25 novembre: giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne


IL CONFINE TRA COMPLIMENTI E MOLESTIE
VIOLENZA DI GENERE E MOLESTIE SUI LUOGHI DI LAVORO

Con il termine violenza di genere si indica la violenza esercitata contro una o più persone, in ragione del loro genere di appartenenza.

Quello della violenza di genere è un fenomeno complesso, spesso difficile da indagare, perché reso invisibile da codici culturali che la fanno rientrare nell’ambito delle normali e legittime relazioni tra i generi. Si nutre, quindi, del modo in cui da sempre sono interpretate la differenza tra i sessi e i rispettivi ruoli e si colloca nella storica asimmetria di potere tra i generi.

I numeri della violenza contro le donne, in tutte le sue manifestazioni sino ad arrivare a quella estrema del femminicidio, li conosciamo e sono terrificanti ma è necessario, così come ha sostenuto Laura Boldrini, non solo riconoscere che “la violenza che subiscono le donne è uno sfregio, ma lo sono anche l’indifferenza e i pregiudizi”. E per superarli, è necessario cambiare la cultura dominante. Per questo siamo qui oggi a parlarne.

LA LEGISLAZIONE ITALIANA

L’art 1 della dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 recita: è “violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza, fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.
Da quella data in poi, molte leggi sono state emanate; con particolare riferimento all’Italia abbiamo:

  • 1996 “Norme contro la violenza sessuale”; 
  • 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”; 
  • 2009 reato di stalking; 
  • 2013 ratifica della Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in cui la violenza viene riconosciuta come una forma di discriminazione, una violazione dei diritti umani; 
  • 2013 norme anti-femminicidio; 
  • 2015 congedo per le donne vittime di violenza di genere; 
  • 2017 disegno di legge 2719, che tutela i figli rimasti orfani di un genitore a seguito di un crimine domestico.

Nonostante tutte queste leggi, succede che ogni due giorni una donna perda la vita per mano di un uomo col quale, quasi sempre, ha avuto una relazione. In Italia sono 7 milioni le donne che, nel corso della loro vita, sono state vittime di maltrattamenti, atti persecutori, percosse.

Sempre in Italia, sono state uccise 116 donne nel 2016, 112 nel 2017 e 86 nel 2018, quasi tutte da partner o ex partner. Numeri in calo, ma che sono sempre i numeri di una strage. Numeri che tolgono il fiato e dietro i quali ci sono storie di donne che hanno subito violenze di ogni forma, insulti, denigrazioni, comportamenti di controllo. Secondo i dati Istat, in Italia il 13,6% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali dal partner o ex partner.

Vittime e aggressori appartengono a tutte le classi sociali e culturali e a tutti i ceti economici. Non esistono profili di personalità né della vittima né degli autori delle violenze. 
E i tanti  stereotipi secondo i quali i violenti sarebbero poco scolarizzati, stranieri, o tossicodipendenti impediscono di vedere il fenomeno per quello che è: un fenomeno trasversale che riguarda tutte le fasce sociali.
Un fenomeno che ancora viene sottovalutato e banalizzato e le cui vittime, le donne, vengono spesso  colpevolizzate, messe in discussione e isolate. Una ricerca promossa dalla Commissione parlamentare sul femminicidio,  presentata al Senato il 6 febbraio 2018 ci dice che almeno il 50% delle denunce di reato contro le donne viene archiviato e ciò testimonia le mille difficoltà ed esitazioni che devono superare le donne per arrivare a denunciare. Ciò significa che la normativa, per quanto ampia possa essere, di per sé non è sufficiente.

Come possiamo uscire da questa spirale di violenza?

IL MONDO DEL LAVORO

Prevenire la violenza vuol dire combattere le sue radici culturali, economiche e sociali e le sue cause. Per questo sono essenziali strategie politiche mirate all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento e alla realizzazione di pari opportunità e di pari dignità in ogni ambito della vita pubblica e privata, oltre ad azioni di contrattazione.

