Guida Fisac ai bonus 2024

Pubblichiamo il link alla guida pubblicata dalla Fisac Cgil Nazionale relativa a tutte le tipologie  di bonus attualmente in vigore. Per ognuno è spiegato in cosa consiste, a chi spetta, come si richiede.

Ricordiamo che anche questa guida è accessibile dalla sezione Guide e manuali del sito

 

Fisac Cgil – Guida ai Bonus 2024




Seduzioni governative verso la “Supply Side Economics”?

John Fitzgerald Kennedy, in un messaggio all’ONU del 25 settembre 1961, nel periodo più caldo della guerra fredda, non ebbe paura di dire che “L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità”.

Lo stesso, nell’anno successivo, quando indusse l’industria siderurgica a ritrattare gli aumenti dei prezzi mentre il governo americano imponeva l’avvio di grandi iniziative pubbliche come le missioni spaziali, la guerra alla miseria ed i programmi assistenziali (medicare e medicaid), fece la seguente battuta poco edificante per il sistema economico degli USA: “tutti gli uomini di affari sono bastardi”.

Ora queste due affermazioni sembrano di grande attualità ed utilità in quanto ci portano a chiederci se è vero o non è vero che la guerra sia provocata dalla logica capitalistica del profitto a qualsiasi condizione e in qualunque modo.  Finita la guerra fredda, l’economia presenta una crescita economica lenta nel mondo industrializzato, unito alla stagnazione o addirittura alla flessione dei redditi della maggioranza dei lavoratori con una crescente disuguaglianza, segnale anche di una altra tendenza che rappresenterà anche essa un fattore scatenante della nuova crisi del capitalismo, ossia l’aumento insostenibile dell’indebitamento dei lavoratori medi.

Molti avevano riposto fiducia a fine secolo sulla nascita e sullo sviluppo dell’industria dell’high tech e della conseguente nuova economia di servizi, ma i fatti hanno dimostrato che anche su queste ha dominato l’ascesa del settore finanziario, con la sua prosperante supremazia sui settori dell’economia reale che producono beni e servizi e lavoro. Come soluzione l’America ha accantonato la ragione per lasciare spazio alla fede nella Supply Side Economics o economia delle offerte. Questa è divenuta la fede ufficiale della libera impresa abbracciata con entusiasmo dall’amministrazione Reagan. Infatti, gli economisti del supply side si erano impadroniti della politica fiscale USA sostenendo talaltro la singolare tesi che abbassare le imposte avrebbe stimolato (o incentivato, per usare il termine da essi amato e che oggi qualche nostro politico si pregia di utilizzare) l’economia ad un livello tale che un taglio colossale delle tasse (imposte dirette) avrebbe nientemeno determinato il pareggio di bilancio (ovviamente attuando anche forti riduzioni della spesa pubblica). In questa follia collettiva, spunta anche la figura populista dell’uomo d’affari, di un valoroso venuto su dal nulla, un vero eroe popolare del sistema della libera impresa in grado di aiutare tutti, comprese le minoranze etniche ispano-americane.

I fatti, ossia il forte aumento del deficit nazionale USA durante le amministrazioni Reagan e Bush, hanno smontato il caposaldo teorico della supply side economy, secondo cui riducendo fortemente le aliquote delle imposte sui redditi si stimolerebbe un conseguente aumento dei redditi e dei consumi al punto che, anche riducendo le tasse, il gettito fiscale sarebbe sufficiente a compensare tale riduzione. Quale che sia l’andamento della spesa pubblica, i tagli alle imposte da un lato possono forse stimolare la crescita dei redditi, ma dall’altro è certo che, aumentando i redditi disponibili, non si ottengano dei risultati soddisfacenti, in quanto i maggiori introiti vengono destinati dai lavoratori medio-alti sia alla spesa che al risparmio privato, e dai redditieri, nella nuova economia globale, principalmente per pagare l’importazione (di beni e servizi di pregio). A giustificazione di quanto detto è risultato che, durante la Presidenza Reagan, si è avuto un aumento del deficit pubblico e del disavanzo al bilancio commerciale (addirittura quadruplicato).

Ovviamente, questa politica, fornendo una scusa socialmente accettabile per ridurre le imposte, nel tranquillizzare le coscienze è divenuta un potente strumento per raccogliere consensi e finanziamenti per il partito repubblicano, in particolare tra le persone benestanti. Ora, possiamo dire che non sono in errore coloro che sostengono che la globalizzazione renda l’economia dell’offerta ancora più nociva per la collettività di quanto dimostri il suo recente passato perché il suo caposaldo, che si basa sulla tesi di imposte basse per stimolare l’aumento dei redditi e di conseguenza il gettito fiscale, è contraddetto dal semplice fatto che una percentuale considerevole del denaro non versata al fisco viene indirizzata sull’estero per l’acquisto di beni e servizi. Eppure sembra che, anche nei nostri giorni, il capitalismo nordamericano torni ad imporre ai paesi politicamente satelliti (deboli) questa azzardata politica economica. Infatti, su queste logiche siamo oramai bersagliati a casa nostra a livello mediatico dai partiti al governo, i quali rivendicano in continuità di avere effettuato il taglio delle tasse più importante degli ultimi decenni (vedi Ansa, il Sole 24 Ore, ecc.), arrivando a parlare di pizzo di stato e di condoni tombali, in una logica di meno tasse uguale più redditi per tutti.

