta sventure, come nell’arcinoto caso di Cassandra.

Secondo il mito, la giovane era stata a lungo corteggiata dal dio Apollo, che le aveva donato il potere di prevedere il futuro; tuttavia, alla fine del corteggiamento, Cassandra rifiutò di concedersi ad Apollo, e per questo il dio del sole e di tutte le arti la “maledì” condannandola a prevedere, sì, il futuro, ma a non essere mai creduta.
Immaginate dunque lo strazio di questa povera Cassandra, che si trova ad annunciare il disastro del cavallo di Troia, ma viene liquidata dal padre Priamo come un menagramo.
Le sciagure di Cassandra non sarebbero però terminate lì; la poveretta, infatti, verrà stuprata nel tempio di Atena, diventerà la schiava di Agamennone e poi verrà uccisa.
Tutto per non essersi sottomessa al volere di Apollo.

Ci sono le storie, la mitologia, la letteratura, che ci raccontano della (non) voce delle donne.
E poi ci sono le norme, che dispongono della vita delle donne.
Il diritto penale, ad esempio, è una specie di termometro della società, perché, più di qualsiasi altro, ci dice moltissimo di un paese e di un ordinamento giuridico, e ci racconta, tra le righe, come questo si evolve nel tempo.
Perché il diritto penale, quando ci dice “questo è vietato”, stabilisce le priorità di una comunità e i suoi valori; in un mare di libertà, ritaglia una serie di isole, ognuna delle quali rappresenta una cosa che non possiamo fare: è vietato rubare, è vietato uccidere, è vietato stampare banconote false… Si tratta di un equilibrio difficile da trovare, quello tra divieto e libertà, perché più si espande quello che è penalmente rilevante, cioè la superficie delle isole, meno mare di libertà ci rimane.
Ma il diritto penale è anche l’indicatore di come le donne vengono trattate in una società perché è il modo con cui si dispone della libertà delle donne e anche del corpo delle donne.
E anche qui le parole contano.

La legge che 40 anni fa depenalizzò l’aborto, abrogò l’art. 547 del codice penale, che era inserito in un titolo denominato “Dei delitti contro la integrità e la sanità della STIRPE”.
STIRPE.
Il bene protetto, dunque, non era la salute della donna: la norma non intendeva scoraggiare la donna dall’intraprendere azioni che avrebbero potuto pregiudicare la sua salute o addirittura la sua vita, tant’è che la donna che si procurava un aborto (se sopravviveva) era punibile con la reclusione da uno a quattro anni.
La finalità era esclusivamente quella di proteggere la DISCENDENZA dell’uomo: cioè il nome dell’uomo, il patrimonio dell’uomo, ecc. ecc.
Le giovani donne che nel 1978 hanno esultato per la battaglia vinta per la legalizzazione dell’aborto non avrebbero mai pensato che già le loro figlie si sarebbero trovate nell’urgenza di combattere contro un governo che mette, quasi quotidianamente, in discussione un diritto che sembrava acquisito.

Le parole sono importanti.
L’art. 525 del codice penale – ora abrogato – diceva che le pene stabilite per reati come il ratto (cioè IL SEQUESTRO DI PERSONA) a fine di matrimonio o a fine di libidine erano diminuite se il colpevole, prima della condanna, senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della persona rapita, la restituiva spontaneamente in libertà, riconducendola alla casa donde la tolse o a quella della famiglia di lei, o collocandola in un altro luogo sicuro, a disposizione della famiglia stessa.
La parola chiave qui è “COLLOCANDOLA”. La donna poteva essere “tolta” da un luogo e “collocata” in un altro, né più e né meno come si farebbe con un soprammobile.
Questa norma diceva in pratica che il sequestro di persona era meno grave se un uomo si “prendeva” una donna, se la portava via, e poi, se per una qualsiasi ragione non la violentava, la riportava dove l’aveva presa, restituendola alla famiglia (leggi: il di lei padre o marito), oppure COLLOCANDOLA in un luogo sicuro a disposizione della famiglia.
Tutto questo senza che la volontà e le sensazioni della vittima venissero minimamente indagate.
Com’è noto, il codice penale italiano è stato adottato nel 1930, e questa è dunque una norma che risale al periodo fascista. Ma è altrettanto vero che l’articolo in questione è stato abrogato nell’assai poco lontano 1996.

È vero, le parole sono importanti, ma le immagini forse lo sono altrettanto.

 

C’è una bella e famosissima foto, che circola speso sui social media, che ritrae una giovane corridora di nome Kathrine Switzer mentre corre la maratona di Boston nel 1967.
All’epoca le donne non potevano correre quella ed altre maratone, e quindi la Switzer si iscrisse soltanto con le iniziali del nome per nascondere il suo genere.
Dopo pochi chilometri dalla partenza, però, i giudici di gara notarono che c’era una donna nel gruppo, e uno di loro scese dalla macchina che seguiva i corridori e si scagliò contro la Switzer, cercando di strattonarla per farla ritirare.
Ed è proprio in quel momento che viene scattata la celebre foto, quando due “angeli custodi” che correvano accanto a Kathrine, il suo allenatore e il suo ragazzo, fanno scudo con i loro corpi e addirittura attaccano il giudice di gara per proteggere la ragazza.
La grandezza di quella foto non sta solo nel cogliere benissimo l’azione del momento e le espressioni dei soggetti: è anche un’allegoria di quello che, secondo molte donne, dovrebbe essere il femminismo e di come dovrebbe portarsi avanti la lotta per i diritti delle donne e per la parità di trattamento.
Perché, anche se noi donne non costituiamo una minoranza nel senso strettamente numerico del termine, veniamo trattate come se lo fossimo.

E allora, per combattere le nostre battaglie, difendere il nostro corpo e far sentire la nostra voce, abbiamo bisogno anche dell’aiuto dei nostri uomini.

Roma 6 novembre 2018

Angela Di Martino
Segreteria Nazionale Fisac CGIL Banca d’Italia

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