Un ruolo fondamentale lo esercita il lavoro, in quanto strumento di riscatto e di fuga da una trappola di dolore e umiliazione.

Avere un lavoro è fondamentale per aiutare le donne, vittime di violenza, a liberarsi e non tornare dal partner violento. Non solo per l’aspetto economico. Il contesto lavorativo può supportare la donna nel rompere la dinamica di sottomissione, laddove invece il contesto familiare a volte legittima o non contrasta sufficientemente la violenza domestica.

Per questo è importante sia sostenere l’occupazione femminile, in modo che le donne siano indipendenti economicamente dal partner, sia supportare le vittime, affinché troncare con il partner violento non significhi abbandonare  il proprio lavoro.
Diversi studi evidenziano che le donne che lavorano hanno una probabilità più alta di liberarsi dalla relazione violenta e di non tornare dal partner violento.

Il lavoro è dunque fondamentale per poter ripartire, altrimenti si rischia di far prevalere la paura di non riuscire ad andare avanti, la paura di non poter provvedere ai propri figli (la mancanza di indipendenza economica pesa ancor di più sulle donne con figli piccoli) e così, in silenzio, si resta nella prigione degli abusi e delle prevaricazioni, degli schiaffi e delle umiliazioni.

Ma che succede quando anche nel mondo del lavoro si insinuano violenza e  molestie?

L’Indagine ISTAT 2016 sulla sicurezza dei cittadini ha permesso di stimare il numero delle donne che, nel corso della loro vita e nei tre anni precedenti all’indagine, sono state vittime di una forma specifica di violenza di genere: le molestie e i ricatti sessuali in ambito lavorativo.

In questa tipologia vengono compresi diversi atti dalle molestie sessuali con contatto fisico (colleghi, superiori o altre persone che, sul posto di lavoro, hanno tentato di toccarle, accarezzarle, baciarle contro la loro volontà) fino al tentativo di utilizzare il corpo della donna come merce di scambio, con la richiesta di prestazioni o rapporti sessuali o di una disponibilità sessuale in cambio della concessione di un posto di lavoro o di un avanzamento.

Sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano
l’8,9% per cento delle lavoratrici, attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. Nei tre anni precedenti all’indagine, ovvero fra il 2013 e il 2016, hanno subito questi episodi oltre 425 mila donne (il 2,7%). La percentuale di coloro che hanno subito molestie o ricatti sessuali sul lavoro negli ultimi tre anni è maggiore della media (pari al 2,7%) tra le donne da 25 a 34 anni (3,1%) e tra quelle da 35 a 44 anni (3,3%).

Con riferimento ai soli ricatti sessuali sul lavoro, sono un milione 173 mila (il 7,5%) le donne che nel corso della loro vita lavorativa sono state sottoposte a qualche tipo di ricatto sessuale, per ottenere un lavoro o per mantenerlo o per ottenere progressioni di carriera. Negli ultimi tre anni, invece, il dato risulta in lieve diminuzione: sono infatti 167 mila, pari all’1,1%, le donne che li hanno subiti.

Il 32,4% dei ricatti sessuali viene ripetuto quotidianamente o più volte alla settimana, mentre il 17,4% si verifica circa una volta a settimana, il 29,4% qualche volta al mese e il 19,2% ancora più raramente. Negli ultimi tre anni, la quota complessiva di donne che ha subito ricatti tutti i giorni o una volta a settimana è ancora maggiore (rispettivamente, il 24,8% e il 33,6%).

Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’ 80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro, un dato in linea con quello rilevato nel 20082009, quando questa percentuale era pari all’81,7%.
Quasi nessuna ha denunciato il fatto alle Forze dell’Ordine: appena lo 0,7% delle vittime di ricatti nel corso della vita (l’1,2% negli ultimi tre anni). Un dato che si riduce ulteriormente se si considera chi ha poi effettivamente firmato un verbale di denuncia, il 77,1% di chi ha dichiarato di essersi rivolto alle Forze di polizia.
Le motivazioni più frequenti per non denunciare il ricatto subito nel corso della vita sono la scarsa gravità attribuita all’episodio (27,4%) e la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o nella loro possibilità di agire (23,4%).

