Extraprofitti, la tassa flop: “dalle banche neache un euro”

“Al momento non risultano essere pervenuti versamenti”. L’ammissione alla Camera


 

“Una tassazione su margini ingiusti”, copyright della premier Giorgia Meloni, 7 agosto 2023. Nello stesso giorno, una “misura di equità sociale”, secondo il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini. Poi, il 13 settembre 2023, “se ci sono correttivi da fare, si possono valutare tranquillamente. Ma non intendo fare marcia indietro”, sempre Giorgia Meloni. Parliamo della tassa sugli extraprofitti delle banche, sventolata in lungo e in largo dal governo alla fine dell’estate scorsa. Ieri, infine, l’ammissione della resa dell’esecutivo agli istituti di credito: “Al momento non risultano essere pervenuti versamenti” per la tassa sugli extraprofitti bancari, “esattamente come previsto dalla relazione tecnica”, ha detto il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti rispondendo al question time alla Camera. È l’ammissione finale, il suggello a una vicenda kafkiana ma ormai nota: grazie alla scappatoia concessa alle banche in sede di conversione del decreto, nessun istituto di credito ha versato nulla, limitandosi – come previsto – a stanziare a patrimonio due volte e mezzo l’ammontare della tassa. Il prelievo avrebbe dovuto fruttare 3 miliardi e 248 milioni ma non l’ha pagato nessuno, nemmeno Mps e Mcc che pure sono banche controllate dallo Stato.

“Ricordo che a bilancio non è mai stata iscritta alcuna somma connessa all’attuazione di tale disposizione, sia nel testo originale sia in quello novellato, come del resto già previsto nella relazione tecnica allegata alla disposizione”, ha spiegato Giorgetti. “In sede di conversione, al fine di rafforzare la struttura patrimoniale degli istituti di credito, è stata introdotta la facoltà di non versare l’imposta, destinando un importo non inferiore a due volte e mezza l’imposta dovuta a una riserva ‘non distribuibile’. Il rafforzamento patrimoniale delle banche ha contribuito a mantenere o migliorare i livelli di rating e ciò ha costituito uno dei fattori che hanno contribuito alla riduzione dello spread registrato dal nostro Paese negli ultimi mesi e, quindi, un risparmio in relazione agli interessi passivi”, ha affermato il ministro.

Sarà. Ma il 13 settembre, in sede di conversione del decreto che conteneva la norma, Giorgia Meloni aveva detto l’esatto opposto: “Tutte le modifiche si possono fare, a parità di gettito. La misura che abbiamo previsto nell’importo deve rimanere uguale”.
Dunque la manovra a tenaglia della lobby bancaria contro l’imposta è andata perfettamente a segno. A guidarla era stata Forza Italia, che aveva esercitato forti pressioni sul governo per ridurre il prelievo che avrebbe colpito, in particolare, Banca Mediolanum, partecipata dalla famiglia Berlusconi. Alla faccia delle dichiarazioni roboanti di Giorgia Meloni.

E sì che nel 2023 i principali gruppi creditizi italiani quotati in Borsa sono riusciti a mettere a segno utili d’oro, per un totale di 21,5 miliardi, grazie agli extraprofitti ottenuti sui depositi dei clienti grazie al rialzo del costo del denaro deciso dalla Bce. Una remunerazione che le banche hanno distribuito agli azionisti sotto forma di dividendi e buyback, mentre il rendimento (lordo) dei conti correnti è rimasto allo 0,2%.
Utili stellari che sono stati confermati anche nel primo trimestre di quest’anno, in attesa di un taglio dei tassi che la Bce non ha ancora deciso. Tra il primo gennaio e il 31 marzo scorso, i primi cinque gruppi creditizi quotati a Piazza Affari secondo una analisi del sindacato Fabi hanno fatto segnare utili trimestrali complessivi per oltre 6 miliardi di euro, in forte crescita sullo stesso periodo del 2023. Nel frattempo, Intesa Sanpaolo ha però fissato la remunerazione dei conti correnti dei senatori al 5,6%, 28 volte quella dei clienti comuni.

Altro che la tassa sugli extraprofitti.

