La chiusura delle filiali danneggia i territori: ecco le prove

Nel corso degli anni abbiamo ripetutamente evidenziato l’andamento sconfortante della chiusura delle filiali e del taglio dei posti di lavoro nelle banche di Abruzzo e Molise.

Le due regioni hanno pagato un prezzo pesante ai piani industriali dei grandi istituti di credito. Il Molise, in particolare, è la regione italiana che negli ultimi 5 anni ha perso più filiali: più o meno un terzo. Oggi in provincia di Isernia quasi il 90% dei comuni non ha sportelli bancari. In Abruzzo la maglia nera spetta alla provincia dell’Aquila, con circa 3 comuni su 4 privi di banche.

Gli istituti di credito ci hanno sempre raccontato che la chiusura delle filiali non incide sulla qualità di servizi offerti al territorio, visto che ormai gran parte dell’operatività si svolge online, e che gli stessi clienti non avvertono più l’esigenza di sedi fisiche.

Esiste però un dato, riferito all’Abruzzo, che smentisce in modo evidente questa affermazione. Il dato è tratto dall’ottimo studio “Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022” al quale avevamo dato ampio risalto in questo articolo.

Nello scorso anno il credito alle imprese medio-grandi in regione è cresciuto del 4,4%, mentre quello alle piccole imprese è diminuito del 4,6%. Le grandi imprese non hanno bisogno del contatto con la filiale, potendo beneficiare dell’assistenza di strutture accentrate dedicate a loro. Le piccole imprese, non trovando più riferimenti sul territorio, faticano ad ottenere finanziamenti. E’ evidente che, in un territorio nel quale le imprese sono quasi tutte di dimensioni piccole, questo dato può rappresentare un enorme ostacolo non solo per lo sviluppo economico, ma anche per il mantenimento delle condizioni in essere.

Tutto questo pareva un discorso puramente accademico, del quale si faticava a cogliere gli effetti pratici. Ora possiamo toccare con mano le conseguenze dell’abbandono bancario basandoci su alcuni dati.

Nel primo trimestre del 2023 il Molise e l’Abruzzo sono rispettivamente la peggiore e la seconda peggior regione d’Italia rispetto al decremento di imprese artigiane attive, come testimonia uno studio commissionato dalla CNA Abruzzo. Non si tratta di un dato isolato: in 10 anni sono state circa 9mila le imprese artigiane che hanno abbassato la saracinesca in Abruzzo. Difficile non mettere in relazione questo dato con l’oggettiva difficoltà delle piccole imprese nel trovare finanziamenti. 

Altro importante elemento di riflessione è rappresentato dal dato relativo all’usura. Abbiamo più volte espresso il timore che in assenza di finanziatori istituzionali i piccoli imprenditori potessero essere tentati di rivolgersi altrove, finendo in mano agli usurai.
Vediamo come si posizionano le province Abruzzesi nella classifica delle province per incidenza dei reati d’usura nel 2022 redatta dal Sole 24 Ore. Dobbiamo fare una premessa: il dato si basa sulle denunce, e sappiamo che le denunce per usura sono in numero molto ridotto rispetto alla reale incidenza del fenomeno. Esistono comunque dei numeri ufficiali, e su quelli basiamo le nostre considerazioni.
Tre delle quattro province abruzzesi si collocano nella parte alte della classifica: su un totale di 106 province Pescara si posiziona 34ma, L’Aquila 31ma, Chieti addirittura al secondo posto. Solo Teramo non figura, risultando una provincia nella quale non esistono denunce per usura.
Guarda caso, quella di Teramo è la provincia abruzzese con la maggiore percentuale di comuni serviti da filiali (oltre il 68%) ed è anche l’unica provincia in Regione nella quale il fenomeno usura è apparentemente irrilevante.
Chieti è la provincia che ha perso più filiali nel 2022 (oltre il 7%) oltre ad essere quella che ha perso più addetti  negli ultimi 5 anni (-29,4%), ed è anche è la provincia che nel 2022 è risultata la seconda in Italia per incidenza dei reati d’usura.
Non si può evidentemente stabilire in modo indiscutibile un nesso tra tra questi dati: tuttavia il tentativo di mettere in relazione tra loro i numeri numeri produce un effetto indubbiamente impressionante, tanto più considerando che parliamo di province nelle quali l’incidenza dei reati in genere è molto più bassa, con la sola eccezione della Provincia di Pescara che anche nella classifica complessiva dei reati si piazza al 34mo posto.
Si può ovviamente obiettare sulle nostre considerazioni, che non hanno la pretesa di rappresentare uno studio effettuato con metodo scientifico. Tuttavia, c’è un fatto che comincia ad emergere in un modo chiaro: puntando a massimizzare  i loro profitti le banche tagliano le spese ritenute “meno produttive”, ma in questo modo fanno del male a territori come Abruzzo e Molise, colpevoli di essere considerati “meno profittevoli”.
E tutto questo nella totale indifferenza della politica locale e regionale.