Forse rammentare quanto accaduto nel recente passato in gran parte dei paesi dell’America Latina può essere illuminante.  L’Argentina, ad esempio, ha subito ripetute svolte reazionarie che hanno provocato violente tensioni sociali. Le dittature militari, instaurate con il supporto nordamericano, hanno seguito come obiettivo economico la riduzione drastica delle retribuzioni reali e una energica riduzione delle spese pubbliche, sia in termini di spese sociali, che di infrastrutture e promozione dello sviluppo industriale, in linea con la politica neoliberista ispirata alle teorie di Milton Friedman. Inoltre, sono stati progressivamente ridotti i dazi protettivi per facilitare le importazioni nordamericane, con conseguente flessione dell’industria manifatturiera e fallimento di un certo numero di imprese, il tutto per stremare un settore nel quale le masse operaie potevano ancora esercitare pressioni sulla classe dirigente. In sintesi, mentre da un lato si è prodotto il ristagno delle retribuzioni, la flessione dell’occupazione, l’arresto nello sviluppo dell’industria manifatturiera, dall’altro è stato dato un forte sostegno all’industria mineraria e all’agricoltura nelle mani del grande capitale, con un aumento dei redditi dei capitalisti e delle aziende familiari. Purtroppo sono diminuite le produzioni di beni di consumo popolare e sono aumentate quelle degli altri beni, in particolare dei beni di importazione.

In altre parole, la politica di sostituzione delle importazioni con produzione interne, che nel passato era stata seguita con successo, è stata soppiantata da una politica di sostituzione di certe produzioni interne con importazioni, e di conseguenza è cresciuto il deficit della bilancia commerciale. Questo deficit, per un certo periodo, è stato colmato da un afflusso netto di capitali che sono entrati nel paese, sia per la stabilità politica assicurata dalla dittatura, sia per gli alti guadagni attesi. Purtroppo, il forte spostamento del reddito nazionale a favore dei redditi capitalistici e contro i redditi da lavoro implica interessi crescenti e questo afflusso di capitali di debito ha comportato a mano a mano un enorme onere, sotto forma di un servizio del debito (per ammortamenti e interessi), che ha attivato una spirale che ha reso via via più critica la situazione economica del paese fino al fallimento. Non possiamo non ricordare che oggi tra i paesi con i più onerosi servizi del debito troviamo anche il nostro, il quale, nonostante il collocamento continuo dei titoli del tesoro, vive condizioni finanziarie difficili, poiché l’indebitamento con l’estero è principalmente la conseguenza di impieghi speculativi incentivati dagli alti interessi reali. E’ superfluo rammentare che la distinzione tra impieghi propriamente produttivi e impieghi speculativi è data semplicemente dal fatto che sono impieghi produttivi quelli che danno luogo ad un aumento del reddito nazionale, mentre sono investimenti speculativi quelli che in sé e per sé comportano solamente una redistribuzione del reddito a vantaggio di alcuni (capitalisti) e a danno di altri (la massa dei lavoratori consumatori), e non un suo accrescimento.

Morale della favola, la politica della riduzione delle tasse alle classi agiate (imposte dirette) e la tolleranza dell’evasione fiscale significa unicamente accettare di intraprendere un viaggio senza ritorno.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale
Fisac Chieti




Aggiornamento guida Fisac “La Busta Paga ABI”

Le novità nell’aggiornamento di Marzo 2024

La presente edizione della Guida alla Lettura della Busta Paga per il settore del Credito ABI segue quella pubblicata in tempi relativamente recenti (19.12.2023), che già includeva:

  • le novità introdotte dall’accordo di rinnovo del CCNL ABI raggiunto il 23 novembre 2023,

nonché

  • quelle previste da alcuni provvedimenti legislativi (tra cui la Legge di Bilancio 2024), che a quella data non avevano ancora concluso il proprio iter.

L’attuale versione della Guida (marzo 2024), essendo successiva alla definitiva approvazione di tali provvedimenti – Legge di Bilancio (Legge n. 213/2023) e Decreto di attuazione del primo modulo di riforma delle imposte sul reddito delle persone fisiche (D.Lgs. n.216/2023) – contiene riferimenti più precisi alle rispettive norme.

Si è inoltre provveduto a rettificare alcune informazioni contenute nella precedente edizione, nei casi in cui la definitiva approvazione delle norme è avvenuta stabilendo criteri differenti rispetto a quelli in precedenza annunciati dal Governo (in particolare le attuali soglie di esenzione relative ai fringe benefit avranno validità per il solo 2024).

In relazione ai citati provvedimenti sono state inserite alcune considerazioni e note di commento.

La pubblicazione di Circolari interpretative da parte dell’Agenzia delle Entrate (in particolare n. 2/2024 e n. 5/2024) ha consentito di inserire alcune ulteriori precisazioni in merito all’applicazione delle norme di recente emanazione a cui il documento si richiama nella parte relativa agli aspetti fiscali.

A seguito della pubblicazione delle Circolari INPS su materie aventi attinenza con la Guida, sono stati – tra l’altro –aggiornati gli importi oggetto di rivalutazione (per esempio la soglia oltre la quale è applicata l’aliquota aggiuntiva dell’1% nell’ambito della determinazione dei contributi previdenziali a carico dei dipendenti).

Modifiche assai marginali hanno carattere solo espositivo e riguardano una diversa successione adottata per taluni argomenti e alcune variazioni aventi l’obiettivo di rendere più chiara o completa l’illustrazione.