 

Articolo di Nicola Borzi sul fatto Quotidiano del 9/5/2024




Banche: 28 miliardi di utili. Chi si spartisce il malloppo e il peso sulle famiglie

I numeri arrivano dai comunicati delle principali banche italiane quotate: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, Mediobanca, Popolare di Sondrio e Credem hanno registrato nel corso del 2023 utili per 23 mld che salgono a circa 28 mld se si aggiungono i 1,85 mld di Iccrea e i 0,55 mld di Cassa Centrale Banca, i 1,3 mld della controllata bancaria italiana del Crédit Agricole e i 0,93 mld della Bnl, controllata bancaria italiana del gruppo Paribas.
Un boom di utili con un valore ben superiore (+ 87%) al già significativo risultato di 15 mld conseguito nel 2022. Visto l’impatto che questo settore ha sulla vita di tantissimi privati e imprese, con l’aiuto di Arturo Capasso (professore di Corporate Finance alla Luiss) e dell’ex dirigente bancario Francesco Tuccari, proviamo a capire come si è formato questo enorme profitto e chi sono i reali beneficiari.

Dove guadagnano le banche

Le banche guadagnano principalmente attraverso tre diverse attività. La prima è quella di intermediazione di denaro: riconoscono un interesse fisso a chi deposita soldi (interessi passivi) e fanno pagare a chi chiede prestiti un tasso base di riferimento (l’Euribor per i finanziamenti a tasso variabile e l’Irs per quelli a tasso fisso) a cui aggiungono un «sovraprezzo» che varia in misura direttamente proporzionale alla «rischiosità» dei soggetti finanziati (questi si chiamano interessi attivi). La differenza fra gli uni e gli altri è il «margine d’interesse».
La seconda attività riguarda le commissioni che incassano ogni qualvolta effettuano per conto del cliente il pagamento di una utenza, l’incasso di un assegno, dispongono un bonifico, spediscono l’estratto conto, sul prelievo di contante col bancomat, sulla gestione del conto corrente e sulla vendita dei prodotti finanziari (sui quali si fanno pagare i costi più alti d’Europa approfittando dell’ignoranza dei clienti).
La terza attività sono gli investimenti finanziari, dai quali le banche possono conseguire un utile o una perdita («Proventi finanziari»).

Mentre nel biennio 2020 -2021 il peso delle commissioni e dei proventi finanziari costituiva il 56% del totale dei ricavi, nel 2022-2023 è il «margine di interesse» a raggiungere la componente di maggior valore: quasi il 60%.

Cosa è successo?

Dalla sua costituzione la Bce ha posto fra i suoi obiettivi un livello di inflazione al 2%, considerato come il migliore per assicurare una crescita economica stimolante ma non drogata dall’andamento dei prezzi. A inizio 2022, dopo due anni di pandemia e a seguito dell’invasione dell’Ucraina con i rincari dell’energia, i prezzi sono esplosi.
Per contenerli, nel mese di luglio del 2022, la Bce ha innalzato il tasso di riferimento e, con 10 interventi successivi, lo ha portato nell’arco di soli 14 mesi dallo 0,5% al 4,50%. Il sistema bancario italiano ha applicato immediatamente questi rialzi, ma rivedendo solo i tassi applicati sui finanziamenti passati, fra il 2022 e il 2023, dal 2,13% al 4,76%. Gli interessi invece riconosciuti ai depositanti sono rimasti pressoché fermi fra lo 0,20 e lo 0,53%. Dai dati Abi solo nell’ultimo trimestre 2023 si è arrivati all’1,16%, si tratta però di una media ponderata che include anche gli interessi sui depositi vincolati e sulle obbligazioni bancarie. Va detto che ancora oggi molte grandi banche applicano sui deposti a vista lo 0,01%.

Eppure il comma 4 dell’art 118 della Legge bancaria dice espressamente: «Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente». La vigilanza non ha battuto ciglio. Forse perché il sistema bancario deve fronteggiare maggiori costi di funzionamento, e le esposizioni verso clienti che non sono in grado di rimborsare i loro debiti? I dati dimostrano che sia i primi che i secondi sono in calo.

 

Riduzione di sportelli e personale

Partiamo dai costi operativi: fra il 2013 e il 2023 le banche hanno ridotto del 37% il numero dei loro sportelli e di circa il 20% il numero dei loro dipendenti, passati da 310 mila a 261 mila. Solo negli ultimi due anni è stata registrata la chiusura di oltre 1.500 filiali: una media di due al giorno, con la conseguente contrazione degli organici. 50 mila impiegati mandati a casa in dieci anni. Secondo una stima delle Organizzazioni sindacali di settore, per il 2027 si prevede una riduzione di personale tra le 12 mila e le 14 mila unità.
Tradotto in termini di impatto sulla popolazione: ben 4,4 milioni di persone (il 7,5%) risiedono in comuni in cui non possono accedere fisicamente ai servizi bancari. Alla chiusura delle filiali fisiche e alla riduzione del personale non ha poi corrisposto la crescita dell’internet banking, in Italia utilizzato dal 51,5% della popolazione contro una media europea dl 64%. Per quel che riguarda i costi sofferti dalla industria bancaria, i cosiddetti crediti problematici sul totale dei crediti bancari, l’Npl Ratio lordo delle banche italiane nel 2023 è sceso al 3,1%, un livello di gran lunga inferiore alla soglia di sicurezza del 5% definita dall’Eba (l’Autorità di vigilanza bancaria europea). Ciò è avvenuto anche grazie alla cessione ai Fondi specializzati di circa 280 miliardi di crediti deteriorati. Tornando invece all’enorme incremento dei proventi, quale impatto ha avuto sulle famiglie?