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Banche: continua la grande fuga dai nostri territori




Generali: «Scarso rendimento», annullati i provvedimenti contro lavoratore

La compagnia corre ai ripari, ma il suo Codice disciplinare non è coerente con il contratto nazionale


Generali, no ai licenziamenti per scarso rendimento
Storica sentenza del Tribunale di Taranto

La Fisac di Lecce contesta i provvedimenti disciplinari, anche il giudice li ritiene illegittimi “Sentenza che dà ai lavoratori dignità professionale e garantisce trasparenza ai clienti

Con una sentenza storica, Il Tribunale di Taranto ha annullato i provvedimenti disciplinari irrogati da Generali ad un suo dipendente, per “scarso rendimento”.
E lo ha fatto entrando nel merito e stabilendo un principio a salvaguardia della dignità professionale e del benessere dei lavoratori, contro la tirannia delle pressioni commerciali: “Il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento. La condotta del lavoratore va valutata complessivamente e per un apprezzabile periodo di tempo” e prendendo come criterio fondamentale la “fattiva collaborazione” del dipendente per l’acquisizione degli affari. Un pronunciamento, arrivato grazie al lavoro della Fisac Cgil Lecce e del suo Dipartimento Giuridico che farà giurisprudenza e che è destinato a pesare sulla mole di provvedimenti disciplinari che la compagnia di assicurazioni ha comminato al personale. Sanzioni che hanno spesso comportato l’abbandono volontario del posto di lavoro o il licenziamento.

“La sentenza è un passo fondamentale per affermare il diritto di lavoratrici e lavoratori a vivere il proprio lavoro con la giusta serenità ed in un contesto di benessere”, spiegano Maurizio Miggiano, segretario generale della Fisac Cgil Lecce, e Paola Boccardo, responsabile del Dipartimento Giuridico FISAC Lecce. “Le pressioni commerciali delle compagnie assicurative, ma anche di altre aziende di svariati settori, mettono a dura prova la tenuta psicofisica dei dipendenti, sempre più spinti ad ottenere risultati, a volte mettendo a rischio anche la tutela del cliente e il principio della trasparenza, pur di non incorrere in sanzioni disciplinari”.

Il riferimento dei sindacalisti va alle direttive ed ai regolamenti a garanzia del cliente, che impongono agli operatori di comportarsi con equità, onestà, professionalità, correttezza e trasparenza nel miglior interesse dei contraenti e degli assicurati. In Generali, però, gli obiettivi di produzione vengono stabiliti dall’azienda in modo discrezionale, in assenza di una negoziazione con i sindacati, e con un sistema sanzionatorio pressante: “Riteniamo che un’organizzazione di questo tipo abbia poco a che fare con le reali esigenze della clientela e con il rispetto della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, costretti in molti casi a rinunciare al lavoro pur di non subire pressioni e mortificazioni della loro professionalità”, dicono i sindacalisti.

Fino alla sentenza del Tribunale di Taranto, la Fisac Cgil Lecce aveva ottenuto giustizia presso gli Ispettorati territoriali del lavoro per un vizio di forma. L’Itl ha infatti accolto le tesi dei lavoratori, perché Generali non aveva affisso in un luogo visibile a tutti il Codice disciplinare (in base all’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori). Un principio ribadito dalla recente sentenza, che ha costretto Generali ad adeguarsi e ad affiggere il suo Codice, che però prevede ancora tra le condotte sanzionabili anche lo scarso rendimento. E ciò alla Fisac Lecce non va bene: “Il Codice disciplinare deve essere in ogni sua parte coerente con il contratto collettivo nazionale, così come stabilito dallo Statuto dei Lavoratori. Se la contrattazione stabilisce che il dovere del dipendente è adoperarsi per l’acquisizione degli affari, non può esistere un Codice disciplinare contrario al principio della fattiva collaborazione”, concludono i sindacalisti.


SEGRETERIA PROVINCIALE FISAC/CGIL – LECCE




Bnl: tribunale dichiara illegittima cessione It a Capgemini

Vittoria del sindacato e dei lavoratori, ora attesa sentenza trasferimento backoffice


È illegittimo il trasferimento del ramo di azienda It operato da Bnl a favore di Capgemini, la multinazionale francese della consulenza. A prevederlo è una sentenza del tribunale del lavoro di Roma, emessa ieri, e che riguarda circa 250 lavoratrici e lavoratori su un’azione promossa dalla Fisac Cgil insieme alle altre organizzazioni sindacali del settore. “Con questa sentenza – fa sapere Martina Braga, responsabile di coordinamento Fisac Cgil Bnl – registriamo una prima importante vittoria che dimostra la giustezza della lotta che abbiamo portato avanti, come coordinamento insieme alla segreteria Fisac, sulla infondatezza di questa cessione di ramo d’azienda”.

Nel passato piano industriale, infatti, racconta Braga, “il management di Bnl ha operato questa cessione dell’It a Capgemini: una modalità grossolana di risparmio del costo del lavoro, senza al contrario usare gli strumenti previsti dalla categoria sul fronte esuberi e utilizzo del fondo”. Ora è in previsione un nuovo pronunciamento del tribunale di Roma per quanto riguarda, invece, la cessione dei sistemi di backoffice di Bnl ad Accenture. “Aspettiamo fiduciosi questo prossimo intervento, che riteniamo essere anch’esso illegittimo e frutto di una stessa errata logica industriale”.

