La questione morale in un Paese alla deriva

Non possiamo non essere d’accordo con chi sostiene che i doveri generali dei cittadini verso lo stato siano principalmente tre:

  • il rispetto delle leggi e delle autorità
  • il dovere di pagare i tributi
  • il dovere di difesa della patria (da nemici interni o esterni).

E’ evidente che il non rispettare le leggi significa impedire la sicurezza e la prosperità dello Stato, poiché cessa il bene comune quando le azioni dei cittadini non sono più armonicamente coordinate a conseguire lo scopo sociale (automaticamente si deve rispetto anche alle autorità, cioè agli uffici che curano l’esecuzione delle leggi).

I tributi devono considerarsi come il corrispettivo dei vantaggi che tutti i cittadini ricavano dallo Stato; è necessario che ognuno paghi le imposte stabilite affinché l’autorità pubblica possa adempiere ai suoi uffici e provvedere a tutte le opere di pubblica utilità.

I cittadini hanno il dovere di intervenire alle elezioni e di scegliere i rappresentanti tra le persone competenti ed oneste, che abbiano voglia e tempo per consacrarsi all’amministrazione pubblica. Gli elettori politici devono accorrere alle urne e non coprire la propria pigrizia ed indifferenza con le solite parole che un voto più o meno non fa nulla; dovremmo tutti votare deputati persone che, per capacità, moralità e dignità civile siano degne di sedere nel Parlamento, persone, cioè, che mettono innanzi alle questioni di partito l’interesse dei cittadini e vogliono esercitare l’ufficio di deputato per il bene comune e non per ambizione o interesse personale; persone, quindi, che devono avere il coraggio civile di resistere alle beghe elettorali, di dare i loro voti a governi  meritevoli.
I deputati e senatori, che sono chiamati a discutere le leggi ed a regolare i grandi interessi materiali e morali della nazione, devono assiduamente intervenire alle sedute, ponderare i bisogni dello Stato, per vedere con quali mezzi il Parlamento possa provvedere, studiare le questioni e nelle discussioni esporre con franchezza la propria opinione, devono votare secondo la propria coscienza, mettendo da parte gli impicci di partito e gli interessi personali, non astenersi dalle votazioni in aula per non avere fastidi o per vigliaccheria. Chi non si sente capace di tanto dovrebbe avere la lealtà di rinunciare all’incarico, piuttosto che non esercitarlo ovvero esercitarlo in modo riprovevole. Il dovere di tutti i funzionari dello Stato, dal più alto al più umile, si riassume in questo: esercitare secondo coscienza le cariche dello Stato in maniera che sia raggiunto lo scopo per il quale la carica è stata loro affidata, ossia per il bene pubblico.

Purtroppo, prendiamo atto che il politico tende ad avere una doppia coscienza, una usata per giudicare le azioni private e l’altra per giudicare le azioni pubbliche. Si diventa non poco scrupolosi nell’adempimento di questioni private e non si guarda poi tanto per il sottile allorché si tratta di esercitare una carica pubblica, che essi oramai considerano più che altro come mezzo del proprio benessere. Questo per dire che ci si salva nella gestione domestica, ma si diventa pessimi cittadini nella gestione pubblica. Tutto deriva dalla cattiva educazione civile, per la quale non si considera che nell’uomo non si può separare la condizione di individuo da quella di cittadino e l’obbligo di perfezionare se stesso dal dovere di adoperarsi ugualmente al bene dei concittadini e dello Stato in generale.
Forse non sbaglia chi sostiene che possiamo additare il dovere d’ogni pubblico ufficiale allo Stato sostenendo che la carica pubblica è il modo pratico e concreto di adoperarsi per il bene della nazione. Sempre più spesso sentiamo parlare in Italia di questione morale dei partiti politici e di assenza di ogni morale da parte della gran parte dei nostri politici, con giudizi estremi carici di rabbia e di risentimento. Ma siamo sicuri di avere le idee chiare su questo delicato campo?

Forse la prima cosa da fare è riflettere su che cosa è (o dovrebbe essere) l’atto morale. Per cercare di avere una maggiore luce nella nostra mente,  proviamo a porci la seguente semplice domanda:  In che consiste l’atto morale?

Possiamo cominciare con l’osservare che le azioni materialmente prese, ossia considerate isolatamente (in se stesse) sono neutre: non sono né morali, né immorali; essi diventano tali in quanto si riferiscono ad altri individui ai quali possono giovare o nuocere. Quindi, la moralità di un’azione dipende, in primo luogo, dalla conformità ad un diritto altrui e, poiché il diritto, sia di un individuo sia di una società, in generale è protetto da una legge, possiamo affermare che la moralità dipende dalla conformità alla legge. Ma forse non basta solo una azione; probabilmente opera anche la volontà del soggetto operante.
In sostanza, affinché una azione possa dirsi morale o immorale è necessario che derivi dalla spontaneità dell’individuo (da una azione cosciente e volontaria): è l’intenzione che guida il soggetto ad operare. Quindi, a costituire l’atto morale entrano elementi oggettivi e soggettivi: l’elemento oggettivo è  indipendente dal soggetto ed è il rapporto tra l’azione e la legge della società civile; l’elemento soggettivo è la coscienza dell’opera. Entrambi sono necessari a costituire i fatti morali e da ciò nascono l’imputabilità della responsabilità dell’uomo. E’ imputabile una azione quando si deve ascrivere a chi l’ha commessa, quando, cioè è volontaria ed è volontaria quando l’uomo, avendo coscienza di ciò che opera, si determina a fare certi atti per conseguire un fine previsto e stabilito.
Tutto questo per poter affermare che uno degli elementi che costituiscono l’onestà di un atto è la conformità alla legge, la quale come regolatrice di costumi, chiameremo legge morale. Ora, è utile farsi una seconda domanda, ossia chiediamoci: ma, in che consiste la legge morale?