Per eventuali info o segnalazioni scrivere a: [email protected]

La Busta Paga nelle Banche – marzo 2024

 

La guida aggiornata è disponibile nella nostra sezione Guide e Manuali




Il Molise torna in Abruzzo? L’autonomia è fallita

Dopo un divorzio durato 60 anni il Molise vorrebbe tornare negli Abruzzi. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise». Qualche anno fa addirittura la Bbc, incuriosita dall’ hashtag «il Molise non esiste», inviò un reporter alla scoperta della «regione che non c’è» e narrò di una separazione che aveva confinato questo territorio impervio e struggente all’invisibilità. In un’area sempre più disabitata e sommersa dai debiti, oggi una parte della popolazione si sta dando da fare per fondersi con la comunità abruzzese. Ma perché il piccolo Molise è riuscito a diventare una Regione, status negato ad aree più estese e popolate come la Romagna e il Salento?

La Costituente e la legge del 1963

Già nel 1947, durante l’Assemblea costituente, viene proposta la creazione della regione Molise, un’area prevalentemente montano-collinare di 4.460 km² con appena 418 mila abitanti. La richiesta è bocciata perché si riconoscono solo le regioni storiche, ma i costituenti stabiliscono anche la condizione per costituire nuove regioni: la presenza di almeno 1 milione di residenti (art 132). I fautori dell’autonomia però non demordono e riescono a inserire nelle disposizioni transitorie una una deroga che congela il limite demografico ai primi anni della Repubblica. Così, dopo un acceso dibattito parlamentare, nel 1963 arriva la legge costituzionale che sancisce la nascita del Molise. La nuova regione è definita da Alberto Cavallari in un reportage dell’epoca sul Corriere della Sera «una provincia cenerentola, eternamente seconda, rimasta in fondo alla serie B dei Paesi sottosviluppati». Per tutti gli anni ‘60 l’ente è composto dal solo capoluogo Campobasso. Nel 1970, quando le regioni entrano effettivamente in funzione, si aggiunge la provincia di Isernia.

Le motivazioni della separazione

Al momento della separazione, le regioni italiane sono solo sulla carta e anche negli anni successivi hanno una limitata discrezionalità fiscale. Le motivazioni che portano alla creazione del nuovo ente sono sostanzialmente tre:

  1. Identitaria-culturale. In un intervento al Senato l’esponente della DC Giuseppe Magliano, primo firmatario della riforma costituzionale, afferma che il Molise si considera «un complesso etnico, storico, geografico e politico nettamente distinto e separato dagli Abruzzi». In realtà tutta questa differenza non c’è: salvo lungo i confini dove le inflessioni sono più napoletane o pugliesi, i molisani parlano abruzzese.
  2. Logistica-amministrativa. Gli abitanti dei 136 comuni del Molise hanno difficoltà a raggiungere i 20 specifici uffici pubblici perché dislocati troppo lontano o addirittura in altre province fuori dalla regione «Abruzzi e Molise». Ad esempio, per l’esame della patente bisogna raggiungere la motorizzazione a Pescara, per il distretto militare si deve andare a Bari, per la Corte d’Appello a Napoli, i servizi erariali a Benevento e così via. Problemi, nell’Italia contadina del tempo, comuni a molti altri territori. Sarebbe bastato modificare la giurisdizione e aprire qualche ufficio a Campobasso. Si è preferito dar vita ad una Regione. L’ironia della storia è che di quei 20 uffici, a distanza di 60 anni, solo 9 sono stati trasferiti effettivamente nel capoluogo di provincia, mentre il resto è rimasto altrove, come il comando generale dei carabinieri, che sta in Abruzzo.
  3. Elettorale. Nell’ articolo 57 della Costituzione è inserito il comma che prevede due senatori provenienti dal territorio. La Democrazia Cristiana, dunque, si assicura nel feudo elettorale molisano un seggio di senatore in più. Forse questa la vera ragione.

 

Il confronto tra Abruzzo e Molise

All’inizio degli anni Sessanta le due Regioni sono molto arretrate. L’agricoltura occupa la maggior parte della popolazione attiva, mentre l’industria è rappresentata per lo più da piccole imprese artigianali. Il tenore di vita delle due popolazioni è inferiore di un terzo rispetto alla media italiana. Con un reddito netto pro-capite di 298.121 lire, il Molise è più povero dell’Abruzzo (323.766 lire, in linea con quello dell’Italia meridionale che è di 324.977 lire). Nel 1974 la situazione è già diversa: in Molise il reddito netto raggiunge le 923.547 lire, mentre in Abruzzo diventa il più alto del Sud Italia: 1.176.068 lire, molto vicino alla media italiana (82,8%). In entrambi i territori cala drasticamente l’occupazione in agricoltura, mentre quasi uno su tre lavora nell’industria. All’inizio degli anni ’90 l’economia abruzzese si avvicina a quella nazionale (85%), mentre quella molisana migliora (76%) ma non decolla. Poi la crescita rallenta fino a vivere un brusco crollo nei primi due decenni del secolo, ma con enorme differenza fra le due Regioni: tra 2001 e 2014 il Pil dell’Abruzzo cala del 3,3%, quello molisano precipita a quasi -20%.