Il 24,2% delle donne, che hanno subito ricatti nel corso della vita, ha preferito non rispondere alla domanda su quale sia stato l’esito del fatto. Tra coloro che hanno risposto, il 33,8% delle donne ha cambiato volontariamente lavoro o ha rinunciato alla carriera, il 10,9% è stata licenziata o messa in cassa integrazione o non è stata assunta.

Fin qui i dati Istat.

Oggi l’attenzione alle molestie sui luoghi di lavoro ha assunto un sempre maggior rilievo, perché rappresentano un fenomeno che impatta fortemente sulla serenità (anche professionale) e sulla salute. Le molestie sono  lesive della qualità dell’ambiente di lavoro, con gravi conseguenze sull’equilibrio emotivo e sull’efficienza lavorativa di chi le subisce.

Il fenomeno è molto complesso da analizzare, in quanto – all’interno del luogo di lavoro – comportamenti qualificati come molestie sessuali possono avere diverse sfumature e intensità (come battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi, o veri e propri ricatti sessuali) e possono provenire da soggetti diversi (come i colleghi, il datore di lavoro o i clienti) e possono colpire sia le donne sia gli uomini, anche se ciò accade meno frequentemente.

Le molestie sono in grado di condizionare la vita di chi le subisce  causando danni psicologici, o forme di ansia con risvolti sulla vita personale e lavorativa, costituiscono una lesione della dignità, della libertà e del decoro della persona e si caratterizzano per essere indesiderate e non gradite da chi le subisce.

Le molestie sessuali possono anche coinvolgere indirettamente e negativamente gli altri lavoratori e lavoratrici,  che si trovano a esserne testimoni o che ne vengono a conoscenza. Anche il datore di lavoro può subire un danno in termini di redditività  nel caso in cui – in conseguenza delle molestie – il personale si licenzi o si assenti per malattia. La molestia,  in particolar modo quella a sfondo sessuale, rappresenta un ostacolo all’integrazione nel mondo del lavoro delle donne.

Le nuove forme di lavoro, i turni, anche tardo-serali e notturni e i luoghi di lavoro periferici, aumentano il rischio molestie per le condizioni di maggior isolamento.

Il Testo Unico 81/2008 sulla Salute e Sicurezza sul lavoro, all’art. 28 precisa che i rischi da valutare sono “tutti” quelli che collegati all’attività lavorativa, anche non necessariamente causati della stessa, come appunto la violenza, le discriminazioni e le molestie. Ad esempio, raggiungere un parcheggio in orario tardo-serale o notturno espone evidentemente a un rischio di aggressione, che sussiste proprio in ragione della prestazione resa di notte. Tali rischi devono essere valutati e contrastati adeguatamente “ovunque” l’attività venga resa. Il datore di lavoro deve effettuare la valutazione dei rischi sulla base di quelli “potenzialmente presenti” e la valutazione dei rischi non può essere generica, così come non possono essere generiche le relative misure di prevenzione individuate.

In sede di compilazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), di conseguenza, il datore di lavoro è tenuto a considerare anche tutti quegli elementi che, seppur estranei alla prestazione lavorativa in senso stretto, possono influire sulla salute e sicurezza della lavoratrice e del lavoratore. Qualora non ponga in essere questa attività di valutazione e contrasto, si configura un inadempimento nonché la sua diretta responsabilità nel caso in cui il rischio si trasformi in realtà e, quindi, in danno per la lavoratrice.