Il fine dell’uomo è il bene dell’individuo in armonia con il bene della società. L’uomo sente la necessità morale di governare le proprie azioni in maniera che ne derivino il bene proprio e il bene altrui. Quindi, ciò che si dice legge morale, noi lo possiamo definire come la necessità di governare le nostre azioni in maniera che il bene individuale sia in armonia con il bene degli altri. Da ciò deriva che la società umana deve difendersi da coloro i quali possono riuscire pericolosi all’esistenza ed al benessere sociale e ciò essa la fa punendo i colpevoli attraverso una Sanzione, la quale è un ufficio di repressione del reato. In pratica, la società si muove come ogni essere vivente, che guidato dall’istinto guida di conservazione si difende contro chi minaccia la propria esistenza.

E’ evidente che per avere la sanzione abbiamo la necessità delle leggi positive o civili, cioè di alcuni obblighi che l’autorità sociale impone al cittadino; obblighi i quali hanno per scopo di regolare le azioni di cittadini in maniera che ciascuno possa esercitare i propri diritti per il bene proprio e per il bene sociale. Come gli individui hanno costituito le famiglie, così le famiglie riunendosi insieme, per un interesse comune, hanno dato origine ad un’altra aggregazione che possiamo definire come la società civile, la quale è l’unione di più famiglie (e città) soggetta alla medesima autorità e regolata dalle stessi leggi.

La necessità della società civile è dimostrata dal bisogno dell’uomo, il quale ha riconosciuto che la famiglia non era sufficiente al perfezionamento umano e che la civiltà può essere solo il risultato dello sforzo comune di grandi consorzi, nei quali ciascuno, con mezzi differenti e coordinati, intente al bene comune (pensiamo alla divisione del lavoro). L’umanità si perfeziona quando in quei grandi consorzi, che si dicono società civile o politica, i cittadini attendono a cose diverse. Passiamo, ora, a porci una terza domanda, ossia, ci chiediamo: ma che cosa è la società civile?

Essa è un consorzio perenne di uomini, donne, famiglie e città che vivono sotto leggi comuni. Risalendo alle origini del genere umano, vediamo che: il bisogno della propagazione della specie ha costituito la società coniugale, la necessità di allevare la prole ha condotto l’uomo alla società domestica, poi, l’aumentare della famiglia e la molteplicità dei matrimoni, la necessità di dividere il lavoro nei terreni, hanno reso più complessi i consorzi umani che si sono raccolti in società patriarcale, in cui più famiglie vivevano insieme sotto la dipendenza della famiglia madre.
La società patriarcale era formata di soli parenti e gli uomini e le donne lavoravano per loro stessi, per i figli e per i nipoti, ma le esigenze di produzione di maggiori alimenti portarono alla formazione delle proprietà collettive su grandi estensioni di terreni, i quali venivano suddivisi e lavorati da varie famiglie, che si unirono in tribù. Queste tribù dovettero governarsi o per federazione di padri di famiglia, formando una specie di aristocrazia, o per mezzo di un capo supremo eletto tra i guerrieri più forti.
Dalle tribù è breve il passaggio alla nazione, che possiamo definire l’insieme di tutti quegli uomini che hanno in comune la lingua, le tradizioni e la patria (ossia, il territorio nel quale si svolge la vita della nazione). Alla società civile occorre un potere supremo, ossia, un’autorità sovrana a cui dovranno sottostare tutti i cittadini e questo potere si concretizza nel governo, il quale è il mezzo con il quale la società civile regola e garantisce l’esercizio della libertà dei cittadini.  Il governo deve limitarsi alle azioni civili, vale a dire agli atti dell’uomo come cittadino, senza intromettersi nelle azioni private, che non riguardano affatto la convivenza sociale.

Ciò che più importa per il retto funzionamento di un governo rappresentativo è che si determinino le attribuzioni di ciascuno dei tre poteri dello Stato in maniera che nessuno possa invadere il campo dell’altro.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




Si sblocca il bonus mamme. A chi spetta e in cosa consiste. E perché ci lascia perplessi.

Dopo vari intoppi nell’introduzione dello sgravio per le lavoratrici madri, in ultimo il mancato arrivo di una circolare Inps, ora il documento necessario è stato emanato.
L’ente previdenziale giovedì 1 febbraio ha pubblicato la circolare per rendere operativo il cosiddetto “bonus mamme” previsto dalla legge di Bilancio, che in via sperimentale per il 2024 prevede l’esonero contributivo fino a 3mila euro per le lavoratrici madri di due figli fino al decimo anno del più piccolo. Il ritardo nell’emanazione è stato provocato dalla necessità di alcune verifiche sulla base della normativa sulla privacy, per quanto riguarda l’opportunità di valutare un rapporto più diretto con le aziende accedendo ai codici fiscali dei dipendenti.

Dopo l’approfondimento sulla gestione del trattamento dei dati e un confronto con il Ministero del Lavoro, l’istituto ha quindi lavorato per la sburocratizzazione delle procedure: per agevolare l’accesso alla misura, si legge nella circolare, le lavoratrici assunte a tempo indeterminato possono comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersi dell’esonero in argomento, rendendo noti al medesimo datore di lavoro il numero dei figli e i codici fiscali di due o tre figli. Con la comunicazione dei dati dal datore di lavoro all’INPS e i successivi controlli scatterà l’erogazione del bonus. La lavoratrice può anche comunicare direttamente all’Istituto le informazioni relative ai codici fiscali dei figli.

Il bonus era previsto già dal 1 gennaio, sebbene la norma sia stata approvata il 30 dicembre. A gennaio dunque le lavoratrici non hanno ricevuto in busta paga l’importo relativo, che arriva a un massimo di 250 euro al mese. Chi ne aveva diritto già dal primo mese dell’anno recupererà l’importo dovuto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

IN COSA CONSISTE IL BONUS?

Tra le misure dedicate alla famiglia stanziate dal governo per il 2024 c’è anche il cosiddetto “bonus mamme“. Si tratta, più correttamente, di uno sconto totale – fino a 3mila euro annui – sui contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dal secondo figlio in poi.

Il bonus mamme rappresenta una decontribuzione del 9,19% dello stipendio complessivo, corrispondente alla quota di contributi che la madre lavoratrice dovrebbe pagare per il contributo IVS nel settore privato e il contributo FAP nel settore pubblico.

