Banche piene di titoli di Stato: perché lo spread fa paura


Gli istituti, in 7 mesi, hanno aumento di 50 milardi il debito pubblico in pancia. C’è il rischio di una nuova tornata di aumenti di capitale e del taglio dei prestiti a famiglie e imprese.

 

Il timore di tornare indietro di sette anni

Di fatto con i loro acquisti le banche italiane hanno rimesso in moto il triste copione della crisi del debito sovrano del 2011. Lo spread volato sopra i 500 punti indusse infatti molti detentori esteri a liberarsi delle posizioni sull’Italia e il nostro sistema finanziario, banche e assicurazioni, finì per immolarsi sull’altare della stabilità. Senza l’apporto degli acquisiti controcorrente delle banche chissà cosa sarebbe accaduto ai destini della tenuta del nostro debito da 2.300 miliardi. Un ruolo improprio che ha fatto di necessità virtù ma con un contraccolpo feroce: appaiare sempre più il rischio sovrano a quello bancario. Come in un’osmosi perfetta. E pericolosa. Come non ricordare che al picco della crisi post 2011 il sistema bancario era arrivato a superare i 400 miliardi di titoli di Stato nei bilanci? Il doppio dei livelli abituali pre-crisi. Consegnando mani e piedi delle banche ai capricci dello spread. Un legame vizioso e perverso che se da un lato ha evitato il crac del Paese ha reso le banche vulnerabili. E ora con 50 miliardi in più acquistati negli scorsi mesi il sistema bancario è sempre più vicino a replicare lo schema del 2011.

Del resto non sembrano esserci molte alternative. Chi può sostituire i fondi d’investimento stranieri in fuga? Le famiglie forse? Ora, ogni volta che lo spread prende il volo verso l’alto le banche segnano perdite sul loro patrimonio. Gli analisti stimano che per ogni 100 punti base di rialzo del differenziale di rendimento le banche accusino svalutazioni del loro capitale di base per 30 punti base. E se il capitale viene eroso accadono due cose: le banche potrebbero essere costrette a una nuova tornata di aumenti di capitale e soprattutto si creano le premesse per un nuova stretta creditizia su imprese e famiglie.

 

I bond sono due volte il capitale degli istituti

Quel numero del controvalore dei Btp in pancia alle banche da solo dice poco. Ma se rapportato al capitale ci racconta che gli oltre 370 miliardi di titoli di Stato valgono come aggregato quasi 2 volte il patrimonio degli istituti. Un peso notevole che le espone molto ai capricci del rialzo dei rendimenti che svaluta i titoli e intacca il patrimonio. Solo le prime 5 banche italiane possedevano a fine giugno quasi la metà dello stock complessivo. Intesa la prima banca italiana per redditività e solidità ha tra portafoglio bancario e assicurativo 82 miliardi di titoli del debito italiano. UniCredit ne ha per 55 miliardi; Monte dei Paschi di Siena ne possiede 21 miliardi, in crescita sui 17,6 miliardi di fine 2017; Ubi ha 9,9 miliardi e BancoBpm ne possiede per 19 miliardi.

Le due grandi banche hanno mantenuto nel primo semestre più o meno identici i pesi, mentre Mps ha incrementato di 3,5 miliardi gli acquisti e Ubi e BancoBpm hanno alleggerito di un 10% entrambe l’esposizione. Il tema di fondo non è il peso in sé ma il suo rapporto con l’attivo di bilancio e il capitale soprattutto. Mps che non a caso è banca pubblica ha il rapporto più sbilanciato: i 21 miliardi di bond governativi italiani in portafoglio valgono il 230% del capitale e il 15% dell’intero attivo di bilancio. Ovvio che la banca di Siena finisce per essere la più esposta ai rialzi dello spread.

 

Il rischio di un nuovo credit crunch

Ma il tema del legame simbiotico con il debito pubblico non riguarda solo eventuali deprezzamenti di capitale. Riguarda anche il futuro dell’industria del credito e dei suoi rapporti con l’economia reale. Le banche, come fatto in tutte le precedenti crisi, possono a fronte di incertezze future sul capitale stringere i cordoni del credito. Fare delevereging come si dice in gergo. Un nuovo credit crunch potrebbe riapparire sulla scena. Non che quello vecchio sia passato. Tuttora mancano all’appello 70 miliardi di stock di prestiti a imprese e famiglie. Il monte crediti era nel 2013 di 1.414 miliardi. A fine 2017 siamo fermi a 1.347 miliardi. In caduta i prestiti alle imprese per almeno 100 miliardi compensati in parte dal buon andamento dei mutui alle famiglie. Solo per dare un’idea UniCredit ha ridotto dal 2013 al 2017 i crediti alla clientela per 55 miliardi; Mps per 40 miliardi su uno stock di 131 miliardi (-30% in 5 anni). Solo Intesa è andata controcorrente incrementando del 19% il suo stock di crediti passato da 344 miliardi del 2013 a 411 miliardi di fine 2017. Una nuova stretta del credito per un Paese che sta frenando sulla crescita può aprire le porte a una nuova recessione.

 

Articolo di Fabio Pavesi su “Il Fatto Quotidiano” del 10/10/2018

 

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