La tenacia delle lavoratrici e dei lavoratori interessati, l’impegno sindacale che abbiamo profuso a tutti i livelli a loro sostegno, – commenta la segretaria nazionale della Fisac Cgil, Chiara Cantonsegna oggi un risultato importante. Una vittoria del sindacato, un punto di principio su un’operazione illegittima. Abbiamo sempre creduto e sostenuto, come più volte detto all’azienda ai tempi della trattativa, che non ci fossero i presupposti di legge per l’operazione, volta solo a tagliare i costi del personale coinvolto”.

Eppure, continua la dirigente sindacale, “nonostante due scioperi l’azienda ha deciso di andare avanti comunque, sebbene proponessimo soluzioni alternative anche, e soprattutto, a garanzia delle lavoratrici e dei lavoratori. Garanzie che la banca avrebbe concesso solo in cambio della rinuncia a impugnare la cessione, ovviamente per noi inaccettabile e contro la legge. Il primo grado di giudizio ci ha dato ragione, e ha dato ragione alle lavoratrici e ai lavoratori. Ora, con la stessa fiducia, aspettiamo il giudizio sulle cause intentate dalle lavoratrici e dai lavoratori del backoffice, anche loro coinvolti in cessione di ramo d’azienda”, conclude Canton.




Banca Popolare di Bari: cambia il nome, ma la banca?

3 - Fisac Cgil

Dopo l’incontro tenutosi martedì 4 u.s. con l’alta dirigenza Banca Popolare di Bari alla presenza anche di un rappresentante MCC, l’Azienda si è resa disponibile ad avviare un dialogo costruttivo e concreto con le Organizzazioni Sindacali dopo il fortissimo segnale di malessere espresso dallo sciopero del personale del 17 aprile scorso.

In questa circostanza, è parso davvero che si voglia intraprendere un nuovo corso, teso anche a trovare soluzioni per recuperare il potere d’acquisto dei salari, provvedimenti sull’organizzazione del lavoro e sua sostenibilità, temi, questi, al centro dell’azione sindacale in BPB.

I punti emersi:

  • L’impegno, da risolversi in tempi brevissimi, di ritoccare al ribasso i tassi dei mutui liquidità e delle sovvenzioni al personale;
  • La disponibilità, a partire dagli incontri previsti nei giorni 17 e 18 luglio p.v., di rivedere, al rialzo il valore dei buoni pasto;
  • L’apertura a discutere di altri strumenti, diffusi per tutti e tutte, tesi a mitigare il gravosissimo impatto economico della riduzione oraria del lavoro;
  • L’impegno alla valutazione di sostenibilità finanziaria dell’adeguamento delle condizioni economiche dei dipendenti del Gruppo a quelli dei dipendenti MCC;
  • L’imminente assunzione, a tempo determinato per 5 mesi, di 15 persone nel ruolo di addetto famiglia per dare manforte alle filiali;

Certo, stante il carattere emergenziale di queste assunzioni, sarebbe stato corretto conoscere, per trasparenza, criteri, come e dove in anticipo e non a cose fatte, ma la reticenza sembra essere la discutibile cifra comunicativa di quest’Azienda.

Nella tarda serata del trascorso 5 luglio hanno cominciato a girare i primi articoli degli organi di informazione su di un Consiglio di Amministrazione straordinario che ha deciso il cambio del nome da Banca Popolare di Bari a Banca del Mezzogiorno – Bidiemmebanca.

Tali articoli davano anche anticipazioni di un prossimo piano industriale con numeri e percentuali.

Nel mentre, purtroppo, giungevano notizie di video-riunioni dai toni alterati con affermazioni che preannunciavano che il costo dell’operazione di ridefinizione del marchio aziendale determinerà un aumento dei costi che dovrà essere ripagato da ulteriori sforzi della rete: che tristezza…

Atteso che la U.O. Relazioni Industriali non ha potuto darci informazioni e delucidazioni al riguardo, siamo comunque a chiedere a MCC tutti i chiarimenti del caso.

Mostrino dunque la Banca, la Proprietà, in maniera univoca, il loro vero volto.

Ove così non fosse, se alle dichiarazioni sul tavolo di confronto non seguirà una coerente condotta aziendale, saremo pronti per una nuova fase di mobilitazione.

Bari, 12 luglio 2023

 

Segreterie OdC
FABI – FIRST/CISL – FISAC/CGIL – UILCA – UNISIN
Banca Popolare di Bari – Gruppo MCC




I furbetti dell’inflazione: così le banche hanno quasi raddoppiato i profitti grazie ai nostri soldi

Liquidità a costo zero grazie ai nostri conti corrente e maggiori rendimenti dovuti a inflazione e aumento del costo del denaro: è boom di extraprofitti, nel settore bancario, non redistribuiti quasi mai tra i risparmiatori. 