Il Molise oggi: crisi economica, spopolamento, carenza di servizi

Nel corso degli anni il Molise si è spopolato, e a fine 2023 i residenti sono 289.294. E’ l’unica regione italiana ad avere una popolazione inferiore rispetto al tempo dell’Unità d’Italia. Dagli ultimi dati Istat il Pil pro-capite raggiunge i 24.500 euro contro i 27 mila dell’Abruzzo, e i 32.983 della media nazionale. In Molise la crisi morde più forte: nel 2023 le chiusure delle imprese hanno superato le aperture con un saldo negativo di 188 aziende, il peggiore in Italia e in controtendenza con l’andamento nazionale dove 17 regioni su 20 registrano dati positivi. Cresce il disavanzo pubblico che a fine 2021 ha superato i ha superato i 573 milioni di €, la Sanità è commissariata da 15 anni ed ha ancora un debito di 138 milioni (Monitoraggio della spesa sanitaria, pag.113). Nell’ultima legge di bilancio il governo Meloni ha stanziato 40 milioni a favore della regione, vincolati alla riduzione del disavanzo. Per questo la giunta di centro-destra guidata da Francesco Roberti ha deciso di aumentare l’addizionale Irpef per i redditi superiori a 28mila € al 3,33%, l’aliquota più alta d’Italia (in Abruzzo è ferma all’1,73%). La capacità di gettito però resta limitata, anche perché bisogna mantenere un apparato regionale che costa 30,7 milioni di euro, circa 105 euro a testa contro i 60 dell’Abruzzo (Relazione Corte dei Conti, pag 210). In un report della «Fondazione Gazzetta Amministrativa» sulle spese per incarichi di studi e ricerca effettuati nel 2021 il Molise si classifica ultimo con 225 mila euro.

 

Il referendum per il ritorno al passato

Alla fine il «meglio da soli» non ha portato prosperità. Il 9 marzo è partita la raccolta di firme per un  referendum che mira a portare la provincia di Isernia dentro l’Abruzzo, e poi l’intero Molise. Secondo l’ex questore Gian Carlo Pozzo, uno dei promotori dell’iniziativa popolare, la Regione è gravata da un pesante debito che combatte a suon di tasse e tagli e non è più in grado di garantire ai cittadini servizi essenziali come sanità, trasporti e formazione. Si sta muovendo nella stessa direzione la provincia di Campobasso con un comitato a Montenero di Bisaccia, e iniziative anche nei comuni di  Petacciato, Termoli e Campomarino.

Bisognerà poi vedere alla prova dei fatti se la politica locale mollerà l’osso, perché con una popolazione così esigua ogni famiglia ha rapporti diretti con gli amministratori, e il clientelismo è più di un rischio. Nel concreto ogni amministratore controlla 97 votanti effettivi.

E il Molise è tutto qui: 80 mila abitanti nella provincia di Isernia, e poco più di 200 mila in quella di Campobasso, con enormi difficoltà a sostenere uno sviluppo in grado di camminare con le proprie gambe. Già a suo tempo i padri costituenti avevano intuito i pericoli dei territori infiammati dalle aspirazioni a diventare piccole patrie, ma con pochi abitanti e ancor meno risorse.

 

 

Fonte: [email protected] ripubblicato da Lasicilia.it




Alleanza: irricevibili le richieste presentate nella contro-piattaforma aziendale


 

Venerdì scorso abbiamo incontrato nuovamente l’azienda sul tema del rinnovo del CCNAL.

Ancora una volta dobbiamo rammaricarci nel constatare che le “regole di ingaggio” siano state ignorate, con l’azienda che pretende unicamente di parlare delle proprie proposte, non rispondendo sui temi della piattaforma presentata dalle OO.SS. a tutela delle figure professionali più deboli.

Continuiamo a ritenere che le richieste di modifica al normativo presentate nella contro-piattaforma aziendale siano irricevibili, questo non solo per le ricadute sui lavoratori, ma anche per questioni propriamente tecniche:

Abbiamo, infatti, ribadito ai vertici di Alleanza quanto dettagliato già nel nostro precedente comunicato e che siamo assolutamente contrari sia nella forma che nella sostanza alle loro richieste e all’impostazione che vogliono dare alla trattativa, ma per senso di responsabilità e per non dividere ulteriormente il tavolo viste le disponibilità fornite da altri abbiamo deciso comunque di rivedere il documento aziendale eliminando o modificando tutti gli aspetti pericolosi o peggiorativi per i lavoratori ed inserendo nuovamente le nostre richieste.

Abbiamo motivato tecnicamente e puntualmente tutte le nostre “eliminazioni”, visto che ad esempio l’azienda ci chiedeva addirittura di modificare degli articoli del CCNL Ania, che non possono essere trattati in questa sede in quanto il CCNL (non il CCNAL di Alleanza) è un contratto che trova la sua genesi in Ania e solo lì può essere modificato o, per quanto concerne la richiesta aziendale di inserire i parametri di qualità e produttività per i produttori, abbiamo ricordato a tutti che esiste già l’accordo di Gruppo del 2020 che, oltre ad introdurre per la prima volta il premio di produttività, tutela i lavoratori in tema di responsabilità civili e penali. Di conseguenza, non può oggi Alleanza tentare, invece, di scaricare le proprie responsabilità d’impresa sui dipendenti.

Sulla volontà aziendale di inserire nel CCNAL le mansioni di verifica e conservazione del portafoglio clienti per gli impiegati amministrativi abbiamo rilevato le contraddizioni di Alleanza, che non specifica nemmeno come intende riclassificarli dal punto di vista degli inquadramenti.

