Le parole del Primo Maggio

Vorrei riflettere assieme a voi sul significato di alcune parole.

E la prima parola è “merito”.
Se dico “Bisogna mandare avanti le persone che se lo meritano”, credo che tutti siano d’accordo con me. Attenzione però, perché frasi apparentemente indiscutibili come questa possono nascondere delle trappole. Perché è così che funziona la comunicazione: quando qualcuno cerca di farci digerire qualcosa di inaccettabile, ce la infiocchetta in modo da farla sembrare altro, da farla apparire buona e giusta.
Qual è il significato che molti politici attribuiscono alla parola merito? E attenzione, perché questo non riguarda solo l’attuale maggioranza di governo, ma anche personaggi come Renzi e Calenda.
Se io sono nato in una famiglia ricca, che mi ha fatto studiare nelle scuole migliori, mi ha sostenuto per laurearmi negli Stati Uniti e appena finito gli studi mi ha dato un posto di amministratore delegato nell’azienda di famiglia, vuol dire che me lo merito. Nel nostro paese essere ricchi è un merito; dire che bisogna mandare avanti chi se lo merita diventa quindi un modo per affermare che i posti di potere sono destinati ai ricchi.

All’opposto c’è la parola “colpa”. Se sei povero è colpa tua: non hai voluto impegnarti, non hai voluto “metterti in gioco”. Qual è stato il primo provvedimento del Governo Meloni? L’abolizione del Reddito di Cittadinanza. La guerra ai poveri. E ancora una volta presentandola come un atto giusto, doveroso: la collettività non può farsi carico di chi ha scelto di non lavorare, restando sul divano alla faccia di chi gli paga il sussidio. Peccato che ascoltando le storie delle persone di chi sta ricevendo il sussidio si apprendano storie molto diverse, storie di disperazione.
Torniamo al modo in cui si usano le parole. Come chiamiamo chi non lavora? Prima erano “disoccupati”. Una parola che fa pensare a persone che non lavorano, ma vorrebbero farlo. Ora sono “occupabili”, cioè persone che non lavorano, ma potrebbero farlo. E quindi, in definitiva è colpa loro.
Questo meccanismo della colpa serve a distruggere ogni idea di solidarietà: se sei colpevole della tua situazione, perché dovrei preoccupamene? Ed è un meccanismo che funziona, quindi da utilizzare in altre situazioni. Affoghi cercando di arrivare in Italia? Colpa tua! Come ti è venuto in mente di andartene in crociera quando potevi startene tranquillo a casa tua? Ci sono guerra, fame è siccità? Colpa tua anche per quelle.
Detto per inciso, l’abolizione del reddito di cittadinanza risponde ad un’esigenza pratica: serve a creare schiere di disperati disposti a lavorare per una paga inferiore al sussidio di povertà. Sarà questo che intendono per “mettersi in gioco”?

