No, l’8 marzo non è la “FESTA DELLA DONNA”!

Davvero serve ancora spiegarlo? Dopo tutti questi anni? Davvero serve spiegare che l’8 marzo non è una festa e non è stato inventato per vendere i cioccolatini o per riempire le pizzerie?
Sembra assurdo. Eppure, siamo convinti che da stamattina i telefoni di tutte le donne si stiano riempendo di messaggi che dicono “Buona festa della donna”. E quindi sì, serve ancora spiegarlo. Spiegare che la “Giornata Internazionale della Donna” non è una festa. Che non c’è davvero niente da festeggiare. E che le persone che mandano gli auguri in quel modo non hanno ben chiaro il senso di questa giornata.

Facciamo un breve ripasso sulle origini di questa giornata.

PERCHE’ L’8 MARZO SI CELEBRA LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

PERCHE’ L’8 MARZO SI REGALANO LE MIMOSE?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

A COSA SERVE CELEBRARE LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA?

Serve proprio a ricordare che non c’è nulla da festeggiare, e che per quanto ci illudiamo di aver fatto passi da giganti sulla via del progresso e della civiltà, continuano ad esistere due realtà diverse per gli uomini e per le donne.

Anche volendo limitare l’analisi al nostro Paese, i numeri sono chiarissimi:

  • In Italia lavora il 53% delle donne, contro il 70,6% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile). Le donne inattive (cioè quelle che non lavorano e non cercano lavoro) sono il 42,1% contro il 24,4% degli uomini. (1)
  • La retribuzione media delle donne è inferiore del 43% rispetto a quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini. (2)
  • Per quanto riguarda gli incarichi esecutivi, la situazione è pressoché immutata nel corso dell’ultimo decennio. Stando ad un’indagine svolta dalla rivista Forbes Italia, emerge una minoranza di donne nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato (dirigenti: 83% uomini, 17% donne; quadri: 69% uomini, 31% donne), mentre, se si guarda il dato del mercato nel suo complesso, la situazione risulta migliore (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).
    Nell’ambito del privato, le funzioni che contano più donne manager sono auditingcompliance e risk management (donne dirigenti: 2,2% e quadri 27,3%), legale (donne dirigenti: 1,8% e 11,8% quadri), area tecnica & ricerca e sviluppo (donne dirigenti: 0,9% e quadri 10,6%).
    E ancora risorse umane e organizzazione (donne dirigenti: 1,4% e 9,8% quadri), marketing e comunicazione (donne dirigenti: 1,1% e quadri 9,6%). Tra le società quotate, le ad rappresentano solo il 2% del totale (3,3% nel 2013) e soltanto il 3,8% di chi ricopre il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione (2,9% nel 2013). (2)

  • Una donna su cinque è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma. (3)
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. In 20 anni la differenza tra le pensioni medie delle donne e quelle degli uomini, in Italia, è cresciuta da € 3.900 a € 6.100 (4)
  • Sono 120 le donne uccise in Italia nel 2023. Nell’45% dei casi le donne vengono uccise da un familiare o da un parente. Per gli uomini questa percentuale scende al 3,7%. (5)
  • Oltre il 30% delle donne ha subito nel corso della sua vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che rappresentano la logica conseguenza di un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione. Un tema che avevamo affrontato in questo articolo:

A cosa servono le donne italiane?

Non c’è niente di male a sfruttare questa ricorrenza come occasione per una serata con le amiche. Ciò che conta è ricordare che l’8 marzo non è una festa, ma una giornata dedicata a riflettere su ciò che non possiamo continuare ad accettare e che tutti, uomini e donne, dobbiamo impegnarci a cambiare.

 

Fonti:
(1) ISTAT
(2) Forbes Italia
(3) Il Sole 24 Ore
(4) Econopoly – Il Sole 24 Ore
(5) Fanpage




Il 9 marzo a Roma manifestazione nazionale: “Libertà di manifestare, cessate il fuoco a Gaza, impedire il genocidio”

La Cgil insieme all’ANPI, alle associazioni democratiche, cattoliche e studentesche organizza  per sabato  9 marzo una manifestazione nazionale a Roma, per sostenere una serie di richieste:

  • difendere il diritto e la libertà di manifestare;
  • cessate il fuoco a Gaza;
  • impedire il genocidio;
  • garantire assistenza umanitaria alla popolazione;
  • liberare ostaggi e prigionieri;
  • fine dell’occupazione; riconoscimento dello Stato di Palestina sulla base delle risoluzioni ONU;
  • conferenza internazionale per la pace e la giustizia in Medio Oriente.