Lo sconto viene riconosciuto alle mamme lavoratrici con almeno due figli, che sono dipendenti pubbliche o private e che sono titolari di contratto a tempo indeterminato (anche part-time).

Dal bonus sono così escluse le madri di un solo figlio (anche se disabile), le lavoratrici domestiche, le pensionate, le lavoratrici a tempo determinato, le libere professioniste, le disoccupate e anche le collaboratrici occasionali.

La durata del beneficio varia in base al numero di figli e alla loro età: per le madri con due figli, l’agevolazione spetta fino al compimento dei 10 anni da parte del figlio più piccolo e solo per il periodo di paga dall’1 gennaio al 31 dicembre 2024.

Per le mamme con tre o più figli, invece, il beneficio vale dal 2024 al 2026 fino a quando il figlio più piccolo raggiunge i 18 anni.

Si ricorda, infine, che tra le altre misure in sostegno della famiglia per il 2024 ci sono anche il mese di congedo parentale retribuito all’80% per i genitori e un ulteriore mese utilizzabile dalla madre o dal padre entro i 6 anni di vita del figlio, retribuito al 60%. È stato inoltre incrementato il fondo per gli asili nido a 240 milioni di euro.

Fonte: tg24.sky.it


LE CRITICITÀ 

LA MANCANZA DI COPERTURE

Dare un sostegno economico alle famiglie è sicuramente una decisione positiva. Ma se, come ha detto la Meloni, lo Stato paga i contributi previdenziali alle mamme per premiare il loro “importante contributo alla società”, questo vuol dire andare ad accollare ulteriori debiti all’INPS, che finiremo per pagare tutti sotto forma di tagli alle pensioni o aumenti dell’età pensionabile.

Se si vuole dare un sostegno alle famiglie bisogna prendere i soldi dove stanno: cioè nelle tasche degli evasori, che invece il governo corteggia in tutti i modi.

L’EFFETTIVA UTILITÀ DEL PROVVEDIMENTO

La domanda che dovremmo porci è se questo bonus porterà un aumento delle nascite. Anche se il governo rifiuta di ammetterlo, il motivo del calo demografico è da ricercarsi nella precarietà e negli stipendi bassi: come può una coppia pensare di avere un figlio se ha grosse difficoltà a mettere un pasto in tavola?

Il bonus sembra andare in direzione opposta rispetto a questi problemi.
Vale solo per le lavoratrici a tempo indeterminato, nonostante le più deboli sul mercato del lavoro siano ovviamente le precarie, e riguarda una piccola minoranza delle occupate che in Italia sono al momento oltre 10 milioni. Stando alla relazione tecnica della legge di Bilancio le dipendenti private stabili con tre o più figli sono solo 110 mila. Quelle con due figli di cui uno sotto i 10 anni sono 569 mila.
Le lavoratrici con redditi sotto i 35 mila euro, va ricordato, già godono dell’esonero parziale del cuneo fiscale previsto per tutti i dipendenti, e quindi beneficeranno solo in parte del bonus.

MOSSA ELETTORALE?

Lo sgravio è di un solo anno per chi ha due figli, tre anni per le mamme che ne hanno tre o più. Sicuramente una durata insufficiente a spingere una coppia a fare un figlio in più. Volendo pensare male, non possiamo fare a meno di notare che viene varato nell’anno in cui si svolgono le elezioni europee.




Storica sentenza a Firenze su origine professionale stress lavoro-correlato

Dalla Corte d’appello riconosciuto la “costrizione lavorativa” come causa esclusiva di malattia professionale dopo ricorso dei legali del Patronato INCA CGIL


Un’importante sentenza apre la strada per il riconoscimento dell’origine professionale dello stress lavoro correlato. La pronuncia (n. 559 del 21 settembre 2023) è della Corte d’appello di Firenze che, accogliendo un ricorso promosso dai legali di Inca, ha infatti riconosciuto la “costrizione lavorativa” come causa esclusiva di malattia professionale. “Finalmente qualcosa si sta concretamente muovendo verso la giusta tutela di quella che la comunità scientifica ha iniziato a definire come la ‘malattia del secolo‘”, è il commento del Patronato della Cgil.

Gli ambienti di lavoro non sempre rispondono ai bisogni dei lavoratori in termini di benessere: molto spesso – spiega in una nota l’Inca – sono presenti fattori di pressione legati a un eccessivo carico e a ritmi insostenibili che, nel lungo termine, possono avere conseguenze negative sulla salute dei lavoratori”. Tra le problematiche maggiormente lamentate rientrano le malattie psicosomatiche, disturbi del sonno, ansia e depressione che causano disarmonia fra sé stessi e il proprio lavoro, conflitti fra il ruolo svolto in azienda e al di fuori di essa e un grado insufficiente di controllo sulla propria attività.

Alcuni dei rischi che si sono rivelati più nocivi per la salute psichica dei lavoratori sono rappresentati dalla intensità e da orari di lavoro, ma anche dalle condizioni ambientali (rumorosità, escursioni termiche, posture viziate ecc.); fattori che rappresentano un’altra importante sfida per la sicurezza e per la salute nei luoghi di lavoro. È importante sottolineare che la valutazione dello stress lavoro-correlato è parte integrante e fondamentale del Documento di valutazione dei rischi (dvr) e deve quindi essere effettuata da tutte le aziende che ricadono nel campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008.

Il caso esaminato in giudizio, spiegano da Inca Cgil, riguarda appunto un lavoratore della grande distribuzione (gdo) con ruolo dirigenziale da oltre 20 anni che, a seguito di reiterate vessazioni, pressioni e contestazioni disciplinari, messe in atto dai suoi superiori e protrattesi per oltre un anno, ha iniziato a manifestare disturbi psichici che lo hanno costretto a lunghi periodi di malattia. Da qui la decisione del lavoratore di rivolgersi all’Inca Cgil di Pisa per avviare la richiesta di riconoscimento del nesso causale; in fase amministrativa però, nonostante le evidenti condizioni di stress cui era stato sottoposto sul posto di lavoro, l’Inail ha ritenuto di dover rigettare la domanda. È stato pertanto necessario adire le vie legali e, grazie all’avvocato Marco Canapicchi, convenzionato con il patronato Inca Cgil, si è arrivati alla sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Pisa accoglieva le ragioni del lavoratore riconoscendo l’origine occupazionale della patologia.