Un incendio con un estintore sempre meno efficiente. Si può riassumere così l’aumento dei prezzi che la BCE prova ormai, da oltre un anno, ad attenuare tramite l’aumento dei tassi di interesse. E l’inflazione, parola che ormai avevamo relegato ai ricordi del secolo scorso, è ormai entrata a far parte prepotentemente delle nostre vite. Ce ne rendiamo conto quando andiamo al supermercato o proviamo a sottoscrivere un mutuo o un finanziamento. O quando sospiriamo davanti al conto di un ristorante o di una bolletta, magari arretrata.

Ma per qualcuno l’aumento dei prezzi è stato finora un affare. E se a lungo si è parlato degli extra-profitti dei colossi dell’energia, l’evidenza è che gli utili delle banche, l’anno scorso, sono letteralmente volati. Come? Facendo affari con i nostri risparmi e remunerandoci infinitamente meno di quanto incassato.

I mega-profitti delle banche italiane

A fare luce sui mega-profitti delle banche italiane ci ha pensato ultimamente uno studio della Fisac-Cgil che ha preso in considerazione i sette maggiori gruppi bancari italiani nel corso del 2022. Il loro utili si sono attestati su 13,3 miliardi di euro: l’aumento rispetto al 2021 è del +60,5%. Lo studio evidenzia come questa crescita sia trainata essenzialmente dall’aumento dei margini di interesse (che comprendono i nostri finanziamenti e i nostri mutui) e dai risultati finanziari degli investimenti effettuati. Il tutto mentre i costi rimangono tutto sommato stabili.

La congiuntura determinata da inflazione e costo del denaro ha generato per le banche forti utili. Abbiamo calcolato, solo guardando ai primi cinque grandi gruppi, che, considerando le operazioni di buyback (riacquisti di azioni proprie ndr), dopo il cambio di politica della Bce post pandemia, la remunerazione totale per gli azionisti, sia diretta che indiretta, è risulta essere pari ad oltre 10,5 miliardi di euro. Per l’intero settore parliamo di più del doppio. Si tratta di una ricchezza che va assolutamente redistribuita, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori del sistema bancario, e messa a disposizione per gli investimenti a sostegno del sistema paese” sottolinea Susy Esposito, segretaria di Fisac Cgil.

Come si vede gran parte degli utili (circa il 24,5%) sono stati divisi poi con gli azionisti in forma di dividendi: anche in questo caso la remunerazione è stata alta (+46,5%) rispetto al 2021. Quelli che non vedono un euro (o ne vedono molto pochi) sono ovviamente i correntisti e i dipendenti. Se infatti gli utili sono previsti in crescita anche nei prossimi anni, la stessa cosa non si può dire per quello che riguarda i lavoratori del settore.

Il settore bancario è infatti uno di quelli più sottoposto a dinamiche di automazione e digitalizzazione. Tradotto: i dipendenti si sono già ridotti e, tra prepensionamenti e piani di ristrutturazione, tenderanno a assottigliarsi sempre più. E  se gli utili non finiscono nelle tasche dei lavoratori e dei correntisti, finiscono indubbiamente nelle tasche dei manager: un CEO guadagna oggi in media come 86 lavoratori del settore. I due top manager di Intesa San Paolo e Unicredit guadagnano qualcosa come 7 milioni e mezzo di euro l’anno.

Ma al di là di tutto questo, la vera domanda è: perché l’inflazione ha favorito i profitti bancari? E cosa c’entrano i nostri risparmi?

Come nascono gli extraprofitti delle banche e cosa c’entra l’inflazione

Il presupposto è che la maggior parte della ricchezza degli italiani è ancora accumulata nel patrimonio immobiliare e nei conti correnti. Nei primi mesi del 2022, i soldi depositati dagli italiani nei conti correnti sfioravano i 1159 miliardi di euro. Parliamo di soldi raccolti dalle banche a costo zero che non fruttano praticamente nulla ai correntisti. E che, in un momento di rialzo dell’inflazione e dei tassi diventano uno strumento importantissimo di profitto.

“L’aumento degli utili delle banche è legato all’aumento dei tassi di interesse: da un lato i prestiti per le imprese e le famiglie sono diventati più onerosi, dall’altro lato una parte importante della raccolta bancaria non ha registrato aumenti significativi – osserva Paolo Canofari, professore Associato in Politica Economica presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali dell’Università Politecnica delle Marche – È inutile osservare che nessuno di fatto va a contrattare nuove condizioni sui conti deposito o conti corrente. Di fatto gran parte della raccolta è rimasta a costo zero a fronte di rendimenti crescenti. Le banche lucrerebbero di meno se gli aumenti andassero di pari passo al costo della raccolta, ma quest’ultimo è aumentato di pochissimo. Del resto i titoli bancari stanno andando da tempo molto bene: è un simbolo della loro attrattività dal punto di vista dei profitti”.

Per rendersi conto di cosa stiamo parlando è sufficiente dare uno sguardo al grafico sotto. Il tasso di interesse dei conti corrente nominali è praticamente negativo se si considerano le spese di gestione. La remunerazione dei conti deposito aumenta, ma si mantiene su cifre abbastanza basse rispetto a quelli applicati sui finanziamenti.