 

Il peso sui mutui delle famiglie

In Italia a fine 2023, sulla base di dati elaborati da Bankitalia, circa 2,8 milioni di famiglie risultavano avere in essere un mutuo per acquisto casa a tasso fisso, mentre circa 1,6 milioni a tasso variabile. Secondo la stessa elaborazione, nel 2021 – ultimo anno per il quale si dispone di dati a livello territoriale – i mutui pesano sul reddito disponibile per circa il 32%. Il governatore della Banca d’Italia, in un suo recente intervento (Assiom Forex del 10 febbraio 2024), ha ricordato che nell’ultimo biennio l’aumento dei tassi applicati sui mutui a tasso variabile ha determinato una crescita della rata mensile del 50%, passata mediamente da 500 a 750 euro. Se si considera che nel nostro Paese lo stipendio netto medio di un dipendente oscilla fra i 1.400 ed i 1.600 euro (Istat 2023), il solo aumento della rata pesa per un ulteriore 17% sul reddito disponile, già eroso da un’inflazione all’8,1% nel 2022 e al 5,7% nel 2023. Un’altra conseguenza dell’innalzamento dei tassi dei finanziamenti è un calo del 9,8% nell’ultimo anno nell‘erogazione di nuovi mutui alle famiglie per l’acquisto della casa. Non a caso le compravendite di immobili su base annua si è ridotta del 16% (rilevazione Istat).

La tassa sugli extra-profitti

Lo straordinario incremento degli utili delle banche, dunque, non è dovuto a una crescita della loro efficienza e, per questo, è stato definito «extraprofitto». Il governo lo scorso agosto ha annunciato l’applicazione di una imposta straordinaria del 40% su quella parte del «margine di interesse» che va oltre il 10% in più della stessa voce relativa all’esercizio 2021. L’incasso previsto per le casse dello Stato era stimato in circa 3/4 miliardi, da destinare a misure di sostegno per i mutui delle famiglie in difficoltà, al rifinanziamento del fondo mutui prima casa giovani a tasso variabile e a un contributo per la riduzione delle tasse per famiglie e imprese. Le banche sono insorte e, in sede di approvazione definitiva della legge di Bilancio 2024, il governo ha concesso un’alternativa: se non volete dare questi soldi allo Stato potete metterli nella vostra cassaforte per rafforzare il patrimonio per un ammontare pari fino a 2,5 volte il prelievo calcolato. Le banche hanno aderito in massa. Va detto che oggi presentano livelli di patrimonializzazione ampiamente al di sopra dei requisiti minimi di vigilanza richiesti dal regolatore europeo.

Chi si spartisce il malloppo

Tirando le somme: i debitori hanno visto innalzare il costo del loro debito, i depositanti non hanno visto crescere i loro interessi se non nell’ultimo trimestre, in misura minima e solo su insistenza del cliente. I reali beneficiari della maggiore redditività delle banche sono gli azionisti che si divideranno il 60% di quei 28 miliardi, ovvero i grandi fondi d’investimento internazionali: BlackRock, Vanguard, Capital Group, Dimensional Fund Advisors, ma anche Allianz, Crédit Agricole, JP Morgan ecc. Dividendi accresciuti anche da una maggiore valorizzazione dei titoli azionari posseduti, visto che quasi tutte le maggiori banche hanno fatto grandi acquisti di azioni proprie, aumentandone pertanto il valore, che viene trasferito dagli stakeholder agli shareholder, con buona pace di tutte le teorie di «responsabilità sociale d’impresa». L’attività bancaria, va precisato, non è un’attività come le altre e per questo ha un trattamento particolare: quando si configurano danni collettivi interviene lo Stato. Infatti la collettività è andata in soccorso di Montepaschi, Veneto Banca, Popolare di Vicenza e di tutte le altre finite il liquidazione.
Ora che il sistema bancario vive un periodo di vacche grasse, con il benestare dello Stato, alla collettività restituisce nulla.