E continuando a ragionare sulle parole, la prossima è “cultura”. Sapete che cosa ha permesso ai ai figli degli operai di non fossero costretti a fare gli operai? La possibilità di accedere ad una scuola pubblica valida, che consentisse loro di non limitarsi.  
Come spiega Alessandro Barbero, la scuola pubblica aperta a tutti fu un cambiamento davvero rivoluzionario. La possibilità per tutti di accedere al sapere, di crearsi le basi per il pensiero critico, oltre che poter ambire ad incarichi dirigenziali, non è mai stata scontata. Fino all’inizio del secolo scorso si imparava magari a leggere e scrivere, ma poi i bambini si mettevano subito al lavoro in campagna, nelle fabbriche o nelle botteghe artigianali. Quelli che andavano al liceo, o magari all’università, erano una ristretta élite, destinata ovviamente a restare tale. L’idea che una persona potesse dedicarsi esclusivamente allo studio per una parte sua vita, durante la  quale si fa carico di lui la società e la famiglia, ha prodotto un cambiamento radicale della società. Un cambiamento che, ovviamente, le élite non hanno gradito. L’attacco alla scuola, alla cultura, non sono fatti nuovi, e sono abbastanza trasversali. Ricordo, oltre 20 anni fa, la “Scuola delle tre i” di Berlusconi: informatica, inglese impresa”. Una scuola pensata per produrre venditori. Poi è arrivata l’alternanza scuola-lavoro di Renzi, e anche quella è stata accettata per il modo in cui ce l’hanno presentata: in fondo cosa c’è di male nel cominciare ad inserire i ragazzi nel mondo del lavoro? C’è di male la visione che quella scelta nasconde. La visione di una scuola in cui il tempo speso sui libri è tempo sottratto alla produzione, vero dovere di ogni cittadino. All’alternanza scuola lavoro devo riconoscere almeno una certa coerenza: i ragazzi capiscono da subito cosa significa lavorare senza essere pagati, sperimentando tutti i problemi del mondo del lavoro. Compreso quello, drammatico, delle morti causate da inosservanza delle norme sulla sicurezza.
Poi è arrivato il governo in carica, che dichiara di disprezzare i licei ed invita i ragazzi a riscoprire il piacere di lavorare la campagna, di imparare un mestiere, di frequentare le scuole professionali. Sarebbe interessante sapere quanti parlamentari mandano i figli a lavorare in campagna.
È arrivata la proposta del ”Liceo del Made in Italy”. Provo a immaginare cosa dovrebbe insegnare: “Come lavorare sottopagati e vivere felici”.
L’attacco alla cultura, allo studio, è l’arma più subdola e pericolosa di un conflitto di classe nella quale chi ha il potere vuole mantenerlo, impedendo gli altri di insidiarglielo.
Quanto al senso delle parole, la parola “cultura” assume un significato negativo se riferita a persone che puntano a studiare per migliorare la loro condizione sociale, ma diventa un valore, inteso come valore commerciale quando si trasforma in una merce, un qualcosa da vendere da parte di chi non ha neanche gli strumenti per capirla. Tanto da trasformare la Venere del Botticelli in un’influencer, e farci ridere dietro da tutto il mondo. Anzi, da tutto il globo terracqueo.

Altra parola di cui si fa un uso distorto è la parola “pace”. Anche qui, tutti vogliamo la pace, chi si dichiara a favore della guerra? E tutti pensiamo che chi è più debole debba essere aiutato a difendersi dai forti, dai prepotenti. Quindi difendere l’aggressore contro l’aggredito. Certo, questa distinzione non è sempre così netta, anche se chi ci racconta queste cose fa una differenza netta tra buoni e cattivi, che esiste solo nelle favole e mai nella realtà. E comunque non siamo stati così attenti a distinguere tra aggressore e aggredito quando siamo stati noi ad ad aggredire la Libia, la Serbia, l’Iraq…. Potremmo essere portati a pensare male, che anche in questo caso la storia di aggressore e aggredito sia il racconto di una bella storia che nasconde altri interessi, ma non divaghiamo.
Tutti vogliamo la pace, anche se personalmente faccio fatica a capire come si possa ottenere la pace che si dovrebbe ottenere esportando carri armati e missili in uno scenario guerra.
Per fortuna è una guerra che non stiamo vivendo in modo diretto, ma anche in Italia esistono persone che la combattono, e subiscono perdite. Mi riferisco alle lavoratrici e ai lavoratori.
Se ci pensate, la guerra ha fruttato grosse occasioni di guadagno ad alcune grandi aziende. Pensiamo ai rincari stratosferici di gas e petrolio, che poi si sono rivelati più speculativi che dovuti ad una reale carenza. Pensiamo al rialzo improvviso dei tassi, che ha permesso alle banche di ottenere utili a 9 zeri. Pensiamo a tutte le attività che hanno gonfiato prezzi ed incassi, spesso in modo non giustificato. E poi pensiamo agli stipendi che sono rimasti uguali.
Solita frase ad effetto del Governo: “bisogna arrestare la spirale inflazionistica”. Bravi, giusto. E come si fa? Si cerca di arginare gli aumenti speculativi? No: bisogna fare in modo che gli stipendi non crescano. Cioè, alla fine della storia la colpa dell’aumento dell’inflazione è di quegli avidi dei lavoratori, che pretendono di continuare a mangiare tutti i giorni, e magari di scaldarsi pure.