Il dispositivo della sentenza è stato successivamente confermato anche in secondo grado dalla Corte d’Appello di Firenze che, poiché non è stato impugnato dall’Inail, ha reso definitivo il riconoscimento giudiziario.

Come Inca Cgil -commenta Sara Palazzoli del collegio di presidenza – riteniamo fondamentale questa sentenza che rappresenta un grande passo in avanti per l’emersione dello stress- lavorativo come causa di danno cronico alla salute. Quanto deciso dai giudici di merito di primo grado e secondo grado conferma che lo stress derivante dall’organizzazione del lavoro e dalle condizioni ambientali ad esso collegate hanno conseguenze negative per la salute dei lavoratori. Lo stress può anche influire sull’attenzione del lavoratore durante lo svolgimento delle sue mansioni e quindi aumentare il rischio di infortuni. I danni da lavoro che ne derivano sono ancora ampiamente sottostimati e spesso sono confusi con una qualsiasi malattia comune tutelata da Inps; il che espone i lavoratori ad affrontare enormi difficoltà per l’ottenimento delle tutele di Inail“, spiega ancora.

Noi, come Patronato ci adoperiamo – continua Palazzoli – affinché i lavoratori si rendano conto dell’importanza di attenzionare il loro benessere psicologico e in caso di necessità o di dubbi, occorre rivolgersi all’Inca Cgil che, con l’aiuto di medici specialisti convenzionati, è in grado di assicurare un’adeguata assistenza medico legale e legale, ed avviare l’eventuale percorso per il giusto riconoscimento del danno da parte di Inail”.

Su questo specifico tema, il Patronato Inca Cgil è da tempo impegnato e ha anche attivato una collaborazione con l’Università Cattolica di Roma per l’emersione dello stress lavoro-correlato, con il fine di mettere in campo la giusta tutela per chi si ammala di questa patologia, che pare essere un po’ ‘figlia del nostro tempo’.

 

Fonte: Adn Kronos

 




La guerra fredda tra Capitale e Lavoro

La guerra tra Capitale e Lavoro, alimentata durante quattro secoli di capitalismo, aveva trovato in Occidente, alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, un compromesso (di frequente astioso), che è durato fino alla caduta del muro di Berlino.

l rapporti che legavano tra loro il Capitale europeo e il Lavoro europeo vengono di fatto esplicitati nel mondo durante l’età florida dell’imperialismo, ossia nel periodo compreso tra la seconda metà del 1800 e l’inizio della prima guerra mondiale (1914): in questo periodo si assiste ad una integrazione economica dei paesi sottosviluppati, sotto forma di Colonia, in un sistema economico mondiale dominato dai paesi industrializzati. Negli Stati Uniti fu l’età dell’oro, che vide la nuova economia industriale estendersi fino ad abbracciare l’intero continente dietro la spinta del capitalismo verso la supremazia economica. In sostanza, gli eredi speciali di quel titanico sistema economico del capitalismo e delle tecnologie, le quali si sviluppavano con esso, continuarono ad essere degli europei e la loro filiazione in terra americana, grazie alla emigrazione di milioni di persone (in particolare tra il 1850 ed 1910), principalmente scozzesi, irlandesi, polacchi, tedeschi, italiani e portoghesi.

E’ fondamentale osservare che, oltre al movimento delle persone verso gli USA, ci fu anche il movimento di capitali, cioè di fondi usati per investimenti nelle attività economiche; in tal modo negli Stati Uniti si ebbero cospicui flussi di risorse per finanziare le costruzioni di canali, di ferrovie e di industrie di ogni genere, vista la grande produttività realizzata dai lavoratori per la straordinaria ricchezza dell’agricoltura nella zona temperata del Nord America. Se ripercorriamo un poco la storia, non abbiamo difficoltà nel ricordare che una enorme riserva di manodopera era divenuta utilizzabile da parte del Capitale europeo durante i quattro secoli di espansione dell’economia dell’europa occidentale a partite dalla scoperta del continente americano. In ogni era di sviluppo successivo del capitalismo, a partire dai Paesi Bassi e dall’Inghilterra prima e poi dalla Germania dagli Usa, le tecnologie venivano continuamente modernizzate e implementate, ma, il beneficio derivante da questi cambiamenti tecnologici era sempre a vantaggio di europei bianchi. Gli interessi del Capitale europeo reclamarono esplicitamente l’esigenza che fossero degli europei ad amministrare la Compagnia delle Indie Orientali inglese e la Compagnia delle Indie Occidentali olandese; essi ebbero bisogno di soldati europei per imporre il loro ordine in America Latina, nel subcontinente Indiano, e per dominare la Cina. Negli USA, il Capitale occidentale rendeva disponibili nuovi posti di Lavoro, ma, erano soprattutto i lavoratori occidentali a trarre grandi benefici da ciascun nuovo passo in avanti, mentre per i lavoratori provenienti dalle colonie vi erano solo i duri lavori manuali nelle ferrovie e nelle fabbriche. Gli immigrati europei potevano contare sull’istruzione migliore e, di conseguenza, ebbero accesso a salari migliori rispetto a paesi industrializzati del continente europeo, come l’Inghilterra.

Se confrontiamo la condizione di quanti vivevano del proprio Lavoro in Inghilterra con quelli dei lavoratori residenti nel Nord America troviamo forti differenze legate al fatto che i redditi dei lavoratori dipendevano dalla scarsità relativa di ciò che essi avevano da offrire, e, siccome in Inghilterra la manodopera abbondava, chi era costretto a vivere con i frutti del proprio Lavoro si trovava sotto una tirannia economica, dove la rendita e il profitto divoravano i salari e i capitalisti opprimevano i lavoratori. Al contrario, nelle nuove colonie i vantaggi economici legati all’attività produttiva costringevano i capitalisti a trattare i lavoratori in modo più generoso e umano. Infatti, vi erano terre incolte della massima fertilità accessibili a prezzi bassissimi la cui messa in produzione realizzava un aumento delle rendite dei latifondisti, ma, questo grande profitto non si poteva ottenere senza impiegare il lavoro di tante persone, necessarie per il disboscamento e la coltivazione della terra, e la sproporzione tra la grande estensione della terra e il piccolo numero di abitanti rese difficile ai capitalisti il procacciarsi la manovalanza, e, pertanto, il Capitale fu disposto a impiegare manodopera a qualsiasi prezzo per lunghi periodi.

