La disfatta dei paesi economicamente sottosviluppati dell’Africa


Partiamo da una asserzione spesso presente oggi sui social: se esporti armamenti nei paesi africani in via di sviluppo, poi, non puoi lamentarti di importare profughi.

Ora, per poter rendersi conto di cosa effettivamente accade oggi nei paesi sottosviluppati dell’Africa, occorre necessariamente ricorrere a qualche nozione di storia economica con particolare riferimento alla colonizzazione, la quale venne attuata tramite i due stadi del Capitalismo, ossia la fase del capitalismo mercantile e quello del capitalismo industriale. Possiamo ricordare il primo processo, che si svolge dal 1500 alla metà del 1700; esso fu reso avverabile grazie a rilevanti innovazioni nel campo della navigazione, che portarono a rendere possibile  tre propositi: la ricerca di oro (e di altri metalli preziosi),  la costituzione di empori per la vendita in monopolio di merci della madre patria e per l’acquisto di merci esotiche da rivendere solo nel paese colonizzatore, e la fondazione di piantagioni per produrre, per mezzo di schiavi,  merci coloniali (come zucchero, caffè, tabacco, cacao) da vendere poi nella madre patria.

E’ evidente che esiste una differenza sostanziale tra i paesi che si sono sviluppati per primi ed i paesi ritardatari; aggiungiamo che, purtroppo, con il passare del tempo si sono definiti freni sempre maggiori ad uno sviluppo industriale essenzialmente privato, come quello che abbiamo osservato in Inghilterra nel periodo a cavallo tra il 1750 e il 1850. Sappiamo che lo sviluppo avviene per stadi: nel primo, troviamo nel settore industriale diverse produzioni di base come l’elettricità, l’acciaio, il cemento, diverse produzioni chimiche e meccaniche, con produzioni di beni durevoli di consumo, mentre, nel settore dei servizi, troviamo ferrovie e servizi di credito di base;  nel secondo stadio troviamo lo sviluppo della agricoltura intensiva, il trionfo del commercio di beni di consumo durevoli,  le industrie tessili indirizzate verso la produzione di massa di tessuti di uso popolare, la diffusione delle automotive,  la rivoluzione nei trasporti, l’esplosione dell’edilizia e poi, nei tempi più vicini, l’affermazione delle comunicazioni radiotelevisive, dell’elettronica e dell’informatica. Ora, nei paesi ritardatari, una proporzionata offerta interna di prodotti e di servizi di base rappresenta uno dei prerequisiti dello sviluppo produttivo moderno. Possiamo pensare che, se i vantaggi dei paesi arretrati sono rappresentati dalla possibilità di accedere a sicure tecnologie e ad assodati metodi organizzativi efficienti e moderni, ai quali le regioni progredite sono arrivate attraverso prolungate evoluzioni, gli svantaggi dipendono da tre ordini di “progresso”: il salto della tecnologia, il salto del mercato e il salto imprenditoriale.

È evidente che questi salti sono stati notevoli soprattutto nei paesi che avviarono per primo uno sviluppo industriale moderno, come l’Inghilterra. Infatti, era stato possibile uno sviluppo graduale in tutte le industrie, date le conoscenze tecniche del tempo; era pacifico che anche aziende relativamente piccole fossero in grado di produrre in modo economico, cioè a costi inferiori ai prezzi di mercato, ed era quindi possibile un passaggio sequenziale, dalla piccola azienda artigianale con poche attrezzature e gestione familiare, all’azienda industriale basata sulle macchine. In sostanza, in questo processo di espansione non si incontrava la concorrenza di grandi aziende, che allora non esistevano, né in Inghilterra, né in altri paesi. Parallelamente, uno sviluppo graduale era possibile rispetto al mercato, questo perché le nuove aziende avevano a disposizione il mercato locale, nel quale si ampliavano a spese delle unità artigianali, le quali entravano in crisi. Inoltre, per espandere le vendite sui mercati esteri, le nuove aziende dovevano battere nella concorrenza i prodotti delle aziende artigianali di altri paesi con il perfezionarsi dei metodi produttivi, in una competizione facile in quanto i metodi usati dagli artigiani non mutavano nel tempo e questi fino ad un certo limite potevano difendersi soltanto con il vendere a prezzi decrescenti subendo di conseguenza redditi decrescenti. Poi, sotto l’aspetto sociale, era stata possibile la formazione graduale di imprenditori nel senso moderno della definizione, con capacità gradualmente acquisite di dirigere grandi aziende in molti rami della produzione.