 

 




La dichiarazione di guerra è stata consegnata: ai poveri

La dichiarazione di guerra è stata consegnata nelle mani di alcuni milioni di italiani, quelli poveri, che si ostinano a esserlo e a rimanerlo, nonostante i proclami del clan famigliare al governo e le magnifiche sorti del Paese illustrate ogni sera dai cinegiornali Luce, un tempo detti Tg. Una sistematica opera di bonifica ai danni di una parte non esigua della popolazione, quella che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, quella che – anche lavorando – si ritrova ai confini della soglia di povertà, o addirittura sotto. Tolto il reddito di cittadinanza a un milione di famiglie (a 400.000 via sms), dopo una campagna stampa trasversale durata anni tesa a descrivere ogni meno abbiente del Paese come un bieco truffatore, le famiglie con un sussidio sono oggi 288 mila, ma il sussidio sono due carote e un pomodoro, e per averlo bisogna avere un Isee di tipo sahariano: 6.000 euro all’anno, che in una città come Milano, per dire, non ti bastano nemmeno per andare alla Caritas in tram.

Alcuni – fortunelli – hanno ricevuto da Yo soy Giorgia una carta alimentare, una moderna carta annonaria, da 382,5 euro all’anno (1,04 euro al giorno, non scialate). Insomma, chi non ce la faceva, o ce la faceva a malapena con grande fatica, è stato prima preso a ceffoni dai giornali (i famosi fannulloni sul divano) e poi direttamente affamato dal governo. Chi ha fatto i conti stima più o meno un risparmio di 4 miliardi per i tagli al reddito e un esborso di mezzo miliardo per il caritatevole obolo di un euro al giorno, che fa un risparmio secco di 3 miliardi e mezzo: non volendo prenderli dagli extraprofitti delle banche – sacrilegio! – li si prende dagli extrasfigati, componente sociale in continuo aumento.

Naturalmente finché c’è la salute c’è tutto, e se la salute non c’è, cazzi vostri. Se ti serve un esame urgente o una cura veloce e non puoi aspettare un anno, e non puoi pagarti una sanità privata (tipo quella che possiedono i giornali che sostengono vibratamente Yo soy Giorgia) che ti devo dire, pazienza, verremo al funerale. Alla sanità sono finiti 3 miliardi, che andranno quasi tutti in contratti del personale, e undici italiani su cento rinunciano a curarsi per mancanza di soldi.
Il grande vanto e ostentazione della famiglia (sur)reale di Chigi Palace per la valanga di soldi destinati agli anziani è tragicomico. Un po’ perché si sventolano soldi che già arrivavano, e un po’ perché la platea è composta da ultraottantenni non autosufficienti, gravissimi, con un Isee inferiore a 6.000 euro: meno di trentamila persone nel 2025 e meno di ventimila nel 2026 (la strategia è puntare sulle esequie, insomma).

Però, per fortuna, si aiutano le donne. Oddio, non esageriamo. Forse era una buona idea quella della decontribuzione (fino a 3.000 euro lordi) per le donne che lavorano, poi però ecco la sorpresa: vale solo per le donne che hanno tre figli (tre!) e che siano lavoratrici assunte regolarmente a tempo indeterminato, nell’ecosistema italiano, animali piuttosto rari. Se vuoi lo sconto sui contributi – ma solo per un anno – devi avere almeno due figli, se no, zero. È una variante dei fannulloni sul divano: solo che qui si consiglia di stare sul divano a figliare. Tra l’altro, se hai un bambino solo, ti paghi l’asilo, perché per avere un contributo, di figli devi averne almeno due, se no zero pure qui.

Questo è il contenuto della dichiarazione di guerra. Come andava di moda dire, c’è un aggressore e un aggredito, che nei cinegiornali della sera non si vede mai.

 

Articolo di Alessandro Robecchi sul Fatto Quotidiano del 7/2/2024




ISP festeggia i migliori 9 mesi di sempre. Ma neanche un euro allo Stato per gli extraprofitti

Intesa Sanpaolo ha chiuso i primi 9 mesi del 2023 con il miglior risultato della sua storia, profitti per 6,1 miliardi. La prima banca italiana si attende di chiudere l’anno con utili per almeno 7,5 miliardi, eppure dalla tassa sugli extraprofitti non arriverà allo Stato neppure un euro.