Questo spostamento contemporaneo di Lavoro e Capitale produsse una élite economica globale in cui potevano accedere per lo più solo europei bianchi; i non europei (ossia la manovalanza afroamericana, messicana e cinese) vennero impiegati solo in occasione di improvvise carenze di manodopera nazionale, specie nelle fasi di forte espansione economica che andarono dal 1870 al 1920. I manovali cinesi vennero impiegati a tempo determinato per la costruzione delle ferrovie americane, mentre gli afroamericani negli Stati del Sud continuarono a lavorare i campi anche dopo la fine della guerra civile e solo dopo lo scoppio della prima guerra mondiale passarono nell’industria del nord lasciando il posto come manodopera agricola ai messicani. Gli economisti capitalisti vedono in questo periodo una specie di paradiso, una rapida espansione economica alimentata dal torrente di invenzioni e innovazione proliferate nelle ultime fasi della rivoluzione industriale, con una ottima combinazione tra stabilità monetaria, determinata dalla parità aurea e stabilità di prezzi, causato dalle vendite delle derrate alimentari provenienti in grandi quantità dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Australia, dalla nuova Zelanda e dalla Argentina.

Il periodo compreso tra le due grandi guerre ha segnato un passo indietro rispetto alla dipendenza dell’economia globale: la parità aurea è stata gradualmente abbandonata e i diversi paesi hanno adottato politiche commerciali protezionistiche, applicando tariffe doganali, contingentamenti e altre restrizioni, nel tentativo di sostenere l’occupazione interna con conseguenze disastrose da ogni punto di vista. Alla fine della seconda guerra mondiale i paesi che componevano l’alleanza vittoriosa, per ripristinare una fiorente economia a livello internazionale, hanno dato vita ad alcune istituzioni (fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale) ed accordi generali sulle tariffe doganali che hanno portato, tra il 1945 e il 1955, ad un crescita vigorosa dei fondamentali economici nei paesi del blocco occidentale.

Con la fine della guerra fredda, abbiamo il trionfo globale del capitalismo e la diffusione del libero mercato ai quattro angoli del pianeta. Di conseguenza, il Capitale occidentale avvia una fuga verso i paesi in via di sviluppo e decide che non ha più bisogno di portarsi dietro i bianchi europei occidentali, preferendo utilizzare lavoratori professionisti dell’ Europa orientale e dell’Asia altamente motivati, pieni di talento e meno costosi. Infatti, l’esistenza di sistemi scolastici di impronta socialista (combinata con curricula professionali messi insieme lavorando all’estero) ha prodotto, nei paesi in via di sviluppo, popolazioni di élite avide di buoni impieghi. Il risultato di tutto questo è la fine di 400 anni di simbiosi tra Capitale e Lavoro del mondo occidentale, infatti, mentre la mobilità della manodopera occidentale è diminuita ai minimi livelli, la mobilità del Capitale ha fatto un salto di qualità con una nuova capacità del Capitale di spostarsi qua e là per il mondo senza tirarsi dietro il lavoro dei manager, dei dirigenti e dei tecnici, travolgendo per la prima volta i tradizionali concetti economici. In sostanza, nella vecchia economia globale Capitale e Lavoro procedevano insieme, nella nuova economia globale il Capitale del mondo industrializzato galoppa da un punto all’altro del pianeta con una facilità prima impensabile e coloro (appartenenti allo storico blocco occidentale) che si guadagnano da vivere con il proprio Lavoro restano oggi a casa smarriti, con redditi stagnanti e instabilità occupazionale.

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti

 

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Lavoro: Governo dove sei?

Purtroppo, dobbiamo con rabbia ammettere che per i più giovani il lavoro in Italia è spesso un traguardo difficile da raggiungere.

Ai politici di oggi, che in massima parte vivono in un mondo lontano dalla realtà quotidiana, possiamo dire che oggi abbiamo bisogno di realismo: dobbiamo oltrepassare le sterili critiche sul rapporto fra giovani e mondo del lavoro, prendere atto che le occasioni di impiego non sono adeguate e le opportunità lavorative sono scarse o limitate.

Parliamo con superficialità di flessibilità e di adattabilità, dimenticando che i giovani oggi non disdegnano il lavoro manuale, che in una società informatizzata e  sempre più virtuale può essere anche stimolante, ma si limitano a  rifiutare lo sfruttamento e la mancanza di valorizzazione. Giustamente hanno paura di tutto ciò che li possa intrappolare in condizioni di precarietà, dove né l’impegno né la competenza vengono riconosciute. I giovani di oggi accettano ogni tipo di impiego,  anche quelle attività che non siano coerenti con la preparazione posseduta, sono disponibili a “pedalare” sotto la pioggia e il freddo o sotto la calura estiva, chiedendo solo che essi siano discretamente pagati.

Il Papa non ha paura di dichiarare che il lavoro è una dimensione irrinunciabile alla vita sociale perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per esprimere se stessi e per vivere come popolo. Il Papa insiste sul fatto che i giovani devono avere contratti dignitosi, i quali devono salvaguardare i tempi e gli spazi in famiglia, Egli proclama che il riconoscimento della dignità umana passa dalla promozione del lavoro.  

Molti si interrogano su chi attribuire la colpa di questa squallida situazione. Non è solo una questione di “crisi economica”, il problema principale sono i limiti strutturali del mercato, con  poche occasioni, con contratti a breve e precari, poi viene la preferenza amorale data ai raccomandati dalla politica, male storico del nostro paese, poi la minore esperienza nel mondo del lavoro, la concorrenza degli immigrati comunitari ed extracomunitari oramai in tutti le categorie economiche, e le regole troppo rigide per l’ingresso nel mondo del lavoro, con le giovani donne che rimangono le più penalizzate.