Questo dovere del datore di lavoro è stato inoltre potenziato dalla Legge di Bilancio 2018, che ha rimarcato il ruolo delle organizzazioni sindacali nel concordare con il datore di lavoro strumenti atti a garantire condizioni di lavoro tali da tutelare l’integrità fisica e morale e la dignità di lavoratrici e lavoratori, ponendo in essere iniziative di natura informativa e formativa in grado di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. In tal modo,  tutti sono tenuti a impegnarsi per assicurare il mantenimento di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza.

MA COSA SONO ESATTAMENTE LE MOLESTIE?

L’ordinamento comunitario ha svolto un ruolo decisivo affinché il concetto di molestia ricevesse consacrazione giuridica. Per lungo tempo, si è  ritenuto che questi comportamenti, posti in essere nei luoghi di lavoro fossero: “una naturale e quasi inevitabile conseguenza della subordinazione gerarchica, della dipendenza economica e della posizione di inferiorità delle donne nel mercato del lavoro.”

Con la Raccomandazione 92/13 del 27/11/1991 la Commissione Europea stabilisce che la caratteristica essenziale dell’abuso a sfondo sessuale sta nel fatto che si tratta di un atto indesiderato da parte di chi lo subisce e che spetta al singolo individuo stabilire quale comportamento egli possa tollerare e quale sia da considerarsi offensivo. Una semplice attenzione a sfondo sessuale diventa molestia quando si persiste in un comportamento ritenuto palesemente offensivo da chi ne è oggetto. È la natura indesiderata della molestia sessuale a rappresentare la linea di discrimine che la distingue dal comportamento amichevole, che invece è ben accetto e reciproco.

Quindi, si soggettivizza il concetto di molestia, riconducendolo alla percezione che la vittima ha di quel comportamento, anziché all’intenzionalità dell’autore di recare l’offesa, che porterebbe a svalutarne  la gravità. Si considera perfezionata la molestia sessuale con la sussistenza di un pregiudizio alla dignità della persona, evento che è valutato alla luce dell’aspetto psicologico interiore del molestato.

Con la Direttiva 2002/73 si consacra la definitiva equiparazione delle molestie alle discriminazioni sancendone il divieto, in quanto contrarie al principio della parità di trattamento.
L’art 2 comma II definisce le molestie sessuali come la: “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.”

La definizione di molestia, sia sessuale sia di genere, accolta dal diritto comunitario, contempla al suo interno un duplice profilo: 

  • da un lato è volta a perseguire il comportamento “avente lo scopo” di ledere la dignità della persona, ricomprendendo tutti  gli atti intenzionalmente rivolti al risultato vietato;  
  • dall’altro lato si configura in termini di impatto, di “effetto” del comportamento indesiderato, ricomprendendo tutti quei comportamenti indesiderati che provocano l’effetto illegittimo anche quando non sia configurabile l’intenzionalità dell’autore.

La Direttiva 2006/54/CE42 riguardante  l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, sancisce che le pari opportunità fra uomini e donne sono un principio fondamentale del diritto europeo applicabile in ogni campo della vita sociale, incluso il mondo del lavoro  e distingue:

  • le molestie come “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo” 
  • le molestie sessuali come “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

Le molestie e le molestie sessuali sono comprese nell’ambito delle discriminazioni e vengono considerate come trattamenti meno favorevoli subiti da lavoratrici e lavoratori per il fatto di aver rifiutato o di essersi sottomessi alle molestie e alle molestie sessuali.

L’ Accordo Quadro Europeo sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007 ha l’obiettivo  specifico di sensibilizzare i datori di lavoro, i lavoratori e i loro rappresentanti sul problema delle molestie e della violenza sul luogo di lavoro e di fornire esempi di azioni concrete per individuare, prevenire e gestire le situazioni che potrebbero verificarsi nei luoghi di lavoro. Le molestie vengono individuate come “[…] l’espressione di comportamenti inaccettabili di uno o più individui e possono assumere varie forme, alcune delle quali sono più facilmente identificabili di altre. L’ambiente di lavoro può influire sull’esposizione delle persone alle molestie e alle violenze. Le molestie avvengono quando uno o più lavoratori o dirigenti sono ripetutamente e deliberatamente maltrattati, minacciati e/o umiliati in circostanze connesse al lavoro.”