Come si vede chiaramente il tasso di interesse medio chiesto per i finanziamenti (come i mutui o l’acquisto di un’auto) è nettamente superiore a quello offerto come rendimento sui conti deposito. Parliamo di un prodotto finanziario dove mettere da parte somme di denaro (vincolate o meno) con margini di redditività superiore a un comune conto corrente, ma soggetto a un numero di operazioni molto più limitato. Del resto, se è evidente che le banche offrono una serie di prodotti finanziari a rendimenti maggiori, sono ancora oggi i conti correnti e i conti deposito le destinazioni principali dove gli italiani depositano i loro risparmi.

E, al di là degli investimenti più rischiosi e dei finanziamenti, le banche possono utilizzare i soldi dei correntisti in molte operazioni a rischio zero. Potrebbero, in casi limite ad esempio, depositare in maniera “safe” i propri depositi presso la banca centrale, senza rischiare nulla. Il deposit facility rate della BCE ha raggiunto, al momento, il 3,5% di interessi. Ma le opzioni sono molto variegate.

“Le banche possono acquisire anche titoli di stato, per esempio italiani, e avere nel decennale un business del 4/ 5%. Più la Bce alza i tassi più i nuovi titoli diventano redditizi. Parliamo sempre di operazioni a redditività non elevata, ma che possono comunque fruttare se lo confrontiamo con la raccolta a costo zero proveniente dai correntisti” osserva Paolo Canofari.

Il caso della Sylicon Valley Bank e chi prova a “rompere le righe”

Quindi l’inflazione e il rialzo dei tassi è sempre buono per il sistema bancario? Non sempre, come la vicenda della Silycon Valley Bank ci ha dimostrato. Una crisi legata essenzialmente al fatto che, oltre alle difficoltà di tutto il settore tecnologico del post-pandemia, la banca aveva investito in obbligazioni e titoli di stato che si sono svalutati con l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Fed.

Il punto è stato quello di non diversificare gli investimenti e in questo contesto, la consueta “prudenza”, attribuita al sistema bancario italiano potrebbe rivelarsi un punto di forza come osserva Paolo Canofari: “È sostanzialmente un problema di diversificazione degli investimenti, è chiaro che se nella ‘pancia’ hai solo titoli il rischio è più elevato. Le banche italiane non corrono, a mio avviso, questo rischio”. Ma la gallina dalle uova d’oro costituita dagli alti tassi non può durare all’infinito: “In generale l’aumento dei tassi può generare sul lungo periodo instabilità finanziaria. Non sappiamo per quanto la BCE aumenterà i tassi, ma non potrà certo all’infinito. Se un domani le imprese o i risparmiatori non riuscissero a pagare più i finanziamenti si innescherebbe una spirale recessiva che colpirebbe anche gli istituti di credito. Sul lungo termine, sia l’inflazione, sia l’aumento del costo del denaro, non conviene a nessuno” conclude Canofari.

Per il momento però conviene ancora, e come spesso accade, conviene alla fascia più ricca del Paese: “La remunerazione dei depositi non sta andando sicuramente di pari passo con l’andamento dell’inflazione – osserva Susy Esposito, segretaria generale di Fisac Cgil – d’altronde la stessa raccolta si sta restringendo, anche in ragione di questo disallineamento. La verità è che le persone stanno perdendo potere di acquisto, mentre le banche stanno generando attivi perché c’è quella parte di patrimonio di ricchezze concentrate che si difende dall’inflazione. Essendo il nostro un paese diseguale, i ricchi e i ricchissimi garantiscono utili alle banche attraverso la gestione del loro patrimonio”

E il punto è che sembra esserci una sorta di cartello tra le grandi banche italiane per la concessione di tassi di interesse, mutui e finanziamenti: una dinamica evidenziata da uno studio di Unimpresa. E a provare a sparigliare le carte ci sono le nuove banche on-line. Un segmento momentaneamente marginale, ma destinato a crescere rapidamente, anche grazie a una redistribuzione degli utili più equa e un rendimento maggiore dei tassi di interesse.

Del resto basta confrontare le migliori offerte sui conti deposito on-line per trovarci di fronte a una platea di istituti giovani che operano quasi esclusivamente nel digitale come: Illimity bank, Cherry Bank, Banca Progetto, Banca Aidexa e molti altri. In molti di questi casi i rendimenti si attestano sul 4% annuo con una remunerazione per i correntisti maggiormente adeguata ai profitti. Segno che il digitale potrebbe portare dei sostanziali cambiamenti anche in uno dei settori, da sempre, più restio alla concorrenza e al cambiamento.

 

Fonte: Today.it




Fringe Benefit e mutui, il “decreto lavoro” non risolve il problema, ma non è finita…

Fringe benefit: riassunto delle puntate precedenti

 

Come illustrato in precedenti note Fisac, il progressivo rialzo dei tassi BCE da un anno a questa parte sta procurando seri problemi a molte lavoratrici e molti lavoratori beneficiari di prestiti o mutui agevolati, erogati a tassi di interesse ridotti.