Sono tutti fatti dei quali non abbiamo forse percepito appieno la gravità. Ce li hanno fatti digerire come giusti, inevitabili, e intanto la differenza tra i pochi che hanno tanto e i tanti che hanno poco aumenta.

Perché l’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro? Perché per parlare di democrazia, di diritti, bisogna prima di tutto essere liberi. Come può considerarsi libera una persona che lavora tutto il giorno per percepire uno stipendio inadeguato, e se si ammala deve scegliere tra fare la spesa e curarsi? Come si può definire libero chi non può comprarsi una casa, perché oggi lavora e tra tre mesi chissà? Per questo il lavoro è un valore fondante: perché è il mezzo che permette di essere liberi, di realizzarsi come persona. E questa è l’ultima delle parole che voglio analizzare con voi. La parola “Lavoro”.  Alla quale evidentemente la Costituzione attribuiva un valore estremamente diverso da quello che in tanti vivono sulla loro pelle ogni giorno.

Intervento di Luca Copersini, Segretario Generale Fisac Abruzzo Molise alla celebrazione del Primo Maggio a Paganica (AQ)



Il significato del Primo Maggio

Intervento di Luca Copersini, Segretario Provinciale Fisac L’Aquila, alla manifestazione del Primo Maggio svoltasi a Paganica (AQ)

E’ un onore per me oggi rappresentare la CGIL in questa importante giornata del Primo Maggio.

Sono un segretario di categoria. Rappresento dei lavoratori, i bancari, che fino a qualche anno fa sembravano immuni rispetto ai problemi che affliggono il mondo del lavoro; poi anche loro hanno cominciato a fare i conti con chiusure di sedi, tagli del personale, mobbing, demansionamenti… Benvenuti nel fantastico mondo del lavoro!
Ma intorno a noi le cose vanno ancora peggio.

Ho preso spunto dalle notizie che abbiamo letto o sentito negli ultimi tempi per fare un quadro della realtà.

E il primo spunto da cui voglio partire è Renatino.

Non so se ricordate, qualche mese fa, un’orribile pubblicità del Parmigiano Reggiano. Protagonista dello spot era questo ragazzone, Renatino, che raccontava la sua vita. Un racconto semplicissimo: 365 giorni l’anno passati nello stabilimento produttivo, senza aver mai preso un giorno di vacanza. Senza aver mai visto il mare. E’ passato un po’ di tempo, ma ho voluto ricordare questo spot per il forte valore simbolico: secondo una visione sempre più diffusa, il lavoratore perfetto è quello che rinuncia del tutto ad avere una vita sua, che non chiede nulla, che desidera soltanto fare in modo che il suo datore di lavoro guadagni. Così, almeno lui, al mare ci potrà andare…
Ovviamente quello non è il mondo reale; quella è una pubblicità. Nel mondo reale queste cose non succedono. Nel mondo reale succedono cose più normali. O meglio, succedono cose che abbiamo imparato a considerare normali.

Nel mondo reale succede che una dipendente della sede Amazon di Torino venga sospesa dal lavoro per essere rimasta troppo a lungo nel bagno. La sanzione è stata annullata dal giudice del lavoro (grazie alla CGIL) ma il messaggio è stato recapitato: il vostro tempo appartiene all’azienda.
E in effetti è normale che sia così, come è normale che chi effettua le consegne per conto di quell’azienda si porti nel furgone una bottiglietta di plastica nella quale fare i bisogni senza perdere tempo.