Con questo accordo le parti sociali condannano ogni forma di molestia (e di violenza) sul posto di lavoro e individuano le molteplici forme con cui tali fenomeno può manifestarsi. Esse possono:

  • Essere di natura fisica, psicologica e/o sessuale; 
  • Costituire incidenti isolati o comportamenti più sistematici;
  • Avvenire tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, ad esempio clienti, pazienti ecc.;   
  • Andare da manifestazioni lievi, come la mancanza di rispetto, ad atti più gravi, ad esempio reati che richiedono l’intervento delle pubbliche autorità.

Si ribadisce l’obbligo per i datori di lavoro di proteggere i propri lavoratori e lavoratrici da queste situazioni e si stabilisce che le imprese dovranno attuare una politica di “tolleranza zero” verso tali comportamenti.

Nello scorso mese di giugno, in occasione della conferenza per il centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)  sono state presentate, nell’ambito delle iniziative sulle donne e il lavoro, la nuova Convenzione e le nuove Raccomandazioni per combattere la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. La Convenzione riconosce che l’abuso e le vessazioni nei luoghi di lavoro costituiscono:

  • una violazione dei diritti umani fondamentali; 
  • una minaccia alle pari opportunità inaccettabile e incompatibile con il diritto a un lavoro dignitoso.

Alcune delle lacune che l’Ilo ha rilevato nelle leggi  dei Paesi di tutto il mondo sono l’assenza di leggi coerenti che proteggano lavoratrici e lavoratori, in particolare quelli più soggetti a violenza e a molestie, così come una definizione un po’ troppo circoscritta di quello che si può considerare luogo di lavoro. Da ciò deriva che non ci siano azioni comuni né disposizioni legali specifiche per contrastare le molestie sessuali sul lavoro.

È quanto emerge anche dal rapporto Women, Business and the Law 2018 della Banca Mondiale: ben 59 Paesi su 189 non attribuiscono importanza al fenomeno né propongono soluzioni per arginarlo.

Il rapporto copre un periodo di 10 anni e aiuta a capire qual è la situazione e a verificare come le leggi  siano  determinanti  per favorire, nel tempo, le pari opportunità tra uomini e donne e far sì che queste ultime non si sentano troppo spesso fragili in quanto soggette a intimidazioni, soprusi, attacchi.

Secondo il rapporto, ancora oggi molte leggi e regolamenti continuano invece a  impedire  alle  donne di entrare nel mondo del lavoro o di avviare un’impresa, attuando discriminazioni così forti da condizionare pesantemente l’inclusione dal punto di vista economico e la partecipazione delle donne alla forza lavoro.

Ci sono economie che non hanno attuato delle riforme positive in tal senso negli ultimi 10 anni e la percentuale di donne che lavorano è cresciuta poco e comunque meno rispetto a quella degli uomini che lavorano.

Ai governi, che ratificano la Convenzione ILO, viene richiesto di adottare  leggi nazionali  che proibiscano la violenza  sul posto di lavoro nonché  misure preventive, che impongano alle aziende di avere politiche sul luogo di lavoro contro la violenza.

Il trattato obbliga, inoltre, i governi a monitorare la situazione, favorire meccanismi di denuncia, misure di protezione dei testimoni e servizi che aiutino le vittime.

La convenzione comprende non soltanto la violenza e le molestie che si verificano nell’ambiente di lavoro, ma anche in altri luoghi collegati (nel luogo in si fanno le pause, negli spogliatoi, nei servizi igienici, negli alloggi forniti dal datore di lavoro, nel tragitto casalavoro, durante i viaggi di lavoro, quando si partecipa a corsi di formazione, eventi o attività sociali collegate al lavoro o in tutti gli altri luoghi o situazioni creati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione).