Oggigiorno questo sviluppo graduale non è più possibile, in quanto vi è un salto imposto dalla tecnologia nei casi in cui, per produrre economicamente, le dimensioni delle unità produttive debbono essere grandi. Vi è poi un salto nella conquista del mercato perché il mercato locale, per certi beni, in certe aree, è già stato conquistato da grandi imprese moderne, le quali sono ubicate altrove e per competere con le quali occorrono una vasta organizzazione commerciale e costose campagne pubblicitarie. Stesso discorso se pensiamo alle esportazioni; anche in questo ambito le difficoltà sono ancora maggiori, perché si tratta di battere sui mercati esteri i prodotti di aziende moderne di altri paesi, che in quei mercati sono già affermati. Infine, citiamo la difficoltà di un salto nella formazione delle persone capaci di diventare imprenditori industriali.

Al principio del 1900, questi ostacoli potevano essere sorpassati dalle imprese private con un aiuto relativamente limitato e, in ogni caso, esterno diretto dell’autorità pubblica, soprattutto con infrastrutture e dazi protettivi; oggi, per le economie (africane) sottosviluppate, questi ostacoli sono divenuti così problematici da reclamare dei salti che le forze private locali trovano impossibile effettuare. Unica via azzardata per superare le difficoltà è stata quella che apriva le porte all’ingresso di grandi società straniere. Ma questa opzione ha posto nuovi problemi per i paesi africani economicamente arretrati, principalmente di tipo politico ed istituzionale, con rischi di inevitabili interferenze esterne e nuovi problemi economici legati allo sfruttamento della classe lavoratrice e delle risorse naturali.  Anche i tentativi di utilizzare come strategia di contenimento le società sussidiarie, ossia aziende locali che fanno parte di un gruppo internazionale, non hanno risolto alcun problema. È così che i sindacati che operano nel terzo mondo si sono ritrovati a dover cercare di adottare delle politiche tali da ridurre non solo i rischi economici, ma anche i rischi politici, registrando, purtroppo, che coloro che lavorano per conto di società a carattere multinazionale sono difficilmente raggiungibili e corporatizzati, perché isolati dal contesto generale di forte disoccupazione.

Possiamo sicuramente associarci a chi sostiene l’impossibilità di utilizzare la scienza economica occidentale ai paesi africani meno sviluppati, in quanto gli strumenti offerti sono risultati inapplicabili; ad esempio, possiamo ritenere che l’analisi keynesiana della sottoccupazione non si adatti ai paesi meno sviluppati. In questi stati, il rapporto tra esportazioni e il PNL (prodotto nazionale lordo) varia in maniera rilevante in relazione alla loro dimensione economica; in alcuni paesi, molto piccoli, esso supera il 50% e le loro esportazioni sono dirette prevalentemente ai paesi sviluppati. Esse consistono soprattutto di beni primari, che vengono dati in cambio di manufatti, carburanti e materiali industriali necessari per il funzionamento della economia e per lo sviluppo economico. Malauguratamente molti paesi sono specializzati in uno oppure in un piccolo numero di beni privati: ad esempio abbiamo l’economia del petrolio o l’economia delle banane, o del cacao, o del caffè. Inoltre, i proventi delle esportazioni ballano considerevolmente in conseguenza delle variazioni dei raccolti o dei prezzi mondiali o della domanda estera (che tende a diminuire per ragioni tecnologiche: pensiamo, ad esempio, ai materiali sintetici prodotti in numero crescente dai paesi avanzati, che sostituiscono le fibre e le altre materie prime). Come conseguenza, le variazioni delle esportazioni dei paesi meno sviluppati sono la causa principale di instabilità economica e, quindi, di crisi sociale e di crescita della povertà. Se aggiungiamo che molti paesi africani vengono indotti ad acquistare armi e condotti a praticare la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali, spesso causate dall’interferenza dei paesi imperialisti, ci rendiamo conto che non vi è alcuna possibilità per l’Africa (del terzo mondo) di riscatto dallo sfruttamento economico perpetrato dalle potenze capitalistiche.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Fisac Cgil Chieti

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