Come Unicredit, anche Intesa Sanpaolo ha deciso di destinare la somma al rafforzamento del suo stesso patrimonio, un’opzione prevista dall’ultima versione dell’imposta che, di fatto, la cancella. In compenso la banca distribuirà ai suoi azionisti 2,6 miliardi di euro sotto forma di dividendi. Cosa ha consentito al gruppo guidato da Carlo Messina di conseguire risultati così brillanti? Una cosa sola: i maggiori introiti garantiti dall’aumento dei tassi decisi dalla Banca Centrale Europea.

La voce di bilancio “interessi netti” sale infatti del 65% rispetto ai primi nove mesi del 2022 superando i 10,6 miliardi di euro. Si tratta della differenza tra i soldi che la banca incassa dagli interessi sui prestiti erogati a famiglie ed imprese e quelli che paga ai depositanti. I primi sono saliti per effetto delle decisioni della Bce, i secondi sono rimasti pressoché al palo. L’altra grande voce del conto economico, ossia le commissioni, registra un calo del 3,7% a 6,4 miliardi. I proventi dall’attività di negoziazione titoli crollano del 72% a 382 milioni. Nel complesso i proventi operativi salgono così del 19% a 18,7 miliardi. Lieve aumento (+ 0,7%) per i costi che superano i 7,8 miliardi.

“Abbiamo ottenuto dei risultati di altissima qualità. Abbiamo conseguito i migliori nove mesi di sempre, con 6,1 miliardi di risultato netto. Questo ci consente di migliorare la nostra guidance”, ha detto l’amministratore delegato Carlo Messina. Il manager ha aggiunto che la banca ha “chiaramente capitale in eccesso e distribuzioni addizionali agli azionisti saranno valutate anno per anno. È chiaro – ha aggiunto – che siamo nella posizione di distribuire parte del capitale in eccesso. Ho detto al consiglio di amministrazione che la mia intenzione è di procedere con buyback e che quindi questa è la proposta che proporrò quando approveremo i conti di fine anno”. Musica per le orecchie degli investitori che stanno premiando gli annunci con un rialzo del titolo in borsa dell’1,6%.

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

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Tassa sugli extraprofitti, alle banche la scelta se pagarla oppure no




Tassa sugli extraprofitti, alle banche la scelta se pagarla oppure no

La retromarcia del governo. L’escamotage: gli istituti potranno versare oppure stanziare una riserva nel proprio patrimonio


Un accordo nella maggioranza “svuota” la tassa sugli extraprofitti delle banche. Grazie un emendamento al decreto Asset che dovrebbe essere depositato nelle prossime ore, gli istituti di credito potranno scegliere se pagare al Fisco un’aliquota del 40% sulla differenza tra il margine di interesse realizzato nel bilancio 2023 (ancora da chiudere) rispetto al 2021, oppure se accantonare a bilancio due volte e mezza l’importo della tassa in una riserva che andrà a rafforzare il loro patrimonio.

Nessuno, nemmeno il governo, indica quale sarà la variazione dell’incasso per l’Erario, ma secondo alcuni sarà assai lontano dai 3,2 miliardi ipotizzati dalla vecchia norma.
L’8 agosto la tassa aveva fatto rumoreggiare i giornali (debitori delle banche). I titoli parlavano di “stangata” (copyright del Messaggero) o “autogol del governo” (Corriere della Sera). Si teorizzava la possibile fuga dai titoli di Stato italiani e altre catastrofi. Ma Meloni sembrava inflessibile: nell’appuntamento social “Gli appunti di Giorgia”, il 9 agosto la premier aveva attaccato il sistema bancario: “Stiamo registrando utili record. Abbiamo deciso di intervenire introducendo una tassazione del 40% sulla differenza ingiusta del margine di interesse. Le risorse che arriveranno andranno a finanziare misure a sostegno di famiglie e imprese in difficoltà per l’alto costo del denaro”. Poi Forza Italia aveva sollevato molti distinguo ed erano piovute critiche da Associazione bancaria (Abi) e Bce. Le azioni delle banche, dopo un primo tonfo, avevano però recuperato, segno che nemmeno la Borsa credeva in una mazzata.