INIZIO CORTEO IN PIAZZA DELLA REPUBBLICA: ORE 12.45
ARRIVO AI FORI IMPERIALI E CONCLUSIONE: ORE 17.30

La Cgil Abruzzo Molise organizza dei pullman gratuiti da tutte le Province. Chi fosse interessato a partecipare può contattarci all’indirizzo [email protected].




Un mondo di governi pubblici deboli e di banche centrali private forti

Oramai si è diffusa l’idea che sono i dirigenti belle banche centrali che consentono al capitale di spadroneggiare. La tesi da molti sostenuta si basa sul fatto che le banche centrali, le quali sono quasi sempre enti privati, hanno di fatto sancito che, nella economia globalizzata del dopo guerra fredda, i lavoratori delle industrie e del terziario del mondo, ossia gli eredi “necessari” del capitalismo, debbano condurre una vita da miserabili. A supporto vengono mostrati i dati storici che mostrano che la loro politica è quella di tollerare tassi di crescita sostenuti (dal 5% in su) nei paesi emergenti e di respingere ogni tentativo di una crescita economica rapida nei paesi industrializzati, evidentemente per evitare gli effetti di un rialzo anche minimo del tasso di inflazione.

Molti sostengono che, invece che bilanciare gli interessi tra chi non dispone di un capitale di partenza (che possiamo definire i proletari del nuovo millennio, ossia, coloro che per vivere possono contare unicamente sulla retribuzione derivante dall’offerta a terzi del loro lavoro) e deve indebitarsi e chi possiede capitali da dare in prestito, hanno permesso che l’economia del mondo industrializzato fosse diretta in modo che gli interessi dei debitori, ossia delle maggioranza delle giovani famiglie di lavoratori subordinati,  venissero immolati agli interessi dei capitalisti creditori, cioè dei banchieri e di coloro che hanno vissuto e vivono dei capitali investiti nel mercato azionario.

Se osserviamo gli USA, verifichiamo che gli Stati Uniti stanno vivendo una fase storica in cui la finanza domina su tutto; al centro di questa strana cultura si colloca la borsa e come strumento di azione abbiamo i money managers, anziché le fabbriche e/o i laboratori di ricerca. Sembra che i laureati che vengono fuori dalle grandi scuole di amministrazione aziendale del paese (come Harvard o Stanford) si dirigano di corsa verso le banche di investimenti anziché orientarsi verso un lavoro nell’ambito della economia reale. Ora possiamo accettare con un buon grado di convinzione che storicamente la finanziarizzazione della società è stato un segnale che la posizione economica di un paese sia entrata in una fase di declino.

Alla metà del 1700 le élite olandesi (l’Olanda è il primo paese dove si afferma il capitalismo) erano ormai ridotte ad un piccolo gruppo di speculatori e di redditieri, i quali percepivano redditi non derivanti dal lavoro, ma da capitali (prestavano denaro a qualsiasi monarca). Poi la Gran Bretagna (secondo paese dove si è affermato con forza  il sistema capitalistico) si trovò in una fase simile nel primo decennio del 1900: mentre  la sua industria manifatturiera perdeva terreno, il settore dei servizi finanziari divenne estremamente forte e la sua élite di banchieri e rentiers, i quali controllavano quasi la metà dei capitali di rischio di tutto il mondo,  erano convinti che le attività e gli investimenti finanziari avrebbero neutralizzato qualsiasi crisi dell’industria (in particolare la tessile, la  siderurgica e la cantieristica navale, tridente vincente della produzione anglosassone). È evidente che questi finanzieri avevano torto marcio ed è sempre più chiaro che hanno torto anche coloro che oggi inneggiano alla saggezza delle borse.