Auspichiamo che nel prossimo incontro (ancora non sappiamo la data) possano esserci finalmente dei concreti passi in avanti da parte dell’azienda, visto che abbiamo rimesso sul tavolo le nostre richieste di piattaforma a cui Alleanza non può più evitare di dover rispondere.

Abbiamo, inoltre, letto che durante l’incontro ci sarebbero stati interventi simili ai nostri, ma probabilmente ci siamo distratti perché non li abbiamo sentiti.

Come Fisac/Cgil e FNA siamo dalla parte dei lavoratori e non intendiamo avallare proposte che peggiorino le condizioni di lavoro, già pesanti, dei dipendenti. Ricordiamo a tutti che sia l’azienda che il Gruppo stanno macinando utili ECCEZIONALI.

 

Milano, 6 marzo 2024

 

I Coordinamenti Nazionali delle RSA FISAC/CGIL – FNA

Leggi anche

CCNL Alleanza: piattaforma e contro-piattaforma




No, l’8 marzo non è la “FESTA DELLA DONNA”!

Davvero serve ancora spiegarlo? Dopo tutti questi anni? Davvero serve spiegare che l’8 marzo non è una festa e non è stato inventato per vendere i cioccolatini o per riempire le pizzerie?
Sembra assurdo. Eppure, siamo convinti che da stamattina i telefoni di tutte le donne si stiano riempendo di messaggi che dicono “Buona festa della donna”. E quindi sì, serve ancora spiegarlo. Spiegare che la “Giornata Internazionale della Donna” non è una festa. Che non c’è davvero niente da festeggiare. E che le persone che mandano gli auguri in quel modo non hanno ben chiaro il senso di questa giornata.

Facciamo un breve ripasso sulle origini di questa giornata.

PERCHE’ L’8 MARZO SI CELEBRA LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

PERCHE’ L’8 MARZO SI REGALANO LE MIMOSE?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

A COSA SERVE CELEBRARE LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Serve proprio a ricordare che non c’è nulla da festeggiare, e che per quanto ci illudiamo di aver fatto passi da giganti sulla via del progresso e della civiltà, continuano ad esistere due realtà diverse per gli uomini e per le donne.

Anche volendo limitare l’analisi al nostro Paese, i numeri sono chiarissimi:

  • In Italia lavora il 53% delle donne, contro il 70,6% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile). Le donne inattive (cioè quelle che non lavorano e non cercano lavoro) sono il 42,1% contro il 24,4% degli uomini. (1)
  • La retribuzione media delle donne è inferiore del 43% rispetto a quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini. (2)
  • Per quanto riguarda gli incarichi esecutivi, la situazione è pressoché immutata nel corso dell’ultimo decennio. Stando ad un’indagine svolta dalla rivista Forbes Italia, emerge una minoranza di donne nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato (dirigenti: 83% uomini, 17% donne; quadri: 69% uomini, 31% donne), mentre, se si guarda il dato del mercato nel suo complesso, la situazione risulta migliore (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).
    Nell’ambito del privato, le funzioni che contano più donne manager sono auditingcompliance e risk management (donne dirigenti: 2,2% e quadri 27,3%), legale (donne dirigenti: 1,8% e 11,8% quadri), area tecnica & ricerca e sviluppo (donne dirigenti: 0,9% e quadri 10,6%).
    E ancora risorse umane e organizzazione (donne dirigenti: 1,4% e 9,8% quadri), marketing e comunicazione (donne dirigenti: 1,1% e quadri 9,6%). Tra le società quotate, le ad rappresentano solo il 2% del totale (3,3% nel 2013) e soltanto il 3,8% di chi ricopre il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione (2,9% nel 2013). (2)

  • Una donna su cinque è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma. (3)
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. In 20 anni la differenza tra le pensioni medie delle donne e quelle degli uomini, in Italia, è cresciuta da € 3.900 a € 6.100 (4)
  • Sono 120 le donne uccise in Italia nel 2023. Nell’45% dei casi le donne vengono uccise da un familiare o da un parente. Per gli uomini questa percentuale scende al 3,7%. (5)
  • Oltre il 30% delle donne ha subito nel corso della sua vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che rappresentano la logica conseguenza di un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione. Un tema che avevamo affrontato in questo articolo:

A cosa servono le donne italiane?

Non c’è niente di male a sfruttare questa ricorrenza come occasione per una serata con le amiche. Ciò che conta è ricordare che l’8 marzo non è una festa, ma una giornata dedicata a riflettere su ciò che non possiamo continuare ad accettare e che tutti, uomini e donne, dobbiamo impegnarci a cambiare.

 

Fonti:
(1) ISTAT
(2) Forbes Italia
(3) Il Sole 24 Ore
(4) Econopoly – Il Sole 24 Ore
(5) Fanpage




Il 9 marzo a Roma manifestazione nazionale: “Libertà di manifestare, cessate il fuoco a Gaza, impedire il genocidio”

La Cgil insieme all’ANPI, alle associazioni democratiche, cattoliche e studentesche organizza  per sabato  9 marzo una manifestazione nazionale a Roma, per sostenere una serie di richieste:

  • difendere il diritto e la libertà di manifestare;
  • cessate il fuoco a Gaza;
  • impedire il genocidio;
  • garantire assistenza umanitaria alla popolazione;
  • liberare ostaggi e prigionieri;
  • fine dell’occupazione; riconoscimento dello Stato di Palestina sulla base delle risoluzioni ONU;
  • conferenza internazionale per la pace e la giustizia in Medio Oriente.

INIZIO CORTEO IN PIAZZA DELLA REPUBBLICA: ORE 12.45
ARRIVO AI FORI IMPERIALI E CONCLUSIONE: ORE 17.30

La Cgil Abruzzo Molise organizza dei pullman gratuiti da tutte le Province. Chi fosse interessato a partecipare può contattarci all’indirizzo [email protected].




Un mondo di governi pubblici deboli e di banche centrali private forti

Oramai si è diffusa l’idea che sono i dirigenti belle banche centrali che consentono al capitale di spadroneggiare. La tesi da molti sostenuta si basa sul fatto che le banche centrali, le quali sono quasi sempre enti privati, hanno di fatto sancito che, nella economia globalizzata del dopo guerra fredda, i lavoratori delle industrie e del terziario del mondo, ossia gli eredi “necessari” del capitalismo, debbano condurre una vita da miserabili. A supporto vengono mostrati i dati storici che mostrano che la loro politica è quella di tollerare tassi di crescita sostenuti (dal 5% in su) nei paesi emergenti e di respingere ogni tentativo di una crescita economica rapida nei paesi industrializzati, evidentemente per evitare gli effetti di un rialzo anche minimo del tasso di inflazione.

Molti sostengono che, invece che bilanciare gli interessi tra chi non dispone di un capitale di partenza (che possiamo definire i proletari del nuovo millennio, ossia, coloro che per vivere possono contare unicamente sulla retribuzione derivante dall’offerta a terzi del loro lavoro) e deve indebitarsi e chi possiede capitali da dare in prestito, hanno permesso che l’economia del mondo industrializzato fosse diretta in modo che gli interessi dei debitori, ossia delle maggioranza delle giovani famiglie di lavoratori subordinati,  venissero immolati agli interessi dei capitalisti creditori, cioè dei banchieri e di coloro che hanno vissuto e vivono dei capitali investiti nel mercato azionario.

Se osserviamo gli USA, verifichiamo che gli Stati Uniti stanno vivendo una fase storica in cui la finanza domina su tutto; al centro di questa strana cultura si colloca la borsa e come strumento di azione abbiamo i money managers, anziché le fabbriche e/o i laboratori di ricerca. Sembra che i laureati che vengono fuori dalle grandi scuole di amministrazione aziendale del paese (come Harvard o Stanford) si dirigano di corsa verso le banche di investimenti anziché orientarsi verso un lavoro nell’ambito della economia reale. Ora possiamo accettare con un buon grado di convinzione che storicamente la finanziarizzazione della società è stato un segnale che la posizione economica di un paese sia entrata in una fase di declino.

Alla metà del 1700 le élite olandesi (l’Olanda è il primo paese dove si afferma il capitalismo) erano ormai ridotte ad un piccolo gruppo di speculatori e di redditieri, i quali percepivano redditi non derivanti dal lavoro, ma da capitali (prestavano denaro a qualsiasi monarca). Poi la Gran Bretagna (secondo paese dove si è affermato con forza  il sistema capitalistico) si trovò in una fase simile nel primo decennio del 1900: mentre  la sua industria manifatturiera perdeva terreno, il settore dei servizi finanziari divenne estremamente forte e la sua élite di banchieri e rentiers, i quali controllavano quasi la metà dei capitali di rischio di tutto il mondo,  erano convinti che le attività e gli investimenti finanziari avrebbero neutralizzato qualsiasi crisi dell’industria (in particolare la tessile, la  siderurgica e la cantieristica navale, tridente vincente della produzione anglosassone). È evidente che questi finanzieri avevano torto marcio ed è sempre più chiaro che hanno torto anche coloro che oggi inneggiano alla saggezza delle borse.

Pressando su un ambiente economico in cui i tassi di interesse al netto dell’inflazione sono e permangono alti, i capi delle banche centrali del mondo industrializzato hanno rappresentato un gigantesco trasferimento di reddito dalle famiglie (e anche dalle piccole imprese) alle banche ed alle istituzioni finanziarie internazionali per agevolare la trasformazione del mondo del capitalismo industriale in un mondo del capitalismo finanziario e i lavoratori sono diventati le vittime di questo imbroglio. È assurdo, ma, vediamo molti lavoratori trasformati in una bizzarra modernità del ventunesimo secolo, in una classe di pseudo-capitalisti che fa il tifo per gli interessi del capitale, perché il lavoro non basta più a pagare le bollette, mentre gli investimenti borsistici, anche marginali, danno l’illusione di un futuro migliore.

Oramai tutti viviamo in un mondo di governi deboli e di banche centrali forti come conseguenza dell’emergere della nuova economia globale: nessun settore dell’economia è stato più rapido di quello finanziario nel trasformare la potente combinazione di globalizzazione e nuove tecnologie in una macchina per fare soldi (siamo in una nuova era del capitalismo finanziario). Da questo possiamo chiederci se i capi delle banche centrali del mondo, ai quali era stato affidato dai governi ancora sovrani il compito di tenere sotto controllo la finanza, non siano stati trasformati in schiavi dai capitalisti padroni del nuovo mondo della finanza. Ricordiamo che all’inizio degli anni 70, prima che l’economia globale fosse congiunta tramite la rete ai megabyte, l’ammontare totale in dollari delle transazioni finanziarie condotte dalle imprese degli Stati Uniti  sui mercati azionari nell’arco di un anno intero era inferiore al prodotto nazionale degli USA, ma dalla fine degli anni 90, grazie alle transazioni elettroniche, gli scambi dei settori  finanziari hanno raggiunto un volume annuo totale incomparabile con il volume d’affari dell’economia reale (anche se è nell’economia reale che ci si guadagna da vivere). In sostanza, sembra che con la fine della guerra fredda e l’emergere della nuova economia globale i leader del mondo finanziario abbiano rimpiazzato le gerarchie del complesso industriale militare nel ruolo di big dell’economia.