Ora, in base alle ipotesi contenute nell’emendamento, proprio Corriere e Messaggero annunciano la retromarcia. L’aliquota resta al 40% ma solo sulla quota del margine di interessi 2023 che supererà di almeno il 10% quello del 2021. Il margine 2022 viene tolto dal conto. Da questo punto di vista, in apparenza, tutto bene: la tassa sarà pagata sulla base di quanto le banche hanno guadagnato in più rispetto a due anni fa. Dalla base di calcolo saranno esclusi i titoli di Stato, ma l’aliquota sarà alzata sulle altre voci di bilancio (i prestiti ai privati) per tenere invariata la base imponibile. Ma qui arriva l’escamotage: la tassa non è obbligatoria, le banche potranno pagarla o accantonarla a riserva. Sarà dovuta solo se la riserva in seguito dovesse essere distribuita agli azionisti. Ci sono poi altre possibilità: una banca potrebbe scegliere di dirottare a riserva per la tassa per gli extraprofitti parte dei fondi già stanziati in passato per altre voci, ad esempio gli utili non distribuiti, ammortizzando così il colpo. L’unico divieto è di trasferire la tassa sui costi per i clienti: vigilerà l’Antitrust. Il governo vuole usare i proventi per rifinanziare gli aiuti ai mutui prima casa, il taglio della pressione fiscale e il fondo di garanzia del Mediocredito Centrale sui prestiti alle Pmi.

L’emendamento favorirebbe soprattutto le banche medio-piccole, Popolari e istituti di credito cooperativo, e quelle come Mediolanum che fanno pochi prestiti ai privati, più colpite dalla versione precedente. Ora gli istituti hanno tre mesi per decidere se pagare o rafforzare i bilanci. Le riserve non mancano: a fine giugno, ad esempio, Banca Mediolanum (cara alla famiglia Berlusconi che ne possiede il 30%) ne aveva per 2 miliardi, UniCredit per 38,35. Valori in crescita grazie al boom del margine di interesse, la forbice che i rialzi del costo del denaro decisi dalla Bce hanno allargato tra gli incassi sui prestiti e i tassi, quasi nulli, pagati ai clienti. Mediolanum a fine 2022 aveva un margine d’interesse di 407 milioni (+50% sul 2021), UniCredit di 10,7 miliardi (9 l’anno prima). L’anno scorso le prime cinque banche italiane hanno incassato margini di interesse per 45,52 miliardi (+18,5%), a metà di quest’anno già per 40. Secondo il sindacato di settore Fabi, nel 2022, le banche italiane hanno realizzato utili per 25,4 miliardi (+55% sul 2021), quest’anno potrebbero salire a 32.

A frenare la decisione di versare a riserva la somma prevista dalla tassa sugli extraprofitti c’è solo la questione del pagamento dei dividendi. La banca meno impattata di tutte dalla tassa, UniCredit, pochi giorni fa aveva annunciato che quest’anno distribuirà agli azionisti “almeno 6,5 miliardi” su 7,25 di utili attesi. Ma altre potrebbero dover rivedere i loro piani. In ogni caso, del vessillo “tassa sugli extraprofitti” a Meloni restano da sventolare solo gli stracci.

 

Articolo di Nicola Borzi su Il Fatto Quotidiano del 24/9/2023




Cgil: ora la tassa sugli extraprofitti va estesa

Passo indietro del governo sulla norma più volte richiesta dal sindacato che chiede di usare le risorse per lavoro, salari, sanità e servizi pubblici


 

Passo indietro del governo”, così la Cgil nazionale definisce il provvedimento sugli extraprofitti varato dall’ultimo Consiglio dei ministri, aggiungendo che la norma non può essere però limitata alle sole banche, utilizzando poi le risorse per sostenere lavoro, salari e welfare pubblico.

Allora si può fare: è possibile tassare gli extraprofitti, come la Cgil richiede da tempo, pressoché inascoltata – scrive il sindacato in una nota -. Adesso il Governo, dopo questo passo indietro rispetto al ridimensionamento dell’imposta sugli extraprofitti deciso nell’ultima legge di bilancio, non si fermi a un provvedimento estemporaneo, ma estenda la decisione assunta sulle banche a tutte le imprese e i settori che stanno macinando risultati record, e riconsideri anche le recenti scelte fiscali tutte a vantaggio di imprese e profitti”.

Vanno chiamati tutti a contribuire in un momento in cui le fasce popolari del Paese sono in grande sofferenza a causa dell’inflazione, dell’aumento di mutui e affitti, dell’impennata del carrello della spesa e del costo dei carburanti. Per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse recuperate, quindi, per noi non ci sono dubbi: sono da destinare al sostegno di lavoro, salari, sanità e servizi pubblici. Infine, le banche non utilizzino strumentalmente questa scelta del governo per compromettere il confronto in corso per il rinnovo del contratto nazionale”.

 

da: www.collettiva.it




Tassa sugli extraprofitti delle banche, tetto allo 0,1% dell’attivo

l governo alza al 5% e al 10% le percentuali di calcolo della tassa sugli extramargini delle banche nel 2023. Il conto scende a meno di 2 miliardi


Giancarlo Giorgetti ha addolcito la botta per le banche al termine di una giornata convulsa per gli istituti in borsa. Alla fine è stato il Mef a correggere il tiro e alzare le soglie di calcolo del prelievo straordinario sui ricavi per margine d’interesse degli istituti di credito.

Un flusso di informazioni arrivato a tappe. Rispetto alla bozza circolata lunedì 7 agosto, subito dopo l’annuncio a sorpresa del vicepremier Matteo Salvini, il comunicato ufficiale della riunione del CdM ha rivisto al rialzo le percentuali dello scarto tra i margini d’interesse per il 2022 e per il 2023 sul 2021, superati i quali scatta il balzello.

n serata il ministero dell’Economia ha poi aggiunto informazioni sul tetto massimo del prelievo, che non potrà superare lo 0,1% del totale dell’attivo. Questo nella versione finale elaborata dal Mef.

La proposta entrata in CdM parlava al contrario di un limite fissato al 25% del patrimonio netto.

La differenza è notevole, in meglio per le principali banche italiane, Intesa e Unicredit in primis, che, se dovesse restare così la norma, potrebbero dover pagare un importo molto consistente ma inferiore a un miliardo di euro.

I primi chiarimenti sulla misura fortemente voluta da Giorgia Meloni sono arrivati soltanto dopo una lunga mattinata di attesa, segnata dal tracollo in borsa degli istituti. Un iniziale segnale di chiarezza in attesa dei testi definitivi da pubblicare in Gazzetta Ufficiale.

 

Meno di 2 miliardi di gettito

Dal gettito potenziale, si parla di circa 2 miliardi di euro nell’ultima versione rispetto a circa 3 miliardi ipotizzati lunedì, alla platea coinvolta. Ad esempio sarà fuori dall’applicazione il Credito Sportivo assieme forse ad altri istituti, mentre in Cassa Depositi e Prestiti erano in corso approfondimenti per capire se la spa del Tesoro rientri nella norma ma non dovrebbe esserci. In generale la confusione è però ancora molta e non si escludono nuovi colpi di scena fino alla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Lì si apriranno davvero i giochi.

Inconvenienti dell’effetto sorpresa del provvedimento, messo a punto, secondo quanto emerso, senza un confronto preventivo con il settore bancario.

Confermata l’aliquota al 40%

Le spiegazioni arrivate ieri hanno confermato l’aliquota del 40%, che sarà applicata sul maggior valore del margine di interesse dell’esercizio 2022 che eccede per almeno il 5% il margine del 2021, e tra il margine di interesse relativo al 2023 che eccede -in questo caso- per almeno il 10% il margine sempre del 2021.

Nella prima versione le soglie era state invece fissate al 3% e al 6%. L’imposta straordinaria dovrà essere versata nel corso del 2024, per la maggior parte degli istituti entro giugno e non sarà deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, ha precisato Palazzo Chigi.

Conferme anche sulla destinazione del gettito. Le maggiori entrate saranno destinate al finanziamento del fondo per i mutui sulla prima casa e per interventi volti alla riduzione della pressione fiscale di famiglie e imprese.

Su questo punto insistono i comunicati dei parlamentari di Fratelli d’Italia e della Lega. Dall’opposizione, senza plausi, Pd e Movimento Cinque Stelle salutano l’intervento con un meglio tardi che mai. Con i ricavi destinati ai mutui «si dimostra quanto questo esecutivo guardi ai problemi reali degli italiani», è il commento del leghista Massimo Garavaglia, presidente della commissione Finanze del Senato.

 

Mef ancora in pressing sulla remunerazione dei depositi

La nota del Mef si chiude con una postilla-monito: gli istituti bancari che hanno già adeguato i tassi sulla raccolta così come raccomandato lo scorso 15 febbraio con specifica nota da Bankitalia non avranno impatti significativi come conseguenza della norma.

Su questo punto aveva insistito il ministro Giorgetti in occasione dell’assemblea Abi, chiedendo un rapido riequilibrio della remunerazione dei depositi. A oggi sono poche le banche che si sono adeguate dopo la nota di via Nazionale. La trattativa con il Mef è solo all’inizio.

 

Fonte: Milano Finanza




Regalo Bce alle banche: extraprofitti fino a 40 miliardi

Nonostante il doppio rialzo dell’1,25% favorisca già gli istituti, Francoforte non ferma le operazioni con le quali si finanziano a costo zero


Un “regalo” firmato Banca centrale europea del valore compreso tra 24 e 40 miliardi.

È il munifico cadeau che la Bce, nonostante la guerra che infuria, la recessione in arrivo, la crisi energetica che morde famiglie e imprese e la pandemia ancora in corso, ha elargito ai banchieri e ai loro azionisti. Il presente è stato consegnato nell’ultima riunione dell’Eurotower di giovedì 8 settembre, quando Christine Lagarde e colleghi hanno aumentato i tassi dello 0,75% portandoli all’1,25%, dopo che a luglio li avevano già alzati di 50 punti base. Non si tratta, come si potrebbe pensare, della normale ripresa degli utili grazie all’aumento del margine di interesse, cioé al differenziale tra i tassi che gli istituti di credito pagano per finanziarsi e quelli, ben più alti, che incassano per erogare denaro a imprese e famiglie. No: sono puri extraprofitti, garantiti dal programma Tltro, le operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine istituite originariamente invece per sostenere l’economia reale, prestando più denaro a cittadini e aziende.

Le regole delle prime tranche di Tltro prevedevano che le banche commerciali prendessero in prestito denaro dalla Bce a tassi prima negativi (-1%, -0,5%) e poi nulli, per poterlo erogare a tassi bassissimi ai loro clienti senza perderci. Si trattava dunque di transazioni prive di rischio, soprattutto per gli istituti più piccoli, che guadagnavano due volte: ricevevano dalla Bce più soldi di quelli chiesti e li erogavano a valori comunque per loro positivi. Ora, però, i tassi di mercato ai quali gli istituti erogano credito si stanno alzando con i rialzi decisi dalla Bce per frenare l’inflazione galoppante.

La differenza tra il costo zero del denaro che le banche ricevono dalla Bce e gli interessi incassati dai clienti si sta quindi allargando a tutto beneficio degli istituti di credito. Ecco perché molti analisti prevedevano che con la riunione dell’8 settembre Francoforte avrebbe tagliato o drasticamente limitato il “pasto gratis” per le banche. Ma così non è avvenuto e la cuccagna del Tltro, con gli ultimi prestiti erogati durante l’anno pandemico 2020, finirà solo nel 2024.

C’è chi ritiene che tanta generosità dell’Eurotower sia dovuta ai timori per la recessione in arrivo, che potrebbe tornare a gonfiare i bilanci bancari di una nuova valanga di sofferenze. Se così fosse stato, la Bce avrebbe potuto però almeno introdurre delle condizioni ai propri prestiti di favore, ad esempio legarne i profitti a reinvestimenti nelle imprese o a principi di sostenibilità. Niente di tutto questo: gli extraprofitti delle banche potranno andare agli azionisti, attraverso dividendi o piani di riacquisto di azioni proprie, o magari addirittura aumentare i già stellari compensi dei dirigenti.

La possibile dimensione dei profitti aggiuntivi per le banche dell’eurozona entro il 2024 secondo Morgan Stanley sarebbe di 24 miliardi, per Citigroup di 33 e per l’agenzia di rating Scope, citata da Heinz-Roger Dohms sulla testata tedesca FinanzSzene, addirittura di 40. Non a caso da qualche settimana, nonostante la recessione alle porte e le tensioni geopolitiche ormai al calor bianco, i principali indici di Borsa dei titoli bancari europei segnano corposi rialzi: a Piazza Affari il paniere Mib dei titoli del credito dall’8 settembre è in rialzo del 10% circa, in linea con l’indice Euronext degli istituti dell’eurozona.

Certo, come ha scritto Il Sole 24 Ore, su questi rialzi soffia anche il vento dell’aumento globale dei tassi d’interesse che le Banche centrali, nel mondo, hanno già alzato per almeno 95 volte da inizio anno nel tentativo di frenare l’inflazione galoppante. Rialzi che, come sempre, allargano la forbice tra tassi passivi e attivi a favore degli istituti di credito, consentendo di incassare maggiori margini d’interesse.
È la prima volta che accade dall’inizio della crisi globale che fu innescata dai mutui subprime nel lontano 2007: per un quindicennio, i tagli dei tassi erano la norma. Per questo motivo le banche commerciali italiane in quel periodo hanno perso nel loro complesso 12 miliardi di ricavi, secondo una ricerca di Excellence Consulting, con gli incassi calati da 59 miliardi nel 2007 a 47 nel 2021, tutti a causa del margine di interesse sceso di 13 miliardi da 38 a 25. Ma a compensarli era stato l’aumento delle commissioni, che continuerà anche in futuro.
Molti si chiedono dunque se c’era bisogno di un altro regalo della Bce ai banchieri.

 

Articolo di Nicola Borzi sul Fatto Quotidiano del 23/9/2022