Nel mondo reale succede quello che è accaduto in un supermercato di Pescara, dove le dipendenti sono state minacciate, sentendosi intimare dalla titolare (tra l’altro, una donna) “Ditemi chi di voi ha il ciclo, altrimenti vi controllo personalmente le mutandine”. Aggiungendo la minaccia di non rinnovare i contratti in scadenza se non fosse saltata fuori la colpevole. Colpevole di aver gettato un assorbente nel cestino sbagliato. Anche in questo caso la CGIL è intervenuta, tanto che la Conad ritirerà probabilmente l’affiliazione al supermercato.
Eppure è normale che il datore di lavoro, visto che paga le sue dipendenti, possa avere il diritto di disporne come crede, fino ad infilargli le mani nelle mutandine.

Nel mondo reale succede che chef stellati o imprenditori affermati attacchino i giovani accusandoli di essere sfaticati, visto che non sono disposti a lavorare gratis o ad accettare gli stipendi che loro vorrebbero pagare, inferiori ad un sussidio di povertà.
E in effetti, è normale: cominci a lavorare, non conosci il lavoro, ti viene data la possibilità di imparare. Non dico che dovresti pagare, ma almeno lavorare gratis

Si potrebbero fare tanti altri esempi, ma la sostanza è che di normale, in tutte queste situazioni, non c’è proprio nulla!
Si sta purtroppo affermando una visione del mondo del lavoro per cui il lavoratore debba essere grato a chi gli permette di lavorare. Una visione del mondo per cui lo stipendio non è la contropartita per la sua prestazione, ma una sorta di elemosina, che generosamente gli viene elargita. E guardando in prospettiva, c’è poco da essere ottimisti. C’è l’illusione per il capitale di arrivare a riprodursi in modo autonomo, senza necessità di condividerne con nessuno i frutti.

Mi spiego con un esempio.

Pensiamo ad una fabbrica di scarpe. Nella fabbrica entra il materiale: qualche pezzo di cuoio, un po’ di gomma, per un valore di qualche euro. Quello che esce fuori è un paio di scarpe, che viene venduto a 100-150 euro. E’ evidente che c’è stato un notevole aumento di valore, ma cos’ha prodotto questo aumento? E’ stato il lavoro degli operai, che hanno saputo creare un oggetto che vale molto di più della somma delle sue parti. In un sistema economico sano, questo aumento di valore va giustamente a premiare l’imprenditore, ma una parte va a riconoscere l’importante opera del lavoratore, ricompensandolo in modo adeguato. Quando l’imprenditore vuole tenere per sé una quota troppo alta di questo aumento di valore, retribuendo in modo non adeguato i lavoratori, parliamo di sfruttamento.

Oggi il sogno del capitale è andare oltre lo sfruttamento. Il sogno è eliminare del tutto l’apporto dei lavoratori. Tornando alla nostra fabbrica di scarpe, il sogno del proprietario sarebbe una catena produttiva fatta esclusivamente di macchine. Così si potrebbero produrre scarpe ad un prezzo nettamente inferiore… salvo poi scoprire che nessuno le può comprare. Perché se il processo produttivo riesce ad eliminare del tutto le persone, chi ce li ha i soldi per comprare ciò che viene prodotto?
Basterebbe un minimo di buon senso per capire che l’idea di economia che si sta affermando nel mondo non può portare da nessuna parte.

Quando fu scritta la nostra Costituzione, nell’articolo 1 i membri dell’Assemblea Costituente vollero inserire le famose parole “fondata sul lavoro”. Le abbiamo sentite tante volte, ma ci siamo mai soffermati a riflettere su queste parole? Perché ritenevano che il lavoro fosse importante a tal punto da costituire l’elemento fondante della Repubblica?
Perché il lavoro dà dignità alle persone. Le rende autonome, libere, non le obbliga a dipendere dall’elemosina di un sussidio calato dall’alto, perché in quel caso sì che dovrebbero sottostare a tutti i capricci di chi glielo elargisce . Consente di realizzarsi, di sentirsi utili per sé e per gli altri.
Il lavoro dà dignità. E di questo, i Costituenti erano talmente convinti da scrivere, nell’art. 36, qualcosa che oggi appare assolutamente rivoluzionario: chi lavora ha diritto ad una retribuzione adeguata. Ha diritto a trarre dal suo lavoro quanto basta per vivere in modo libero e dignitoso, ed assicurare lo stesso alla sua famiglia.