E quest’ultimo aspetto è particolarmente importante perché non solo amplia il raggio  di quello che normalmente è considerato come luogo di lavoro ma considera anche tutte quelle situazioni in cui magari si è a casa e si sta lavorando, come quando si viene molestati in chat, via whatsapp o altri contesti da capi o colleghi.

In Italia il diritto alla salute (art. 32 Costituzione Italiana) e la tutela del diritto alla dignità umana (art. 41 II comma C.I.) sono le norme intorno alle quali ha ruotato per lungo tempo la giurisprudenza, che – in assenza di una definizione legislativa tipica di molestia – anche grazie agli interventi comunitari susseguitisi durante gli anni ’90, ha iniziato a sanzionare le molestie sessuali.

Negli anni ’90, è stato importante anche il contributo concreto fornito dalla contrattazione       collettiva  alla regolamentazione delle molestie, in particolare delle molestie sessuali. È, infatti, con il CCNL Metalmeccanici del 1990 che viene introdotta per la prima volta in ambito lavorativo la definizione di molestia  sessuale.

Nel 2005, finalmente, il Decreto legislativo n. 145/05 attua la Direttiva 2002/73/CE  e  dà un riconoscimento giuridico alle molestie di genere e alle molestie sessuali in ambito lavorativo, mutuandone le definizioni dalla normativa Europea.

Il giudizio di offensività dell’atto è affidato alla “percezione di indesideratezza” del comportamento da parte della vittima, diventando così il parametro per distinguere i comportamenti molesti da quelli amichevoli e viene anche meno il riferimento alla “persistenza” del comportamento molesto.

L’anno successivo, con il  Codice delle pari opportunità tra uomo e donna la disciplina delle molestie viene collocata all’interno del Capo I del Titolo I del Libro III dedicato alla “promozione della pari opportunità nei rapporti economici” e, specificatamente, nell’art. 26 dove trovano espressa collocazione le definizioni di molestia e di molestia sessuale.

Entrambe le declinazioni del fenomeno sono ricondotte espressamente nell’alveo delle discriminazioni di genere, in quanto contrarie al principio fondamentale dell’Unione Europea della parità di trattamento e al principio  di eguaglianza sostanziale sancito nell’art 3 della Costituzione, la quale stabilisce la “pari dignità sociale”, che deve essere garantita – indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali – a tutti i cittadini rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questa prospettiva, la libertà da molestie e molestie sessuali, è condizione irrinunciabile per il pieno sviluppo personale  e per l’effettiva partecipazione al mondo del lavoro da parte delle donne. In questo senso, il divieto di molestare deve essere visto come una garanzia del rispetto della dignità della persona e della sua libertà di lavorare.

Gli elementi caratterizzanti le definizioni di molestia e molestia sessuale sono mutuati dalla normativa Europea:

  1. I comportamenti indesiderati connessi al sesso: l’ampiezza dell’espressione “comportamento indesiderato” consente di comprendere tutte le condotte ritenute non opportune dalla vittima tramite l’adozione di un criterio soggettivo di valutazione della sussistenza della molestia che consiste nella percezione della vittima che avverte la condotta come lesiva della sua dignità, senza riferimento alcuno a motivazioni soggettive dell’agente;
  2. “Lo scopo” o “l’effetto” lesivo della dignità: le definizioni non sono unicamente legate al fatto che le condotte siano lesive, ma anche al fatto che i comportamenti abbiano “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore” e “creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

La violazione della dignità e la compromissione dell’ambiente lavorativo.