In estrema sintesi, la norma del Tuir prevede che, nel momento in cui l’ammontare di beni o servizi riconducibili a fringe benefit (buoni spesa, buoni benzina, fabbricati concessi in locazione, ecc. e, appunto, prestiti e mutui agevolati) superi la soglia di 258,23 euro (equivalenti a 500.000 lire), allora tutto il valore dei beni o servizi erogati dal datore di lavoro diviene imponibile IRPEF, senza applicazione di franchigia.

Non diventa, dunque, tassabile solo la quota eccedente i 258,23 euro, ma l’intero ammontare erogato: prestiti e mutui concessi a condizioni di favore, infatti, entrano nell’imponibile IRPEF su cui pagare le imposte azzerando i vantaggi generati dalla normativa vigente in tema di fringe benefit. Per tali compensi non in denaro, peraltro, per il solo 2022 (con specifica disposizione contenuta nel cd. Decreto ‘Aiuti-bis’) era stata innalzata la soglia di esenzione fiscale fino a 3.000 euro, evitando a tanti – ma non a tutti – il superamento della soglia e l’assoggettamento a IRPEF e contributi del benefit.

Ricordiamo che per calcolare il valore equivalente al benefit derivante dalla concessione di prestiti agevolati, è necessario prendere in considerazione il Tasso sulle operazioni di finanziamento principali vigente a fine anno che, come noto, rappresenta il tasso di interesse che la BCE applica per la concessione di prestiti agli operatori del sistema bancario: ferme restando le eccezioni previste dalla norma, l’importo del fringe benefit da calcolare ai fini IRPEF è pari al 50% della differenza tra il valore degli interessi effettivamente pagati in base al tasso applicato al mutuo/prestito agevolato e quelli calcolati prendendo a riferimento il tasso BCE a fine anno.

Non a caso la FISAC, assieme alla CGIL nazionale, aveva elaborato e avanzato emendamenti al Disegno di legge di Bilancio 2023 per correggere strutturalmente tale stortura fiscale. Purtroppo, senza successo.

Con il Decreto-legge n. 48 del 4 maggio 2023 (il cosiddetto ‘Decreto lavoro’) è stata reintrodotta dal Governo la soglia di detassazione a 3.000 euro dei fringe benefit, ma con la forte condizionalità che tale esenzione si applichi esclusivamente a lavoratrici e lavoratori con figli.

IL ‘DECRETO LAVORO’: SOGLIA A 3.000 EURO SOLO PER CHI HA FIGLI

Nella seduta di giovedì 29 giugno, la Camera dei Deputati ha approvato definitivamente – con 154 voti favorevoli e 82 contrari – il Disegno di legge S. 685 di “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, recante misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”. Tra le principali novità: cambiano alcune norme dell’assegno di inclusione; si prefigura il superamento del reddito di cittadinanza; peggiorano le regole dei contratti a termine e dei contratti in somministrazione; si proroga lo smart workingper categorie fragili e genitori, con ulteriori limiti per la P.A.; si prevedono bonus le imprese; si modifica temporaneamente la normativa fiscale per i fringe benefit.

Come sostenuto dalla CGIL – in una Nota dettagliata e anche in sede di Audizione Parlamentare – il provvedimento in questione, nonostante la presentazione mediatica che ha preceduto la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, non risponde alle esigenze che il mondo del lavoro ha espresso in questi mesi. Insieme a norme che peggioreranno le condizioni economiche e normative delle fasce più deboli, a partire da chi è in povertà assoluta, ritroviamo delle risposte parziali alle nostre piattaforme unitarie, a partire da quella sul fisco. Difatti, si reputa assolutamente insufficiente l’intervento una tantum sul taglio del cuneo, alla luce del forte impatto che l’inflazione sta provocando sul lavoro dipendente, soprattutto se lo si contrappone all’incremento dei salari. Anche dalla discussione parlamentare durante l’iter del disegno di legge emerge una evidente volontà della maggioranza di Governo di superare il reddito di cittadinanza come strumento universale, nonché di incremento delle misure di precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Nello specifico, l’Articolo 40 della Legge di conversione del ‘Decreto lavoro’ ha previsto il finanziamento di 142 milioni di euro nel corso del 2023 per innalzare fino a 3.000 euro la soglia di esenzione fiscale dei fringe benefit aziendali per tutti i dipendenti (esclusi i pubblici) beneficiari, per contrattazione collettiva o per normative di aziende/gruppi, di prestiti o mutui agevolati, purché abbiamo uno o più figli, anche nati fuori dal matrimonio o adottivi.

Anche in questa circostanza, come anticipato con Nota alle strutture del 21 giugno 2023, in raccordo con la CGIL nazionale, sono stati presentati degli emendamenti al Ddl S. 685 relativi al tema dei fringe benefits per innalzare la soglia non tassabile, nonché per il mantenimento del tasso di riferimento all’anno della stipula o della rinegoziazione del prestito, così come richiesto anche da tutte le OO.SS. e ABI con Lettera del 27 aprile scorso.