E’ il sistema economico nel quale viviamo che si ispira a fondamenti errati e falsificati, come la notissima teoria di Adamo Smith, che nel lontano 1776 promulgò l’articolo primo della costituzione capitalista, decretando che  ognuno facendo i propri interessi (per egoismo, per tornaconto) contribuisce all’interesse collettivo. Ci hanno così imposto teorie che hanno provocato solo disastri. Questo signore, tanto osannato e riverito, aveva nella sua “grande magnificenza”  dimenticato una metà del mondo, quella femminile, che  non agiva mossa dall’egoismo individuale, che produceva con efficienza in famiglia e nei lavori agricoli.

Se poniamo attenzione sul rapporto tra donne e lavoro sentiamo l’urgenza di rivalorizzare il ruolo delle donne,  che la teoria economica capitalista ha negato per secoli, non riconoscendo, né dando un valore reale (economico) al lavoro delle donne, che tra le mura domestiche hanno mandato avanti il mondo.

Non commette errore chi sostiene che ad oggi in Italia solo una donna su tre ha un lavoro regolarmente retribuito, ovviamente al di sotto della media europea.

Essere mamma oggi è una sfida alla resistenza, se pensiamo al sostegno alla maternità assicurato nel nostro paese o  al numero degli asili o al progressivo abbandono dei disabili e degli anziani da parte delle istituzioni.

Ma il governo sembra ignorare tutto questo, preferendo ragionare secondo “dati” Istat.

 

Antonello Pesolillo 
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




Le tasse in Italia: progressive al contrario

Prelievo più alto per i redditi bassi: il sistema punisce il lavoro e premia le rendite


Secondo la Costituzione, chi guadagna di più dovrebbe pagare proporzionalmente più tasse. Ma l’articolo 53 della Carta (“Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) è ormai lettera morta. Lo mostra in modo spiazzante un recente studio, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of the European Economic Association: in Italia i super-ricchi pagano in proporzione meno tasse del resto dei loro concittadini.

L’analisi fa chiarezza nella giungla delle tasse del Belpaese (fra redditi da lavoro dipendente, autonomo, da capitale, eccetera) e ricostruisce l’“aliquota effettiva” pagata dagli italiani. Il risultato? “Il sistema fiscale italiano è solo blandamente progressivo per la maggior parte (della popolazione, ndr) e diventa regressivo per il 5% più ricco”.
Un esempio può aiutare a capire. Un super-manager che guadagna 520 mila euro l’anno fa parte dell’1% più ricco degli italiani. Ora prendiamo un connazionale precario, che guadagna 15 mila euro annui (rientrando nel 40% dei più poveri). Nonostante tutto, il precario pagherà proporzionalmente più tasse: il 42% del suo reddito, contro il 36% di tasse pagate dal super-manager. Gli autori dello studio (Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi e Andrea Roventini della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, insieme ad Alessandro Santoro dell’Università Bicocca di Milano) mostrano che i risultati rimangono simili anche tenendo conto dei contributi sociali, che non sono tasse vere e proprie ma che influenzano comunque il reddito disponibile.

Il perché di questo squilibrio è presto detto. Il nostro sistema tratta le varie tipologie di reddito in modo radicalmente diverso: in sintesi, il lavoro dipendente è più tassato del lavoro autonomo e molto più tassato del reddito da capitale. Per fare un esempio: un italiano che guadagna 46 mila euro annui pagherebbe circa il 54% di tasse sul reddito da lavoro dipendente, mentre solo il 34% sul reddito da capitale. È facile capire che un sistema del genere disincentiva il lavoro (altro che Reddito di cittadinanza…). A essere favoriti sono invece i profitti (nel migliore dei casi) e le rendite finanziarie e immobiliari (nel peggiore).

Con le crisi degli ultimi decenni, queste distorsioni hanno effetti perversi sulle disuguaglianze. Fra il 2004 e il 2015 il reddito nazionale in Italia è calato del 13%, ma il costo è stato più pesante per le classi popolari. Il 50% più povero, infatti, ha perso in media il 30% del reddito, mentre l’1% più ricco neppure il 3%. Ma i problemi non finiscono qui. Ad aver pagato di più le conseguenze della crisi sono stati giovani e donne. Nel 50% più povero, la fascia tra i 18 e i 35 anni ha visto quasi dimezzarsi il proprio reddito (-43%). E il divario di genere ha messo radici ancora più profonde in tutte le classi di reddito.

Ovviamente non è solo una questione di reddito. Gli ultimi dati della Banca d’Italia mostrano che il 5% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza del Paese (il 46%, per la precisione). Un circolo vizioso: è anche grazie a queste ricchezze concentrate in poche mani che i più abbienti guadagnano redditi molto più alti. Redditi che poi vengono tassati in modo light, aumentando ancor più le disuguaglianze…

Ma la patrimoniale e le tasse sugli extra-profitti restano ancora tabù.

Articolo di Alessandro Bonetti su “Il Fatto Quotidiano” del 13/1/2023




Il 5% delle famiglie italiane detiene quasi metà della ricchezza totale

“Il 5% delle famiglie italiane possiede circa il 46% della ricchezza netta totale”.

È quanto si legge nell’analisi della Banca d’Italia nell’ambito Bce secondo cui “i principali indici di disuguaglianza sono rimasti sostanzialmente stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016”.

Lo studio evidenzia come le famiglie meno abbienti possano contare principalmente sul possesso dell’abitazione mentre quelle più benestanti detengano un portafoglio più diversificato in azioni, depositi, polizze. L’analisi ricorda come “metà della ricchezza degli italiani sia rappresentata dalle abitazioni” e “tale percentuale varia tuttavia fortemente in base alla ricchezza: le abitazioni raggiungono i tre quarti della ricchezza per le famiglie sotto la mediana, si attestano poco sotto il 70% per quelle della classe centrale mentre scendono a poco più di un terzo per quelle appartenenti alla classe più ricca.”