Dalla fine della guerra fredda Washington ha consacrato i suoi sforzi ad appagare le esigenze del settore finanziario, e con la deregulation finanziaria ha offerto alle istituzioni finanziarie la libertà di ampliare le proprie attività e – tra l’altro – di giovarsi  della capacità di effettuare prestiti ad interesse elevato. L’inclinazione ad assegnare poteri crescenti alle banche centrali è affiorata per effetto dell’inflazione determinata dalla politica del presidente Johnson in materia di finanziamento della guerra nel Vietnam, si è poi rafforzata dopo l’embargo petrolifero decretato dallo Opec nel 1973 e, dopo la fine della guerra fredda, le banche centrali hanno incominciato a guidare completamente la politica economica. La globalizzazione dei mercati finanziari non ha fatto che spingere le  banche centrali a tutelare gli interessi di credito; infatti i proprietari di capitali liquidi temono l’inflazione quindi, in un mondo dove il capitale può spostarsi velocemente e scarseggia rispetto all’eccesso di domanda di manodopera disponibile, si è riscontrato un trasloco di potere verso tutte le istituzioni che hanno un interesse ad evitare l’inflazione, come le banche e il mercato azionario, il quale è un mercato aperto dei prestiti, dominato dai creditori e che tende quindi a fare i loro interessi.

E’ noto che quando i prezzi salgono i debitori possono ripagare i loro debiti ai creditori in denaro svalutato e questo è il motivo per cui i creditori non vogliono l’inflazione, ma quando i prezzi calano, i debitori sono costretti a ripagare i debiti con denaro più costoso, cioè più difficile da acquisire e così, i creditori prosperano a spese dei lavoratori. E‘ evidente che se viene realizzata con un senso di equilibrio la stabilità dei prezzi è un obiettivo legittimo, ma vi è una enorme differenza tra il facilitare la stabilità dei prezzi e il sostenere la deflazione: vogliamo dire che i paesi del mondo industrializzato vengono obbligati a inseguire politiche economiche non coerenti con la stabilità dei prezzi, ma, unicamente deflazionistiche. Ma forse, è la storia dell’economia dalla fine della Seconda guerra mondiale che ci spiega che il lavoro, per prosperare, ha bisogno di un forte tasso di crescita economica e che non possiamo accettare i diktat del sistema finanziario globale e dei suoi mercati.

Non si può che sperare che siano in errore coloro che vedono le politiche seguite dalle banche centrali di oggi come una ripetizione di quelle perseguite negli anni 20 del secolo scorso: infatti, anche allora infuriava la stessa follia finanziaria, che oggi attribuisce ai banchieri centrali un monopolio sulla scienza delle finanze, e anche allora prevalevano politiche monetarie che si sono poi rivelate altamente deflazioniste. Poi non possiamo non ricordare che i sindacati erano deboli, ed anche oggi appuntiamo una certa debolezza delle organizzazioni sindacali nei paesi industrializzati, senza contare che i redditi da capitale sono in aumento rispetto ai redditi da lavoro e che la distribuzione dei redditi si realizza sempre più disuguale come registrato negli anni venti.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




Gruppo BCC ICCREA, la difficile trattativa per il primo contratto integrativo di gruppo.

“Sciur padrun da li beli braghi bianchi
Fora li palanchi, fora li palanchi” …e non solo quelli!


Carissim* iscritt*,

come sapete da inizio anno siamo impegnati con le trattative del primo Contratto Integrativo di Gruppo. Una trattativa fatta di tempi estenuanti e poco fruttuosi, posizioni e momenti delicati, passi avanti ed altrettanti passi indietro.

La delegazione di Controparte, composta tra l’altro dal Responsabile delle Relazioni Industriali della Capogruppo e da un gruppo ristretto di importanti BCC (in rappresentanza di tutte le Banche aderenti), dimentica spesso che i fantastici utili delle BCC e delle Aziende sono innanzitutto merito delle Lavoratrici e dei Lavoratori e che le rivendicazioni del sindacato sono finalizzate alla giusta ridistribuzione degli utili verso chi vive le tante problematiche del Gruppo Iccrea e contribuisce alla sua produttività.

I richiami roboanti e le belle parole sul futuro di questo grande Gruppo del Credito Cooperativo svaniscono a seconda dell’interesse del momento; tra i vertici della Capogruppo e delle BCC associate si nota continuamente la tendenza ad uno sguardo al passato che indebolisce il progetto di un Gruppo unico e compatto, manca quindi una vera volontà Aziendale ad andare avanti.