EMENDAMENTI RESPINTI MA ORDINI DEL GIORNO ACCETTATI

Purtroppo, gli emendamenti proposti dalla FISAC e dalla CGIL sul tema sono stati respinti. L’assenza di dialogo da parte del Governo e della maggioranza parlamentare non hanno permesso di discutere dei possibili aggiustamenti e di introdurre, quindi, elementi di equità e sostenibilità della misura in questione.

Tuttavia, la nostra determinazione, unita alla ragionevolezza delle modifiche avanzate, ha portato ad accettare due Ordini del giorno al Senato (rispettivamente, n. G/685/5/10-t.2 e n. G40.100) che impegnano il Governo rispettivamente a:

  • “valutare la possibilità di adottare ogni intervento necessario volto ad estendere l’aumento della misura di cui all’articolo 40 del decreto-legge a tutti i dipendenti”.
  • “ad adottare ogni iniziativa necessaria ad interviene sull’articolo 51, comma 4, lettera b), del TUIR stabilendo che in caso di concessione di mutui a tasso fisso il criterio di valorizzazione del fringe benefit in capo ai dipendenti si assume pari al 50 per cento della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di scadenza di ciascuna rata o, per i prestiti a tasso fisso, alla data di concessione del prestito e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi”.

PROSSIME PUNTATE

Come detto, la nostra Organizzazione resterà impegnata a verificare e monitorare tutte le situazioni in cui si è determinato o possa determinarsi uno svantaggio per effetto dell’innalzamento dei tassi o di altre variabili legate ai fringe benefit che comportano un aggravio fiscale.

Ribadiremo e riproporremo nel confronto col Governo e con il Parlamento la modifica del Tuir per risolvere definitivamente il problema dell’aggravio fiscale sui mutui e i prestiti in fringe benefit.

Restiamo a disposizione per qualsiasi chiarimento e continueremo a presidiare il tema, anche in relazione al confronto con le associazioni datoriali.

Roma, 4 luglio 2023

 

La Segreteria Nazionale

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Fisac Cgil: intervenire su Fringe Benefit, salasso in busta paga per bancari

 




Nessun rinnovo per i lavoratori e le lavoratrici dell’appalto assicurativo

3 - Fisac Cgil

Nessun rinnovo per i lavoratori e le lavoratrici dell’appalto assicurativo

Le scriventi Segreterie Nazionali esprimono grande preoccupazione per le difficoltà negoziali che stanno emergendo nelle due trattative per il rinnovo del Ccnl Anagina e del Ccnl Anapa.

I due contratti, scaduti ormai da tre anni, regolamentano l’attività lavorativa di migliaia di addetti che lavorano all’interno delle Agenzie che collocano sul mercato, in via prioritaria, i prodotti insurance di tutti i Brand assicurativi.

Nonostante le due piattaforme di rinnovo presentate alle rispettive associazioni datoriali fossero negozialmente molto responsabili e volte ad instaurare una trattativa rapida per dare quelle risposte economiche necessarie ai lavoratori che in questo periodo hanno profuso uno sforzo notevole (ricordiamo che durante il periodo covid l’attività assicurativa è stata inserita tra quelle “essenziali”), le proposte di Anagina ed Anapa sono state inique dal punto di vista economico, non avvicinandosi nemmeno lontanamente al mero recupero del potere d’acquisto e volte all’indebolimento dei diritti nella parte normativa.

Questi lavoratori, pur non rientrando nel Ccnl Ania, fanno parte della filiera assicurativa e contribuiscono in modo significativo al successo, al benessere ed alla solidità dell’Azienda e del settore, solidità confermata recentemente anche dalla presidente dell’Ania durante l’Assemblea annuale.

Auspichiamo pertanto che si possa proseguire il confronto con le parti datoriali in modo rapido e fattivo al fine di addivenire ad una soluzione negoziale in linea con la tradizione di relazioni sindacali tipiche del settore e che sappia riconoscere il valore del lavoro svolto dai colleghi. In mancanza di questo saremo costretti ad intraprendere tutte le iniziative del caso, ivi compresa il richiamo alla responsabilità degli altri attori della filiera e dell’intero settore, a partire dalle principali compagnie.

Roma, 6 luglio 2023

 

Le Segreterie Nazionali
First Cisl – Fisac Cgil – FNA – Uilca




Approvata a larghissima maggioranza la Piattaforma per il rinnovo del CCNL ABI

3 - Fisac Cgil

 

Approvata a larghissima maggioranza la Piattaforma per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore Creditizio e Finanziario

Si è conclusa con il mese di giugno la presentazione, la consultazione e la votazione della Piattaforma rivendicativa unitaria per il rinnovo del Contratto Nazionale del settore Creditizio e Finanziario. Le Lavoratrici ed i Lavoratori del settore l’hanno approvata a larghissima maggioranza nel corso delle oltre 1000 assemblee organizzate e svolte in maniera capillare in tutta Italia nelle aziende e nei territori.