Le molestie sessuali comprendono tutti gli atteggiamenti che “enfatizzano il ruolo della donna come oggetto sessuale piuttosto che come collega di lavoro” e tradizionalmente vengono classificate in relazione alle forme di manifestazione esteriore. Alcune forme di molestie sono più immediatamente riconoscibili altre, invece, hanno un aspetto più subdolo e latente.  Sono molestie:

  • tutti i contatti fisici indesiderati e sgraditi da parte del soggetto che li riceve (toccamenti e strusciamenti del corpo altrui, carezze, baci, pizzicotti, colpetti, abbracci, palpeggiamenti) e relativi tentativi con l’uso della forza sino ad arrivare ai tentativi di violenza o stupro;
  • le proposte indecenti, le avance pesanti e non ricambiate, le domande sulla vita intima e sulle inclinazioni sessuali, le insinuazioni, gli epiteti e gli insulti, gli apprezzamenti allusivi e i doppi sensi sgraditi, le esternazioni volgari sull’aspetto, sul corpo, sull’abbigliamento, le telefonate oscene, anonime e di minaccia, gli scherzi di cattivo gusto a sfondo sessuale, la pressione esercitata con le parole per ottenere favori sessuali, le richieste di appuntamenti in presenza di chiare manifestazioni di volontà contrarie da parte della vittima, le richieste implicite o esplicite di rapporti sessuali;
  • una serie di condotte tra loro eterogenee come scritte licenziose, atti di esibizionismo, occhiate maliziose o espressioni lascive,  sbirciare una persona di nascosto mentre si trova in luoghi riservati (toilette e spogliatoi), emettere fischi al passaggio, compiere gesti di significato sessuale, distribuire materiale pornografico in ufficio o affiggere  fotografie ed immagini scabrose e a chiaro contenuto sessuale che ricordino al soggetto molestato di essere considerato più per il ruolo sessuale che per le capacità lavorative.

Nel ricatto sessuale l’intenzione di compiere una molestia è accompagnata dalla minaccia di precludere opportunità di carriera alla vittima che non accolga le profferte sessuali, o di infliggerle delle sanzioni punitive come il licenziamento o il trasferimento. Quindi ciò che denota il ricatto sessuale è l’uso della coercizione come strumento per modificare o determinare le condizioni di impiego e per questo motivo è denominata anche molestia coercitiva.

Sembrerebbe quindi che non ci sia nessuna difficoltà, stante quanto disciplinato dalla normativa, a distinguere una molestia da un complimento, a tracciare il confine  tra ciò che può essere considerato complimento e ciò che invece diventa molestia.

E invece…

“Lo stupro è un crimine. Ma rimorchiare in maniera insistente o imbarazzante non è un delitto, né la galanteria un’aggressione machista […] Il loro solo torto è aver toccato un ginocchio, rubato un bacio, parlato di cose intime durante una cena professionale e inviato dei messaggi a connotazione sessuale a una donna che non era reciprocamente attratta. […]
Ognuna di noi può fare attenzione al fatto che il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, ma non sentirsi traumatizzata per uno struscio nella metro, anche se questo è considerato come un reato. Può anche immaginare un comportamento del genere come l’espressione di una grande miseria sessuale, o comunque come un non-avvenimento […] Pensiamo che la libertà di dire no a una proposta sessuale non esista senza la libertà di importunare”.

Questo l’appello che 100 donne, tra cui l’attrice Catherine Deneuve, hanno  firmato e pubblicato sul  “Le Monde” il 9 gennaio 2018 per rigettare “un tipo di femminismo che esprime odio verso gli uomini” e rivendicare la difesa della libertà di infastidire come indispensabile alla libertà sessuale.

Un appello che si è infranto contro il movimento #MeToo, che coinvolge milioni donne di tutto il mondo, e che dà esattamente la misura di quanto le dinamiche di predazione e sopraffazione siano così strutturate e diffuse da essere percepite come la “normalità” o, peggio ancora, come un diritto dei maschi.

Le francesi, firmatarie dell’appello, reclamano la tradizione del “così fan tutti”, il costume comune per il quale il corteggiamento comporta sempre e comunque una parte di aggressione o insistenza e può fare a meno del consenso.