I Contratti Integrativi non vengono rinnovati da almeno 10 anni e gli utili da ridistribuire devono essere superiori ai c.a. 2 punti percentuali proposti da Controparte, per riconoscere salario e diritti migliorativi per tutti e giuste armonizzazioni non ribassiste come essa vorrebbe. La Capogruppo e le BCC associate forse sottovalutano l’importanza del primo Contratto di Gruppo.  La Fisac Cgil sottolinea che senza un contratto integrativo forte non c’è gruppo e non potrà esistere uno spirito identitario senza un trattamento omogeneo per tutti i 22.700 dipendenti. Da mesi si contratta ma il tempo stringe, le materie di discussione al momento continuano ad essere tre:

  • Ticket pasto, sul quale ancora non si riesce a definire il valore. Non riteniamo sufficiente la proposta aziendale e abbiamo posto con forza la soglia vicina alla doppia cifra (10 euro). Oltre ad un riconoscimento adeguato per i part-time che sia al di sopra della semplice proporzionalità tra valore del ticket ed ore lavorate.
  • Pacchetto Welfare: abbiamo chiesto, e non ancora raggiunto, un valore medio di circa 1000 euro a dipendente a carico totale delle aziende, per la copertura di:
    • Interventi odontoiatrici;
    • Check up biennale per tutti;
    • Contributo per figli a carico al Fondo Pensione Nazionale;
    • Polizze assicurative (migliorative rispetto all’ esistente) per il dipendente e per sostentamento della famiglia, per morte o invalidità permanente anche da malattia;
    • Polizza Kasko in caso di utilizzo dell’auto privata per ragioni di servizio.
  • Mobilità, argomento molto rilevante per la qualità della vita delle persone, sulla quale siamo ancora più distanti e su cui le posizioni di Controparte sono rigide ed incomprensibili. Il Sindacato chiede da tempo norme chiare e non discriminatorie, tra cui un nuovo criterio da adottare per il calcolo della distanza (tra luogo di residenza e sede di lavoro) da applicare a trasferimenti futuri, come pure retroattivamente a quelli già in essere. Il nostro obiettivo è quello di disincentivare i trasferimenti non necessari e spingere la Banca/Azienda a lavorare su una migliore organizzazione del lavoro. Inoltre, se per avere le certificazioni ESG risultano miliari la riduzione delle emissioni inquinanti e la maggiore conciliazione vita-lavoro, perché non utilizzare i nuovi strumenti a disposizione (es. Lavoro Agile) ed i trasferimenti intelligenti verso le filiali perseguendo l’obiettivo di avvicinamento rispetto al proprio luogo di abitazione/residenza? In ogni caso, per noi l’accordo del C.I.G., in attesa dell’armonizzazione di tutti gli istituti, dovrà comunque salvaguardare le previsioni già esistenti nelle contrattazioni CIR/CIA allo stato vigenti.

    Come Fisac-CGIL, pur consapevoli della grande opportunità che può rappresentare questo Contratto Integrativo di Gruppo, anche in ottica futura, non intendiamo lasciare sul campo partite normative importanti quanto quelle economiche. Una partita economica guadagnata oggi, seppur venisse giudicata non soddisfacente, potrà senz’altro essere rinegoziata in futuro mentre una partita normativa persa ora sarà sicuramente più difficile da recuperare.

    Siamo anche coscienti che l’imminente partenza delle trattative per il rinnovo del CCNL potrebbe avere ripercussioni, anche temporali, su questa trattativa ma allo stesso modo, proprio per la rilevanza della difficoltà e la vastità di argomenti che al momento sono rimasti esclusi dalla trattativa, ci impone ed auspichiamo imponga a tutti, di fare delle scelte ponderate.

    Le aziende devono uscire dai tatticismi, prevedere ulteriori risorse per chiudere con celerità questi tre temi del contratto integrativo; in caso contrario non lasceremo scorrere tempo inutilmente, ed inoltre vogliamo anche riprendere quanto prima l’accordo sul lavoro agile per migliorarlo, nonché trattare il nuovo premio (VPA).

    Seguiranno aggiornamenti appena disponibili.

    04 marzo 2024

 

Il Coordinamento FISAC/CGIL Gruppo BCC Iccrea




Stress in ufficio? Il datore di lavoro risponde per danni

Per rintracciare la responsabilità in capo al datore basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore


Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante anche se gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing. La Cassazione ribadisce (sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso) che la tutela della salute dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing ma si estende a tutte le situazioni di stress da lavoro.

Appello contrario

La controversia riguarda un lavoratore che ha portato in giudizio il datore per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta risarcitoria era stata accolta in primo grado ma poi rigettata dalla Corte d’appello, che non ha riscontrato negli atti e nei comportamenti del datore quel «comune intento persecutorio» che rappresenta l’elemento costitutivo del mobbing.
Secondo la Corte d’appello, tali attive potevano, al massimo, essere qualificabili come carenze gestionali e organizzative, ma mancavano di quell’intento persecutorio necessario perché si possa parlare di mobbing.

Ribaltamento in Cassazione

La Cassazione ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non giustificano cedimenti delle misure di tutela e prevenzione.
Pertanto, secondo la Cassazione, per rintracciare una responsabilità in capo al datore non è necessaria, come si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene.

Condotte esorbitanti anche se non vessatorie

Alcune condotte, quindi, pur non essendo vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, soprattutto se sono continue e ripetute nel tempo: queste condotte, conclude la Corte, violano l’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia, e come tali generano un pregiudizio per la salute che deve essere risarcito.
Questa interpretazione conferma la tendenza della Cassazione a rifiutare letture riduttive delle responsabilità datoriali in tema di sicurezza; un approccio severo che tuttavia non deve giungere inaspettato in tema di stress da lavoro, essendo fenomeno questo già al centro delle politiche di prevenzione dei danni alla salute (è obbligatoria la valutazione del cosiddetto “stress da lavoro correlato”).

 

Fonte: Il Sole 24 Ore