Pressando su un ambiente economico in cui i tassi di interesse al netto dell’inflazione sono e permangono alti, i capi delle banche centrali del mondo industrializzato hanno rappresentato un gigantesco trasferimento di reddito dalle famiglie (e anche dalle piccole imprese) alle banche ed alle istituzioni finanziarie internazionali per agevolare la trasformazione del mondo del capitalismo industriale in un mondo del capitalismo finanziario e i lavoratori sono diventati le vittime di questo imbroglio. È assurdo, ma, vediamo molti lavoratori trasformati in una bizzarra modernità del ventunesimo secolo, in una classe di pseudo-capitalisti che fa il tifo per gli interessi del capitale, perché il lavoro non basta più a pagare le bollette, mentre gli investimenti borsistici, anche marginali, danno l’illusione di un futuro migliore.

Oramai tutti viviamo in un mondo di governi deboli e di banche centrali forti come conseguenza dell’emergere della nuova economia globale: nessun settore dell’economia è stato più rapido di quello finanziario nel trasformare la potente combinazione di globalizzazione e nuove tecnologie in una macchina per fare soldi (siamo in una nuova era del capitalismo finanziario). Da questo possiamo chiederci se i capi delle banche centrali del mondo, ai quali era stato affidato dai governi ancora sovrani il compito di tenere sotto controllo la finanza, non siano stati trasformati in schiavi dai capitalisti padroni del nuovo mondo della finanza. Ricordiamo che all’inizio degli anni 70, prima che l’economia globale fosse congiunta tramite la rete ai megabyte, l’ammontare totale in dollari delle transazioni finanziarie condotte dalle imprese degli Stati Uniti  sui mercati azionari nell’arco di un anno intero era inferiore al prodotto nazionale degli USA, ma dalla fine degli anni 90, grazie alle transazioni elettroniche, gli scambi dei settori  finanziari hanno raggiunto un volume annuo totale incomparabile con il volume d’affari dell’economia reale (anche se è nell’economia reale che ci si guadagna da vivere). In sostanza, sembra che con la fine della guerra fredda e l’emergere della nuova economia globale i leader del mondo finanziario abbiano rimpiazzato le gerarchie del complesso industriale militare nel ruolo di big dell’economia.

Dalla fine della guerra fredda Washington ha consacrato i suoi sforzi ad appagare le esigenze del settore finanziario, e con la deregulation finanziaria ha offerto alle istituzioni finanziarie la libertà di ampliare le proprie attività e – tra l’altro – di giovarsi  della capacità di effettuare prestiti ad interesse elevato. L’inclinazione ad assegnare poteri crescenti alle banche centrali è affiorata per effetto dell’inflazione determinata dalla politica del presidente Johnson in materia di finanziamento della guerra nel Vietnam, si è poi rafforzata dopo l’embargo petrolifero decretato dallo Opec nel 1973 e, dopo la fine della guerra fredda, le banche centrali hanno incominciato a guidare completamente la politica economica. La globalizzazione dei mercati finanziari non ha fatto che spingere le  banche centrali a tutelare gli interessi di credito; infatti i proprietari di capitali liquidi temono l’inflazione quindi, in un mondo dove il capitale può spostarsi velocemente e scarseggia rispetto all’eccesso di domanda di manodopera disponibile, si è riscontrato un trasloco di potere verso tutte le istituzioni che hanno un interesse ad evitare l’inflazione, come le banche e il mercato azionario, il quale è un mercato aperto dei prestiti, dominato dai creditori e che tende quindi a fare i loro interessi.

E’ noto che quando i prezzi salgono i debitori possono ripagare i loro debiti ai creditori in denaro svalutato e questo è il motivo per cui i creditori non vogliono l’inflazione, ma quando i prezzi calano, i debitori sono costretti a ripagare i debiti con denaro più costoso, cioè più difficile da acquisire e così, i creditori prosperano a spese dei lavoratori. E‘ evidente che se viene realizzata con un senso di equilibrio la stabilità dei prezzi è un obiettivo legittimo, ma vi è una enorme differenza tra il facilitare la stabilità dei prezzi e il sostenere la deflazione: vogliamo dire che i paesi del mondo industrializzato vengono obbligati a inseguire politiche economiche non coerenti con la stabilità dei prezzi, ma, unicamente deflazionistiche. Ma forse, è la storia dell’economia dalla fine della Seconda guerra mondiale che ci spiega che il lavoro, per prosperare, ha bisogno di un forte tasso di crescita economica e che non possiamo accettare i diktat del sistema finanziario globale e dei suoi mercati.