Esistono differenti pensieri tra chi ritiene che si sia arrivati al “ridicolo”, chi ritiene che di questo passo si giungerà a una denuncia anche per un semplice ammiccamento, andando così a porre fine al gioco del corteggiamento e chi, invece, stila un decalogo del comportamento che dovrebbe tenere una donna per non farsi sorprendere impreparata dal molestatore.

Occorre quindi assolutamente intendersi sul significato di corteggiamento.

Dice la Treccani, alla voce corteggiare: “Cercare di conquistare l’attenzione e l’affetto di qualcuno con gentilezze, complimenti e simili”.
Nel corteggiamento vi è un gioco a due tra persone tra le quali vigono complicità, rispetto e reciprocità. Il secondo fine c’è (arrivare a un certo grado di intimità) ma è esplicito e condiviso, quindi c’è sempre un momento nel quale uno dei due può dire di no. Nel corteggiamento non ci sono rapporti di potere ma di rispetto.
Il concetto di corteggiamento maldestro come una mano sul ginocchio in un contesto di lavoro, una avance nel momento sbagliato è una molestia che cela un abuso di potere. E’ un‘interazione a una direzione, nella quale non c’è una reale possibilità di contrattare le regole, né si ha il potere di dire di no.

Più in generale, in un rapporto di potere non c’è complicità, non c’è gioco. Si crea un’atmosfera di soggezione o di timore.

Ma perché è così difficile?

Perché sono ancora tante le differenze, discriminazioni e asimmetrie tra i generi che si amplificano quando le questioni attengono al fronte sessuale. Questo perché nell’immaginario collettivo la donna continua ad essere considerata come “preda”, oggetto da possedere, indipendentemente o contro la sua volontà. E questa percezione è la motivazione primaria del persistere di violenze e abusi consumati sui corpi delle donne.

In Italia, la cultura tramanda questa concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di “naturale”. Basti pensare che, fino alla fine degli anni 60 il marito poteva picchiare legalmente la moglie, l’adulterio femminile era considerato, sia dalla legge che dalla società, assai più grave di quello maschile e l’art. 587 del codice penale prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore, suo o della famiglia. Fino al 1971, era vietato vendere e pubblicizzare i contraccettivi. Fino al 1978 l’aborto era illegale. Solo nel 1981 si è abrogato il cosiddetto “matrimonio riparatore”, che consentiva di estinguere il reato di stupro sposando la ragazza violentata. In caso di stupro di gruppo, il matrimonio di uno degli stupratori estingueva il reato di tutti gli altri!… E, ancora, fino al 1996, lo stupro rientrava tra i delitti contro la “moralità pubblica e il buon costume” anziché contro la persona.

Sicuramente molta è la strada fatta, ma ancora tanta ne abbiamo da fare e la libertà – per donne e uomini – di dire sì o no, di scegliere di vivere il proprio desiderio senza dover subire quello dell’altro, ma anche la libertà – per uomini e donne – di vivere il proprio desiderio senza poterlo imporre su quello dell’altro, resta ancora un obiettivo prioritario, lontano da essere raggiunto.

Di fronte ad un NO è necessario che vi sia l’accettazione del diniego ed il rispetto!

Concludiamo con le parole di Manuela Tomei – Direttrice del Dipartimento dell’ILO sulle Condizioni di Lavoro e l’Uguaglianza – in occasione della Conferenza di giugno: “Senza il rispetto, non esiste dignità sul lavoro, e senza dignità, non c’è giustizia sociale. Questa è la prima volta che il Mondo del Lavoro adotta una Convenzione e delle Raccomandazioni contro la violenza e gli abusi. Ora, condividiamo una definizione di violenza e molestia, e concordiamo su cosa deve essere fatto e da chi per prevenire e combattere il fenomeno. Speriamo che questi nuovi standard ci portino a vedere il tipo di futuro lavorativo che vogliamo.”

 

A cura dell’Esecutivo Donne Fisac/Cgil

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