Per le famiglie più povere, i depositi sono l’unica componente rilevante di ricchezza finanziaria (17%).

 

Da “Il Fatto Quotidiano” del 9/1/2023

 

Leggi il report Bankitalia




L’uomo dell’anno

L’edizione odierna di Libero si apre con un titolo a tutta pagina e la foto di Giorgia Meloni: per il 2023 è lei l’uomo dell’anno.

Può sembrare un titolo provocatorio: in realtà è assolutamente coerente ed allineato alla linea editoriale di quel giornale ed alla sua vocazione di megafono delle idee del centrodestra.

Per avere un Presidente del Consiglio donna abbiamo aspettato oltre 160 anni: dal 1861 al 2022. Quando finalmente questo è accaduto – ed è stato, a prescindere dal colore politico e dalle idee che porta avanti, un momento storico – abbiamo avuto a capo del governo una donna che ha preteso di essere chiamata “presidente”. Al maschile. Perché?

Non è un mistero per nessuno il percorso che ha portato alla fondazione di Fratelli d’Italia: la sua discendenza dal MSI, a sua volta erede del fascismo e delle sue idee. Idee mai rinnegate, come dimostra il simbolo del partito: la fiamma tricolore che idealmente nasce dalla tomba di Mussolini.

L’idea che quell’area politica ha delle donne non è mai cambiata molto. La donna ha un suo ruolo preciso: lei è “l’angelo del focolare”. Il suo compito è fornire figli alla Patria, educarli secondo la tradizione cristiana ed accudire l’uomo. Quello che deve mantenere lei e la famiglia con il suo lavoro. Qualsiasi altra attività distrae la donna dal suo “ruolo naturale”: Quindi la donna che studia o ha ambizioni di carriera viene distolta dalla sua funzione, e questo non va bene.
Sono questi per intenderci, i valori della nostra tradizione ai quali si rifanno continuamente i politici di destra. E nel caso aveste dubbi, leggetevi questo articolo apparso – guarda caso – sempre su Libero:

Togliete i libri alle donne: torneranno a fare figli

E’ passato qualche anno dalla pubblicazione dell’articolo, ma la linea editoriale non è cambiata di un millimetro. E l’autore dell’articolo, Camillo Langone, non ha smesso di scrivere. Attualmente lo fa per Il Giornale. Cioè la succursale di Libero.

E quindi ecco che la prima pagina scelta da Mario Sechi, desideroso di mostrare alla Premier (noi continuiamo a scriverlo al femminile) la sua fedeltà, improvvisamente appare tutt’altro che provocatorio.

Quale modo migliore per compiacere la prima donna a capo del governo in Italia, sapendo che anche lei è convinta nel suo intimo che il posto di una donna non sia quello (ovviamente lei esclusa), che assimilarla ad un uomo?

Sono tanti gli auguri che potremmo fare per il 2024. Scegliamo di augurare a tutti di vivere in un paese nel quale una donna non si debba vergognare della sua femminilità quando arriva a ricoprire un ruolo importante, e che gli uomini sappiano riconoscere a tutte le donne il pieno diritto ad esprimersi e realizzarsi.

 

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La “formula vincente” dei discount? “Turni massacranti, personale all’osso, stagisti usati come dipendenti”

Con l’aumento dell’inflazione e la stagnazione dei salari, i discount sono ormai diventati un punto di riferimento per moltissimi consumatori costretti ogni mese a far quadrare i bilanci familiari al centesimo. Ma dietro alle offerte di questi supermercati a buon mercato che spesso vendono a prezzi concorrenziali e talvolta sottocosto spesso si nasconde anche la compressione dei costi che impatta – è la denuncia dei lavoratori – soprattutto su stipendi e condizioni di lavoro di chi opera nei punti vendita. E insomma, specialmente nell’ultimo anno, in queste realtà i fatturati sono esplosi, ma a questo non è corrisposto affatto un miglioramento delle condizioni per i dipendenti. Anzi.

Le segnalazioni arrivano da diverse realtà di questo settore (anche se non tutte le aziende si comportano alla stessa maniera): turni massacranti, spesso comunicati con preavvisi di pochi giorni, assunzioni e turnazioni di personale ridotte all’osso, punti vendita che vanno avanti con il minore impiego possibile di dipendenti, grandissimo ricorso a contratti stage o contratti part-time a tempo determinato con clausole di flessibilità che costringono i precari a firmare assunzioni a 24/30 ore a settimana per poi accettare richieste di straordinario continue che fanno lievitare oltremodo il monte orario e di fatto impediscono al lavoratore di poter avere un equilibrio tra vita privata e lavoro. Queste le caratteristiche principali più volte denunciate nel corso degli anni dai lavoratori del comparto e dalle rappresentanze sindacali attive nel settore.

In Eurospin, forse uno dei discount italiani più noti, i sindacati hanno promosso un grande sciopero nell’agosto del 2022, mettendo in rilievo le pessime condizioni di lavoro a cui sono sottoposti molti dipendenti della grande catena, puntando il dito soprattutto sulle richieste dei direttori di filiale volte ad aumentare il più possibile il tasso di produttività del punto vendita per risultare competitivi agli occhi dell’azienda madre, a scapito dei dipendenti assunti. Un modello che sembra non essere caratteristica esclusiva di Eurospin ma anche di molte altre realtà simili.

 

Non va meglio in Penny Market, altro noto discount diffuso in tutto il Paese. “Ho lavorato per mesi come direttore di filiale e ho potuto toccare con mano le tante incongruenze di questa azienda. Il mio contratto, come quello di tutti i direttori, prevede lo straordinario forfettario che però non va di certo a favore del lavoratore”, racconta Alfonso (altro nome di fantasia, ndr).
“Quando firmi non sai a cosa stai andando incontro, quante ore dovrai fare davvero. Finisci per vivere in azienda. Le ore di straordinario puntualmente ogni settimana devono essere suddivise per i membri dello staff di negozio e il problema è che ci sono troppe poche persone per coprire in modo corretto le ore di apertura del punto vendita. Quindi per poter arrivare a coprire tutte le ore, il direttore si sobbarca tutte quelle che i dipendenti assunti in quel punto vendita non possono fare. Per aver messo in rilievo queste storture sono stato messo in punizione e mandato in un altro negozio, ho subito comportamenti ai limiti del mobbing. Nel negozio dove sono inviato in seconda istanza ho visto il responsabile obbligare i membri del team a timbrare la fine del proprio turno alle 21 per poi intrattenersi nel negozio fino alle ore 22/22:30 per sistemare tutto ciò che non era stato possibile sistemare durante il turno. E questa è praticamente prassi, non un caso”.