Non si può che sperare che siano in errore coloro che vedono le politiche seguite dalle banche centrali di oggi come una ripetizione di quelle perseguite negli anni 20 del secolo scorso: infatti, anche allora infuriava la stessa follia finanziaria, che oggi attribuisce ai banchieri centrali un monopolio sulla scienza delle finanze, e anche allora prevalevano politiche monetarie che si sono poi rivelate altamente deflazioniste. Poi non possiamo non ricordare che i sindacati erano deboli, ed anche oggi appuntiamo una certa debolezza delle organizzazioni sindacali nei paesi industrializzati, senza contare che i redditi da capitale sono in aumento rispetto ai redditi da lavoro e che la distribuzione dei redditi si realizza sempre più disuguale come registrato negli anni venti.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




Stress in ufficio? Il datore di lavoro risponde per danni

Per rintracciare la responsabilità in capo al datore basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore


Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante anche se gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing. La Cassazione ribadisce (sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso) che la tutela della salute dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing ma si estende a tutte le situazioni di stress da lavoro.

Appello contrario

La controversia riguarda un lavoratore che ha portato in giudizio il datore per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta risarcitoria era stata accolta in primo grado ma poi rigettata dalla Corte d’appello, che non ha riscontrato negli atti e nei comportamenti del datore quel «comune intento persecutorio» che rappresenta l’elemento costitutivo del mobbing.
Secondo la Corte d’appello, tali attive potevano, al massimo, essere qualificabili come carenze gestionali e organizzative, ma mancavano di quell’intento persecutorio necessario perché si possa parlare di mobbing.

Ribaltamento in Cassazione

La Cassazione ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non giustificano cedimenti delle misure di tutela e prevenzione.
Pertanto, secondo la Cassazione, per rintracciare una responsabilità in capo al datore non è necessaria, come si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene.

Condotte esorbitanti anche se non vessatorie

Alcune condotte, quindi, pur non essendo vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, soprattutto se sono continue e ripetute nel tempo: queste condotte, conclude la Corte, violano l’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia, e come tali generano un pregiudizio per la salute che deve essere risarcito.
Questa interpretazione conferma la tendenza della Cassazione a rifiutare letture riduttive delle responsabilità datoriali in tema di sicurezza; un approccio severo che tuttavia non deve giungere inaspettato in tema di stress da lavoro, essendo fenomeno questo già al centro delle politiche di prevenzione dei danni alla salute (è obbligatoria la valutazione del cosiddetto “stress da lavoro correlato”).

 

Fonte: Il Sole 24 Ore

 




Un Governo miope di fronte alla disoccupazione strutturale

Se ci chiediamo perché la produzione del 2023 è molto più alta di quella realizzata nel 1923 possiamo con facilità rispondere sostenendo che oggi noi possiamo produrre molto di più, perché abbiamo a nostra disposizione più capitale reale, più persone, più fonti di energia e, soprattutto, una tecnologia avanzata ed una divisione del lavoro settoriale ed internazionale evoluta. Negli ultimi cento anni, non vi è stato solo un accrescimento quantitativo dei fattori di produzione, ma principalmente un miglioramento qualitativo. Non vi è dubbio che oggi abbiamo a nostra disposizione beni capitali molto sofisticati, perché il progresso tecnologico si è in parte concretizzato nella creazione di nuove specie di beni, sia di consumo, che di produzione (pensiamo, ad esempio, ai robot ed alle intelligenze artificiali).

Ora la capacità produttiva di un paese dipende in generale dalla quantità e dalla qualità dei fattori di produzione, dal grado di divisione del lavoro, dal livello della conoscenza tecnologica e della sua applicazione. La quantità di lavoro disponibile è influenzata dalla crescita della popolazione ed esso rappresenta un fattore di offerta nella misura in cui concorre a determinare la capacità produttiva.  Purtroppo, nel processo di crescita non conta solo la quantità, ma anche la qualità del lavoro; questo significa che l’evoluzione della istruzione e della formazione professionale può essere considerata, dal punto di vista economico, come un grande investimento in capitale umano, e questa è la politica da seguire per costituire uno dei metodi più efficaci per assicurare la crescita del reddito nazionale nel lungo periodo. E’ evidente che il progresso tecnico si riferisce alle modificazioni che hanno luogo nell’utilizzazione dei fattori di produzione (ossia il lavoro ed il capitale) che permettono di ottenere una maggiore produzione oraria per addetto; occorre, però, aggiungere che il progresso tecnico genera miglioramenti qualitativi oltre che quantitativi, come risulta evidente se consideriamo il grande numero di prodotti nuovi che sono stati creati.