Questi i risultati della consultazione:

  • 99,5% di voti favorevoli
  • 0,2% di voti contrari
  • 0,3% di astensioni

Forti di questa partecipazione e di questo risultato, siamo dunque pronti a presentare ufficialmente la Piattaforma ad ABI per iniziare, da subito, il confronto negoziale sostenuti compattamente da Lavoratrici e Lavoratori del Settore che rivendicano per il nuovo CCNL il governo delle trasformazioni, adeguate retribuzioni, diritti, tutele, ed occupazione.

È su questi punti distintivi della Piattaforma unitaria che dovrà svilupparsi un confronto serio e costruttivo con ABI. Auspichiamo che ABI raccolga la sfida e che si faccia interprete delle parole spese, nel corso della sua Relazione all’Assemblea ABI del 5 luglio, dal Presidente Patuelli, che considera determinante l’impegno per il nuovo CCNL dei 280 mila Lavoratrici e Lavoratori del Credito, affinché le relazioni industriali siano “costruttive e lungimiranti”.

Si avvii al più presto il negoziato sul nuovo CCNL, non si perda tempo in inutili tatticismi e/o divisioni di principio: lo vuole un Sindacato unitario e fortemente rappresentativo, lo vogliono Lavoratrici e Lavoratori del settore, è necessario per il Paese.

Roma, 6 luglio 2023

 

I Segretari Generali

FABI Lando Maria Sileoni       FIRST CISL Riccardo Colombani       FISAC CGIL Susy Eposito       UILCA Fulvio Furlan       UNISIN Emilio Contrasto   

 




Cassazione: lecito pedinare un dipendente solo se si sospetta che commetta reati

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022, ha annullato il licenziamento di un dipendente di un’Istituto di Credito, accusato di essersi in più occasioni allontanato dal proprio ufficio durante orario di lavoro per svolgere attività (fare la spesa e andare in palestra) estranee alla prestazione lavorativa.

Il comportamento contestato era stato rilevato a seguito del pedinamento disposto a carico di un’altra dipendente del medesimo istituto, sospettata di abusare dei permessi dei quali beneficiava per l’assistenza di un familiare disabile ai sensi della L.104/92. Il pedinamento, effettuato da un’agenzia investigativa privata, non era originariamente finalizzato a controllare il comportamento del ricorrente, ma solo quello della sua collega. Tuttavia, a seguito dell’attività investigativa erano emerse le assenze che poi hanno portato al licenziamento.

La Corte ha deciso di cassare il licenziamento, smentendo l’operato dei giudici di merito, e ribadendo che l’attività di controllo sui lavoratori per mezzo di soggetti esterni è consentita solo se volta ad accertare la commissione di atti illeciti, ma non può sconfinare nella vigilanza sull’attività lavorativa vera e propria, che l’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori riserva al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.

Tradotto in termini pratici: il pedinamento di un lavoratore sospettato di utilizzo improprio della Legge 104 è legittimo, perché tale comportamento può avere rilevanza penale. Il medesimo pedinamento, se finalizzato a controllare la correttezza dell’operato di un dipendente in assenza di ipotesi di reato, non è ammissibile.
Nel caso in esame il pedinamento da parte di un’agenzia investigativa, pur se giustificato da un controllo legittimo su un’altra dipendente, ha avuto per oggetto comportamenti che il ricorrente ha tenuto durante l’espletamento dell’attività lavorativa. Quindi, pur in presenza di comportamenti censurabili, il fatto che siano stati accertati in modo ritenuto non ammissibile rende illegittimo il licenziamento.

 

Ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022

 

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La Banca Popolare di Bari cambia nome: da oggi è Banca del Mezzogiorno

Lo ha deciso il consiglio di amministrazione, optando per l’acronimo Bdmbanca, che sta per Banca del Mezzogiorno, ricalcando così la mission del Medio Credito Centrale


La Banca Popolare di Bari cambia nome. Lo ha deciso il consiglio di amministrazione, optando per l’acronimo Bdmbanca, che sta per Banca del Mezzogiorno, ricalcando così la mission del Medio Credito Centrale.

Il nuovo nome segna una cesura rispetto al passato e segna un ulteriore passo verso il ritorno al profitto di un istituto di credito che sembra aver messo ormai alle spalle i problemi del passato.

Lo scorso 12 giugno alla guida del consiglio di amministrazione era stato designato l’imprenditore pugliese Pasquale Casillo, affiancato nel nuovo cda da Simonetta Acri; Luciano Filippo Camagni; Cristiano Carrus (confermato amministratore delegato); Elena De Gennaro; Grazia Dicuonzo; Francescopaolo Ranieri. Mediocredito centrale immagina sana e trasparente la Banca popolare di Bari (anzi, la Bdmbanca) da qui al futuro, come emerge nel piano industriale per i prossimi tre anni del gruppo legato a Invitalia. Un piano che prevede la crescita di oltre 11 miliardi di euro entro il 2024, ma al tempo stesso l’accelerazione nel processo cosiddetto di derisking, vale a dire di riduzione dei crediti più a rischio arrivando a un coefficiente del 5,9 per cento, sempre nel medesimo periodo.

L’ultima parola sul cambio del nome della banca spetterà all’assemblea dei soci che si riunirà entro la fine di luglio.

 

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno