Abruzzo: insieme alle banche diminuisce il credito a piccole e medie imprese

Prendiamo spunto dall’ottimo studio pubblicato dal prof. Aldo Ronci, dal titolo Il credito bancario in Abruzzo nel 2022.

Il dato relativo al credito vivo (quindi depurato dalle sofferenze) ad imprese e famiglie, relativamente all’anno 2022, è apparentemente positivo, con un incremento di 484 milioni, pari al 2,55%, nettamente migliore al dato nazionale che fa registrare un incremento dello 0,90%.

Andando ad esaminare in modo analitico il dato, scopriamo che non è così confortante.

Fonte: Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022 – Aldo Ronci

 

Notiamo che esiste un unico dato in controtendenza, cioè quello relativo al credito alle imprese medio grandi, mentre i finanziamenti alle piccole imprese scendono in misura superiore alla media nazionale. Questa crescita non avviene in modo omogeneo su tutto il territorio abruzzese, come evidenzia il grafico che riportiamo di seguito.

Fonte: Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022 – Aldo Ronci

 

In sostanza ci troviamo di fronte ad una crescita dei finanziamenti relativi a due sole provincie, quella di Teramo e quella di Chieti, concentrata nelle grandi imprese operanti nel settore industriale, mentre le provincie dell’Aquila e Pescara sono ferme o addirittura in calo.

Fonte: Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022 – Aldo Ronci

 

Ulteriore dato da tenere in considerazione, l’incidenza dei prestiti garantiti sul totale impeghi. In Abruzzo questa percentuale è del 9,47%, mentre la media nazionale è del 5,96%.

Fonte: Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022 – Aldo Ronci

 

COSA CI DICONO QUESTI NUMERI?

I numeri rappresentano la concretizzazione dei i timori che da anni stiamo esprimendo, evidenziando a posteriori le conseguenze che avevamo paventato in merito all’abbandono dei territori da parte delle banche.

Quando le banche vanno via, piccole e medie imprese trovano enormi difficoltà a finanziare le loro esigenze, e questo rappresenta un danno irreparabile per il territorio. Aspetto che alle azienda bancarie, che ragionano spesso solo in termini di profitto a breve termine, non interessa. Per le grandi aziende, che hanno invece contatti diretti con le Direzioni Crediti dei grandi istituti, i canali restano aperti.

Il professor Ronci esprime in modo chiaro una preoccupazione: non trovando finanziamenti attraverso i canali ufficiali, le aziende alle prese con problemi di liquidità potrebbero cadere vittime della criminalità organizzata, “grazie alla sua capacità di offrire soluzioni rapide, servizi a basso costo e soprattutto prestiti in denaro, creando pericolosi legami di dipendenza, da parte delle aziende, alle attività di estorsione e usura. In questa maniera si stravolgerebbero e corromperebbero imprese, mercato ed economia”

Parliamo di una questione che dovrebbe suscitare un forte allarme sociale, ma che evidentemente viene – in modo molto colpevole – sottovalutata.

Lo stesso studio del Professor Ronci, nell’evidenziare come l’incremento complessivo del credito in regione risenta dell’ammontare dei finanziamenti garantiti, sembra suggerire implicitamente una possibile strategia per fronteggiare la perdita d’interesse delle banche verso le aziende del nostro territorio.

Una percentuale di finanziamenti garantiti significativamente maggiore rispetto al dato nazionale, può aver reso meno evidente il calo di finanziamenti alle piccole e medie imprese. Quindi potrebbe essere utile creare fondi di garanzia, anche per assicurare il microcredito alle famiglie rendendole meno esposte al rischio di cadere vittime dell’usura.

Tuttavia, anche questo dato è in realtà meno buono di quanto appaia. Sappiamo da un precedente studio dello stesso dr. Ronci che in occasione della pandemia gran parte dei finanziamenti garantiti dallo Stato, finalizzati ad aiutare le aziende a risollevarsi dopo il difficilissimo periodo del lockdown, sono in realtà andati a sostituire finanziamenti preesistenti, con il risultato pratico di scaricare sui contribuenti il rischio di insolvenza, invece di fornire un concreto sostegno all’economia.

Anche provvedimenti in apparenza giusti rischiano, in assenza di adeguati controlli, di rivelarsi inadatti rispetto allo scopo per cui erano stati pensati.

Un’ultima annotazione riguarda l’andamento del credito alle famiglie, apparentemente positivo (+2,81%). In realtà questo dato è nettamente inferiore alla media nazionale (+3,90%) e risente, più che di una maggior attenzione verso le esigenze dei privati, delle opportunità di guadagno rappresentate dai tassi incrementati, che hanno portato le banche a guardare con maggior attenzione la concessione di credito dopo anni in cui l’interesse era stato rivolto verso prodotti capaci di generare commissioni.

Scarica lo studio Il Credito Bancario in Abruzzo nel 2022

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Banche in ritirata dal territorio: il Nord tiene grazie alle piccole

Negli ultimi anni i grandi gruppi hanno continuato a ridurre il numero di filiali, al punto che gran parte dei Comuni è privo di sportelli. A fare la differenza restano Bcc e casse rurali, meno diffuse in Meridione. E anche i tassi ne risentono


La chiusura degli sportelli bancari è stata imponente negli ultimi anni, grazie allo sviluppo dell’Internet banking e alla razionalizzazione imposta dalle fusioni avvenute. Tali tendenze hanno ricevuto un ulteriore impulso con la pandemia di Covid-19, che ha indotto più clienti a utilizzare il web. Ma la riduzione è stata omogenea sul territorio nazionale e ha prodotto gli stessi effetti sull’erogazione di credito?
A rispondere a queste domande è ora una ricerca dell’Osservatorio del Terziario di Manageritalia. Scorrendo i dati, risulta che in tutte le macroaree c’è stata una riduzione di filiali. A livello percentuale il calo maggiore, 29%, è stato nel Nord-Est, passato tra il 2015 al 2021 da 69 a 49 sportelli ogni 100 mila abitanti. Il Nord Ovest è calato da 58 a 42 sportelli, con una diminuzione di quasi il 28%. Al Centro le filiali sono scese da 53 a 38 sportelli, con un calo del 27%, nell’aggregato Sud e Isole da 32 a 24, con una diminuzione del 25%.

Più sportelli nel Nord Est

Nonostante questi trend il Meridione continua a essere penalizzato, mentre il Nord Est rimane l’area a maggior densità di sportelli in relazione alla popolazione. Questo – spiega la ricerca – grazie anche alla grossa quota di mercato che Bcc e Casse Rurali rivestono in quest’area. A parte il Sud, che rimane la Cenerentola d’Italia con circa la metà degli sportelli rispetto al Nord Est (24 contro 49), è da notare che la differenza vera la fanno i piccoli istituti. Infatti la presenza delle filiali delle banche maggiori è pressoché identica nelle tre aree del Centro-Nord (25-26 per 100 mila abitanti), mentre sono diverse le presenze delle piccole e minori: 18 sportelli nel Nord Est, 10 nel Nord Ovest e 11 nel Centro. “Il Nord est spicca sulle altre aree per l’alta capillarità territoriale di banche di piccole dimensioni”, si legge nella ricerca. Insomma, a quanto pare piccolo è ancora bello quando si tratta di istituti di credito al servizio del territorio. “Una bassa presenza bancaria – dice Mario Mantovani, presidente di Manageritalia – rispetto alla popolazione può limitare la crescita, poiché il credito bancario riveste una funzione essenziale nel finanziare le imprese, soprattutto all’inizio del loro ciclo vitale. Avere un numero di sportelli molto ridotto rispetto alla popolazione, come avviene nel Sud, genera maggiori difficoltà di accesso al credito a potenziali nuovi imprenditori.

Tuttavia, c’è una razionalità nell’attuale dislocazione degli sportelli bancari. A una grandissima differenza in termini di numerosità (molto elevata al Nord, bassissima al Sud) non corrisponde un’analoga differenza in termini di produzione economica. Se si prendono infatti le filiali per ogni miliardo di valore aggiunto, si scopre che le distanze tra Nord e Sud sono limitate: il Nord Est mantiene sì un primato ma con un distacco minuscolo rispetto al Meridione. Quest’ultimo si situa addirittura al secondo posto, seguito da Centro e Nord Ovest. Dunque c’è una ragione se le filiali nel Sud sono limitate: c’è poca attività economica. Ma, come già rilevato, può trattarsi di un cane che si morde la coda: l’attività produttiva nel Sud è oggettivamente scarsa ma la limitata presenza bancaria ne limita le possibilità di crescita. La copertura territoriale dell’Italia da parte degli istituti di credito non è comunque omogenea neanche all’interno delle macro aree o delle singole regioni. Se si guarda la percentuale di Comuni serviti da almeno uno sportello bancario, in Emilia Romagna la percentuale arriva al 96%, in Piemonte al 40%. A dispetto delle statistiche generali che penalizzano il Sud, la Puglia è al sesto posto in Italia per Comuni serviti (78%) e viene prima del Friuli Venezia Giulia (72%). Al settimo posto risulta un’altra Regione del Sud, la Sardegna, con il 73% di copertura dei Comuni. Nella parte bassa della graduatoria, oltre al Piemonte, figurano inaspettatamente altre due Regioni del Nord: Liguria (47%) e Valle d’Aosta (32%), che vengono prima delle ultime due, la Calabria e il Molise, fanalini di coda rispettivamente con il 31% e il 21% dei Comuni serviti.

Le condizioni alle imprese

Un altro elemento di eterogeneità geografica riguarda le condizioni finanziarie applicate dalle banche alle imprese. Anche qui è il Sud a essere penalizzato, con tassi d’interesse più elevati, soprattutto sui finanziamenti alle imprese per esigenze di liquidità. Sicilia, Sardegna, Molise e Calabria sono agli ultimi quattro posti, con tassi tra il 5 e il 6,8% nel 2021. Le altre quattro regioni, Basilicata, Campania, Abruzzo e Puglia, sono sempre nella parte bassa della classifica, con tassi compresi tra il 4,2% e il 4,6%, separate dalle peggiori soltanto da Umbria (4,3%) e Valle D’Aosta (4,9%). Ai primi tre posti per condizioni favorevoli c’è invece gran parte del Nord Est: Trento, Bolzano e Veneto, con tassi tra il 2,9% e il 3%. Il Friuli è al sesto posto con il 3,2%. Lombardia ed Emilia Romagna, rispettivamente al quarto e quinto posto con tassi intorno al 3%, chiudono le Regioni con il più basso tasso sui prestiti di liquidità, sotto la media nazionale (3,3%). Meno marcate, ma comunque significative, le differenze tra Centro-Nord e Sud nel Taeg (tasso annuo effettivo globale) sui prestiti alle imprese per esigenze d’investimento. Qui spicca il primo posto per migliori condizioni del Lazio, con l’1,4%. Le Regioni del Sud sono tutte nella parte bassa: Molise, Sicilia, Puglia, Calabria, Abruzzo sono i fanalini di coda con tassi compresi tra il 2,2% e il 3%.

Fonte: www.repubblica.it

 

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Covid: le garanzie statali coprono più le banche delle imprese

I dati Bankitalia rivelano che nella pandemia i prestiti alle aziende sono saliti di 39 miliardi a fronte di garanzie pubbliche concesse per 150 miliardi, confermando i timori che gli istituti le abbiano usate, in parte, per mettere al riparo i loro conti


 

Il sospetto c’era, fin da quando il Decreto liquidità fu congegnato al ministero del Tesoro. Nella maggioranza, specie lato Cinque Stelle, c’erano mugugni sul fatto che le banche avrebbero potuto traslare sull’Erario i rischi creditizi delle esposizioni critiche. Ex post, i dati dicono che quel sospetto si è concretizzato; anche se è una verità che non cancella il supporto offerto dalle banche al sistema produttivo flagellato dalle chiusure. Gli istituti di credito, in tutta Europa, per disegno degli stessi banchieri centrali erano chiamati a “essere parte della soluzione, non del problema” com’era stato nella precedente crisi, che generò una stretta sul credito alle imprese nostrane stimata in circa 300 miliardi di euro nel decennio scorso, trasformando la recessione in stagnazione.

Nelle statistiche con cui Bankitalia censisce le consistenze mensili, si legge che tra fine febbraio e fine dicembre 2020 c’è uno scarto da 111 miliardi tra il monte crediti alle imprese (le “famiglie produttrici” fino a 5 addetti e le “società non finanziarie” oltre la soglia), cresciuti nel periodo da 711,6 a 750,5 miliardi, e le garanzie pubbliche che in sincrono andavano a coprire il credito bancario via Sace (20,8 miliardi nei 10 mesi) e Fondo centrale di garanzia (129,5 miliardi). Non tutto ciò che manca, ovvio, è “sostituzione”, pratica che la legge pubblicata il 9 aprile scorso per fornire garanzie pubbliche dal 70% al 90% del credito erogato alle aziende colpite da Covid, limitava alle sole “rinegoziazioni”, in cui il credito complessivo crescesse di almeno il 10% e mai sotto i 25 mila euro.
La stessa Abi, con circolare del 24 aprile, istruì le banche sul fatto che i crediti garantiti non compensassero vecchi prestiti o scoperti di conto. Ma il diavolo è nei dettagli: la mancata contestualità tra estinzioni di crediti passati e accensioni di nuovi era lo spiraglio, e le “rinegoziazioni” parevano già a maggio, citando l’avvocato Antonio Manco dal sito Altalex, “la strada più indicata per progettare un’ampia e generale sanatoria delle pendenze debitorie pregresse”.

Dati da interpretare

Sui dati iniziali, censiti da un sondaggio della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, la tipologia “sostitutiva” non era quasi emersa: e lo stesso Tesoro, da proprie stime a fine aprile, la rintracciava solo nel 2,4% delle richieste, il 4,3% degli importi totali. Lo scarto spalancato nei mesi seguenti, fino ai 111 miliardi di dicembre, va interpretato: una parte delle garanzie pubbliche è certo andata a colmare cali fisiologici del credito in essere, anche sostituendo scadenze a breve termine con prestiti maggiorati e a medio-lungo (ma coperti da Sace o Mcc); un’altra parte sarebbe servita a ridurre rischi bancari pregressi. L’ufficio studi di Fisac Cgil, che aveva analizzato le stesse serie statistiche tra marzo e ottobre 2020 rilevando un differenziale di 80 miliardi sulle due grandezze, stima si tratti “per circa 50 miliardi di calo delle nuove erogazioni standard, ma per altri 30 miliardi di meccanismi di abbattimento dei rischi bancari, con le risorse del Dl liquidità che hanno parzialmente sostituito il credito ordinario”.
C’è poco da sorprendersi, se nella crisi più feroce da un secolo gli istituti abbiano cercato di ridurre l’esposizione alle economie: per rafforzarne la capacità di assorbire le perdite su crediti da Covid, stimate fino a 1.000 miliardi tra le vigilate europee e fino a 100 miliardi in Italia, proprio la Bce 13 mesi fa congelò la distribuzione di cedole per 30 miliardi agli azionisti bancari. E sempre la Bce da sei mesi lavora a minimizzare gli effetti di un credit crunch che è nelle cose: tanto che già a fine settembre 2020, sfruttando varie forme di sostegno dei governi nazionali – e principalmente le garanzie al credito come quelle italiane – 18 tra i maggiori istituti europei avevano limato di 120 miliardi di euro gli attivi ponderati al rischio (Rwa), con Unicredit tra le più solerti con 42 miliardi di Rwa in meno nel periodo.

La tendenza prosegue: l’ultima ricerca di Kepler Cheuvreux, dal titolo “Meno moratorie e più garanzie pubbliche in Italia”, registra come nel quarto trimestre 2020 le banche italiane quotate abbiano ridotto di circa 100 miliardi i finanziamenti in moratoria (tra i più a rischio) rispetto ai tre mesi prima: e con tassi di default all’1% circa, sei volte meno che nella crisi 2009-2013. Lo spaccato dà qualche indizio sugli operatori più “dinamici”, in pratica tutti: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, Illimity hanno aumentato di almeno il 25% le garanzie statali su finanziamenti tra il terzo e il quarto trimestre 2020, a fronte di un taglio di almeno il 21% dei prestiti a rate congelate.

Le pmi e la poca liquidità

“Il bazooka messo in campo dall’ex premier Conte non è riuscito ad aggredire con successo la cronica mancanza di liquidità che storicamente assilla in particolare le Pmi – osserva Paolo Zabeo, direttore della Cgia di Mestre -. Solo un quarto delle garanzie messe a disposizione dallo Stato tramite Sace e Mcc è finito nelle casse degli imprenditori, mentre si sono avvantaggiate le banche, anche se è bene sottolineare che tutto il sistema economico ha tratto beneficio dall’applicazione dei vari provvedimenti governativi, tra cui il Dl liquidità“.
Proprio le piccole imprese, siano “famiglie produttrici“, “quasi-società artigiane” o “altre”, risaltano dalla base statistica di Bankitalia come quelle che hanno aumentato di più, nei primi nove mesi 2020, i depositi bancari e postali: a fine settembre 807 miliardi di euro dei 1.936 miliardi totali di giacenze liquide erano detenuti da queste tre tipologie aziendali, dopo incrementi tra il 20 e il 27% da gennaio.

È un’ulteriore spia di tensione nel rapporto tra le banche e i clienti più piccoli, che in diversi casi potrebbero aver parcheggiato sul conto i finanziamenti garantiti in attesa di tempi migliori per utilizzarli.

“L’incremento del risparmio, lievitato durante la pandemia anche grazie alle garanzie pubbliche, deve essere trasformato in investimenti”, dice Nino Baseotto, segretario generale della Fisac Cgil. Il sindacalista dei bancari, in vista di prossimi rinnovi della misura sulle garanzie pubbliche al credito, propone poi di introdurre “l’obbligo per le banche di considerare le linee garantite come aggiuntive e non sostitutive, per le imprese beneficiarie di investirne almeno l’80% entro 12 mesi, e che le grandi imprese garantite tramite Sace almeno mantengano i livelli occupazionali”.

 

Articolo di Andrea Greco su Repubblica del 1 marzo 2021 




Il ruolo delle banche nella Provincia dell’Aquila

La prenderò un po’ alla larga, partendo dal Medioevo; è quello il periodo in cui nascono le prime banche.

Proviamo ad immaginare la situazione preesistente.
Da una parte c’era il mercante con i suoi sacchetti pieni di monete d’oro, che venivano rinchiusi in un forziere e giacevano lì.
Dall’altra il giovane, dotato magari di grandi capacità, che avrebbe voluto aprire una piccola bottega artigiana ma, non disponendo della modesta somma necessaria per avviare l’attività, restava condannato ad una vita di miseria. In queste condizioni il ciclo economico era totalmente bloccato.
L’idea fu quella di creare un soggetto che facesse da intermediario: raccoglieva gli incassi del mercante, impegnandosi alla restituzione e al pagamento di un interesse, e concedeva in prestito al giovane artigiano la somma di cui aveva bisogno.
Una funzione indispensabile, che però al giorno d’oggi le banche hanno sempre meno voglia di svolgere.

Proviamo a capire i motivi.

Pensiamo alla concessione di un mutuo. L’istruttoria richiede diverse ore di lavoro; la somma prestata rientrerà in almeno 20 anni, con un guadagno del 2%, ammesso che il debitore riesca ad onorare l’impegno.
E’ molto più semplice vendere una polizza assicurativa: un quarto d’ora di lavoro, incasso immediato della commissione, nessun bisogno di rischiare il proprio patrimonio.

In questo senso le normative europee non sono di grande aiuto.
Le banche oggi sono sottoposte a vincoli molto rigidi per la concessione del credito. Il più importante è di natura patrimoniale: gli Istituti di credito sono tenuti a rispettare il coefficiente di solvibilità, cioè la quantità minima di capitale necessaria per svolgere attività creditizia.
Per dirla in parole semplici: si tratta di un rapporto che ha al numeratore il patrimonio della banca e al denominatore il totale degli impieghi, ponderati a seconda della loro rischiosità. Questo significa che un prestito fatto ad un debitore in difficoltà pesa in modo maggiore rispetto ad un prestito con un andamento regolare.
È una norma studiata per impedire il default delle aziende di credito, ma che di fatto ha avuto l’effetto di estromettere dal mercato le piccole banche, che non riescono a raggiungere il livello di patrimonializzazione necessario

Nel futuro degli istituti di credito dovremo aspettarci la progressiva scomparsa anche delle banche di dimensioni medie, con l’attività creditizia concentrata tra pochi grandi Istituti, e lo spostamento sempre maggiore verso il comparto assicurativo.

Non è un caso se non esistono più banche con sede in Abruzzo, fatte salve alcune piccole BCC alle quali finora le rigide normative europee non si applicavano. La situazione cambierà a breve, visto che con la riforma le BCC sono confluite obbligatoriamente all’interno di 2 Holding: in sostanza le attuali Banche di Credito Cooperativo rischiano di diventare filiali di grandi banche, soggette alle stesse regole ed ai medesimi vincoli degli altri istituti di credito, perdendo la loro tipicità. Per scongiurare questa eventualità, l’auspicio è che siano introdotti criteri di progressività per differenziare gli obblighi organizzativi e di vigilanza a carico dei singoli istituti in base alle loro dimensioni

Altro pesante adempimento a carico delle banche è rappresentato dagli accantonamenti a copertura dei crediti, il cui ammontare va peraltro a decurtare il patrimonio considerato ai fini del calcolo del coefficiente di solvibilità. Per ogni euro prestato le Banche devono accantonare una somma per garantirsi dal rischio di insolvenza, il cui ammontare varia dallo 0,50% per i crediti più sani, fino ad arrivare alla copertura integrale per quelli più difficili da recuperare.
Le ultime normative, da poco entrate in vigore, imporranno nuovi obblighi ed investimenti: le Banche saranno tenute ad ulteriori accantonamenti, arrivando progressivamente alla copertura integrale di tutti i crediti deteriorati.

In questa situazione le Banche si trovano pressoché costrette a svendere i crediti problematici, i cosidetti Non Performing Loans (e a volte assieme ai crediti vengono svenduti anche i lavoratori addetti alle attività di recupero), pur di liberare capitale e poter continuare ad operare. La percentuale stimata di recupero di un credito a sofferenza è intorno al 30%: i prezzi di vendita sono di molto inferiori.
Decisive, in questo senso, furono le scelte fatte in occasione della risoluzione delle 4 banche liquidate nel 2015. In quell’occasione si stabilì di valutare gli NPL al 17% del valore nominale, di fatto fissando quello da allora è stato considerato il loro valore di mercato. Di recente abbiamo visto vendere gli NPL anche al 10%, tanto era forte la necessità di liberare capitale: un enorme affare per chi compra, un danno pesante per le prospettive di redditività di chi vende.

Faccio un piccolo riepilogo: nel valutare una richiesta di credito una banca sa di rischiare, nel caso il debitore non riesca ad adempiere puntualmente, di dover destinare a quel prestito una somma doppia di quella effettivamente concessa, quindi con un minor introito in termini d’interessi. Inoltre, quel maggiore accantonamento comporterà un peggioramento del coefficiente di solvibilità, con l’eventualità di dover cedere quel credito ad un prezzo irrisorio.
In queste condizioni non sorprende il fatto che una banca non se la senta di scommettere su una nuova attività e finanziare un progetto di start-up. Per assurdo, il piccolo artigiano medievale che avevo inizialmente citato come esempio aveva maggiori possibilità di essere finanziato. E su questo qualche riflessione dovremmo farla.

Veniamo al nostro territorio.
Nel settore bancario l’occupazione è in forte calo. Tra il 2010 ed il 2018 il numero degli addetti è sceso mediamente dell’1,6% annuo a livello nazionale.

In provincia dell’Aquila la perdita di posti di lavoro viaggia ad un ritmo più che doppio rispetto alla media nazionale: nel periodo evidenziato (ho scelto di partire dal 2010 in quanto andare più indietro sarebbe stato poco significativo alla luce del sisma del 2009) l’occupazione bancaria cala del 3,3% annuo, segno di un progressivo disimpegno da parte dei grandi istituti rispetto al nostro territorio. Stiamo parlando di oltre 320 posti di lavoro persi.

Più o meno di pari passo procede la chiusura delle filiali: nel periodo interessato, in Provincia ne sono state chiuse 62 su un totale di 314.
Fra le tante considerazioni possibili, mi limito a farne una: in un territorio come il nostro la scelta di chiudere “la banca” in un centro montano diventa un ulteriore incentivo allo spopolamento.

A corollario di tutto ciò che ho detto finora, vediamo i dati sugli affidamenti alle imprese, che nel periodo esaminato evidenziano un calo complessivo superiore al 24%. Le piccole imprese sono le più penalizzate, con una riduzione di circa il 28%.

Di fatto si innesca un circolo vizioso: in un territorio in cui il numero di aziende attive diminuisce si riduce il credito alle imprese, ma la riduzione del credito alle imprese riduce il numero di aziende attive.

Ultimo dato. La provincia dell’Aquila è una provincia virtuosa per quanto riguarda la capacità di risparmio. La media di depositi pro-capite ammonta a € 20.946, appena al disotto della media nazionale ma al terzo posto in tutto il centro-sud dopo Roma e Avellino.
Questo dato è importante, perché ci permette di affermare che nel nostro territorio le banche prendono più di quello che danno: sono interessate a raccogliere soldi, ma non sono altrettanto interessate a ricambiare, vista la scarsa attenzione all’occupazione ed al sostegno alle imprese.

Avviandomi alla conclusione del mio intervento, consentitemi alcune riflessioni da rappresentante CGIL.

C’è un fatto evidente: gli istituti di credito si stanno allontanando da famiglie ed imprese, sia fisicamente con la riduzione degli sportelli, sia organizzativamente attraverso la progressiva eliminazione dei rapporti interpersonali e la loro sostituzione con algoritmi.
Ricordiamoci che ridurre le filiali significa tagliare fuori – non solo dal credito ma dai servizi bancari in genere – intere fasce di popolazione che per età, cultura e barriere linguistiche (pensiamo ai tanti residenti che provengono da altri Paesi), difficilmente possono usufruire a pieno di banche digitalizzate.

Investire nel territorio dovrebbe essere un dovere di ogni imprenditore: non per beneficenza, ma perché è impensabile che un’azienda possa prosperare se il contesto in cui opera si impoverisce. D’altro canto, investire in un territorio comporta la voglia di scommettere, di rischiare, di aspettare anni per raccogliere i frutti.
Tutto questo appare difficile nella società attuale, in cui la logica che si va affermando è quella del “Prima noi!” : “America first”, “Prima gli Italiani”, “Prima le regioni più ricche”, “Prima Pescara”, “Prima L’Aquila” e così via. Un mondo che non conosce più il concetto di collettività o di interesse comune.
Per quanto riguarda le Banche il motto è “Prima gli azionisti”. I manager devono portare risultati immediati, quindi non c’è tempo né voglia di investire sul futuro. Bisogna fare utili consistenti qui e ora, utili dei quali non beneficieranno i lavoratori che hanno contribuito a produrli, sempre più considerati come una spesa da tagliare, ma esclusivamente il capitale, che nelle nuove tecnologie sta vedendo realizzarsi il sogno di riprodursi autonomamente, senza la necessità di condividere i frutti.

Dovremmo interrogarci sulle conseguenze politiche e sociali di queste scelte. Si dice spesso che non ci si può opporre alle leggi dell’economia, e chi pensa di farlo è antico.

Provo a rispondere con le parole di Franklin Roosevelt, presidente che ebbe il merito di portare gli Stati Uniti fuori dalla grande depressione degli anni ’30:

Dobbiamo comprendere che le leggi economiche non sono fatte dalla natura. Sono fatte da esseri umani.”

 

Intervento di Luca Copersini, Segretario Provinciale Fisac/Cgil L’Aquila, al convegno    “L’Aquila e l’Abruzzo dentro l’Euro. Il ruolo della moneta unica e dei Trattati nella crisi economica e sociale della regione”,    svoltosi l’8 giugno 2019.