Devi sempre essere disposto a fare sempre straordinari, arrivando a lavorare anche 45/50 ore a settimana. I tirocinanti sono un altro tassello della compressione dei costi, è lavoro dipendente mascherato e molto conveniente: non si versa nulla, c’è solo il rimborso spese e nessun contributo. Dopo lo stage di solito fanno contratti a tempo determinato con i vari rinnovi per poi proporre l’apprendistato inquadrato due livelli in meno, ma a questi apprendisti vengono chieste le stesse cose che vengono chieste a un lavoratore non apprendista. Ci sono punti vendita portati avanti dagli apprendisti, che gestiscono ordini e burocrazia in tutto e per tutto, e punti vendita in cui gli apprendisti fanno da tutor agli stagisti. E’ un qualcosa di paradossale. Il dipendente deve praticamente fare tutto, dal cassiere al contabile alle pulizie, non esistono mansioni.  ”, conclude Margherita.

Fonte: Il fatto quotidiano

 

 




Loro lo sanno che è Natale?

Era il Natale del 1984, quasi quarant’anni fa, quando venne pubblicato il brano “Do they know it’s Christmas” eseguito dalla Band Aid, un super gruppo costituito dai più importanti cantanti e musicisti britannici. Il brano entrò a far parte a pieno titolo della tradizione natalizia.

L’idea venne a Bob Geldof, particolarmente colpito dalle immagini trasmesse dalla BBC che mostravano gli effetti drammatici della carestia in Etiopia. Da qui l’idea di mettere insieme i nomi più famosi della scena musicale per un’iniziativa di solidarietà destinata a diventare la prima di una serie di eventi analoghi. Dal punto di vista artistico non si trattò di forse un capolavoro: brano orecchiabile, costruito per restare in mente, con testo piuttosto banale. Ma l’iniziativa ottenne un grande risultato: calcolando anche il successivo concerto Live Aid si stima che furono raccolti circa 150 milioni di sterline.
Certo, all’epoca era facile essere solidali: le immagini dei bambini affamati erano strazianti, e le loro famiglie avevano il “buon gusto” di non pretendere di fuggire dalla miseria, restando nel loro paese d’origine e consentendoci di sentirci buoni “aiutandoli a casa loro”.
Tutto molto natalizio.

Prendiamo spunto da quell’evento, ormai piuttosto datato, perché in questi quattro decenni il mondo è cambiato. Non in meglio. E sono davvero in tanti quelli che a Natale avranno altro a cui pensare.

Continueranno a non festeggiare il Natale le popolazioni più povere dell’Africa vittime di carestie, persecuzioni, conflitti. Situazioni per le quali i nostri paesi ricchi hanno responsabilità pesanti. Ma insieme a loro non lo festeggeranno quelli che stanno provando a conquistarsi una vita migliore, diritto inviolabile di ogni essere umano, e sono impegnati ad attraversare il deserto, o cercano di imbarcarsi su bagnarole che potrebbero trascinarli in fondo al mare, o ancora sono reclusi nei lager libici che noi abbiamo finanziato per tenerli lontani.

Non festeggeranno il Natale le popolazioni ucraine alle prese con una guerra voluta da un criminale come Putin, ma alimentata e prolungata dall’Italia e dalle altre nazioni occidentali, sulla base di calcoli di convenienza geopolitica che non tengono in nessuna considerazione il numero di vite umane da sacrificare.

Non festeggeranno il Natale i Palestinesi, vittime di una rappresaglia feroce che ricorda molto, nelle logiche, quelle della “guerra al terrore” combattuta (e persa) dall’occidente tra Iraq, Afghanistan, Yemen e Libia. Guerra che ha lasciato distruzione, instabilità e più aspiranti terroristi di quelli che c’erano prima.

E senza guardare tanto lontano, non festeggeranno il Natale nemmeno le 1.500 famiglie dei lavoratori dei call center messi per strada, proprio sotto le Feste, dalle scelte di un governo che ha approfittato della fine del mercato tutelato di luce e gas per revocare la clausola sociale, che avrebbe consentito loro continuità lavorativa presso i nuovi gestori. Una scelta poco natalizia ma che risponde alla logica del libero mercato, in cui le imprese devono essere lasciate libere di fare ciò che vogliono.

Quasi quarant’anni. Il mondo non è migliorato, ma anche noi siamo peggiorati. Ci siamo chiusi e siamo diventati più egoisti ed indifferenti. Ciò che accade fuori dalla porta di casa non c’interessa, e non abbiamo nessuna voglia di batterci per migliorare le cose. Neanche quando ci viene richiesto di aderire ad una giornata di sciopero per chiedere, tutti insieme, un Paese più giusto.

Alla fine il nostro atteggiamento verso gli altri è sintetizzato nel verso più riuscito del brano della Band Aid, affidato alla voce di Bono Vox:
“Tonight thank God is them instead of you”
Stanotte ringrazia Dio che tocchi a loro invece che a te.

Che si sia credenti o meno, il Natale è un’occasione per riunirsi , per stare insieme e coltivare rapporti che durante l’anno tendiamo a trascurare. Si festeggia una nascita: sarebbe bello se fosse anche l’occasione per una rinascita, per ragionare su quanto in quel momento si sia privilegiati. E riscoprire la capacità di indignarsi, di rifiutare un mondo davvero troppo brutto. Sarebbe già un buon inizio.

A tutti voi e alle vostre famiglie i più sinceri auguri di buone feste dalla Fisac Abruzzo Molise.