Tutto questo andatelo a raccontare a un giovane laureato, costretto a sopravvivere con  lavoretti estemporanei e sottopagati, senza  poterci neanche pensare a creare una famiglia o a comprarsi una casa. Dove sta la libertà di quella persona?

Cosa c’è di dignitoso in un mondo del lavoro che discrimina le donne, costringendole ad accettare retribuzioni più basse in media del 30%, limitando le loro prospettive di carriera, considerando che oltre due dirigenti su tre sono uomini? E’ un retaggio del passato? Non direi, visto che i posti di lavoro persi a causa della pandemia erano, per il 75%, occupati da donne.

Come si può parlare di libertà quando tanti lavoratori sono costretti ad operare in condizioni di pericolo pur di riportare a casa il necessario per la sopravvivenza? Viviamo in un paese in cui ogni giorno mediamente 2 persone escono per andare a lavorare e non tornano più a casa. E ogni volta sentiamo parlare di tragiche fatalità, salvo poi scoprire, come nel caso di Luana D’Orazio, morta a 22 anni perché risucchiata da un macchinario di un’industria tessile, che i dispositivi di sicurezza erano stati disattivati per poter produrre qualche pezzo in più.

Quanto vale una vita umana?

E parlando del valore della vita umana, non si può non fare un riferimento alla guerra che sta infiammando l’Europa in questi giorni. Una guerra alla quale l’Italia sta partecipando attivamente, seppur in modo indiretto. Una guerra sulla quale ho una sola certezza: che è scoppiata a causa dell’aggressione russa ad uno stato confinante, l’Ucraina. Ma poi ho tanti dubbi, tante domande.
Perché l’invio delle armi non è stato mai discusso dal Parlamento? Che tipo di armi stiamo inviando, visto che su questo è stato posto il segreto di Stato? Qual é l’obiettivo che ci prefiggiamo? Ascoltando le ultime dichiarazioni di Biden e Johnson, sembrerebbe che l’occidente stia combattendo una guerra “per procura” contro la Russia. Una guerra nella quale abbiamo delegato gli Ucraini a morire per conto nostro. Perché nessuno sta lavorando per la pace, visto che tutto ciò che viene fatto o detto sembra mirare ad allungare ed espandere la guerra?
Di certezza ne ho un’altra: stiamo giocando con il fuoco. Ed è indispensabile cambiare rotta, prima che sia troppo tardi.

Ho parlato solo di cose brutte, quindi vorrei concludere il mio intervento con un segnale positivo. e per farlo cito un’ultima notizia.

Lo scorso anno lo studio legale LabLaw di Milano è stato premiato come miglior studio legale d’Italia. Il suo merito? Aver assistito la GKN di Campi Bisenzio nel licenziamento di 430 lavoratori. E qui farei una riflessione sul fatto che stravolgere la vita di tante persone, mettere sul lastrico 430 famiglie, diventi un trofeo da esibire. Però qualcuno non si è arreso. Non si è arresa la FIOM di Firenze, che pur avendo di fronte il miglior studio legale d’Italia, ha portato l’azienda in tribunale, riuscendo a far annullare i licenziamenti.

E’ esempio che ci spinge a non rassegnarci, come quelli citati in precedenza. Resistere – perché anche questa è una forma di resistenza – a un mondo nel quale le persone valgono sempre meno è difficile, e spesso i risultati che riusciamo a portare a casa sono spesso minori di quelli che vorremmo. Ma se smettiamo di crederci e di impegnarci, quel poco che riusciamo ad ottenere non lo otterrà più nessuno.

Alla fine è questo il valore del Primo Maggio: ricordarci che dobbiamo continuare a lottare. Perché di arrenderci non ce lo possiamo permettere.