Ora, quanto abbiamo appena messo in chiaro, ci consente di giungere ad una definizione più ampia di progresso tecnico intendendo per esso tutte le innovazioni che portano ad una modificazione dei modi e dei tempi di produzione. Da qui deriva la necessità di esaminare con particolare attenzione i rapporti che intercorrono tra il progresso tecnico e il livello di occupazione. Ricordiamo con interesse che nel quadro teorico sviluppato da Carlo Marx il progresso tecnico avrebbe prodotto una elevata disoccupazione, ossia la progressiva sostituzione di capitale (più produttivo grazie allo sviluppo tecnologico) al lavoro e avrebbe, secondo Marx, provocato il licenziamento di un numero sempre maggiore di lavoratori. A questo proposito, anche per comprendere meglio quanto accade oggi intorno a noi, bisogna imparare a saper distinguere tra questo tipo di disoccupazione (quella attuale che a noi interessa) e la disoccupazione ciclica, per capirci quella di cui amava parlare l’economista John Maynard Keynes. Ora, nel caso della disoccupazione ciclica l’insufficienza della domanda aggregata provoca sicuramente la sotto occupazione dei fattori produttivi (lavoro e capitale), ma, nel caso che si verifica nei nostri giorni con la presenza di un capitale tecnologicamente avanzato, la disoccupazione è causata dal licenziamento della manodopera dovuto proprio al progresso tecnico (si tratta, in termini economici, di una modificazione che ha luogo dal lato dell’offerta e che produce disoccupazione). Questa disoccupazione, che possiamo chiamare tecnologica, è un caso particolare di disoccupazione strutturale, che si manifesta violentemente nel nostro paese. La previsione di Marx secondo la quale il capitalismo, sotto la influenza del progresso tecnico, avrebbe comportato una diffusa disoccupazione non si era completamente realizzata nei secoli passati, in quanto il progresso tecnico, pur realizzando la riduzione della manodopera (e in altri casi la riduzione del capitale), con la produzione di nuovi beni capitali era riuscito, in una economia non globalizzata, ad assorbire una maggiore domanda di lavoro nel processo produttivo.  Ma oggi esplodono nuovi problemi (occupazionali) che derivano dalla riconversione e dalla presenza di una disoccupazione strutturale, in particolare in alcune regioni del mondo (come nel Mezzogiorno di Italia).

Comprendiamo che spesso fare una distinzione tra gli aspetti congiunturali e quelli strutturali non è facile, infatti non sempre è possibile tracciare un confine effettivo ma un buon Governo, per essere tale, dovrebbe prendere piena consapevolezza di questa sventura sociale che ha colpito il nostro paese, per prendere gli opportuni provvedimenti. In sostanza, in politica economica è necessario saper riconoscere gli aspetti congiunturali e strutturali per attuare i provvedimenti più efficaci. Un buon Governo, ripetiamo,  deve distinguere il tipo di disoccupazione con cui abbiamo a che fare oggi e non parlare di disoccupazione keynesiana che, ribadiamo, ha origine da una insufficienza della domanda aggregata.  Per dirla tecnicamente:  nel caso di cui noi ci dobbiamo interessare, l’accumulazione non è un evento capace di occupare tutti i lavoratori, perché tutto ciò che avviene non è causato da una domanda fluttuante, ma, deriva da un disequilibrio dal lato dell’offerta, con una disoccupazione che non è di tipo congiunturale, ma di tipo strutturale. Questo significa che in generale l’adozione di una politica del lavoro capace di attenuare le ripercussioni negative del progresso tecnico sull’occupazione richiede una visione di lungo periodo, particolarmente attenta alla evoluzione strutturale del sistema economico e la creazione di capitale associata all’industrializzazione attraverso le partecipazioni statali (aziende di Stato). E’ questa la giusta soluzione per ristabilire l’equilibrio sul mercato del lavoro e per assorbire le grandi quantità di lavoro inoccupato presenti nel paese. Siamo convinti che il male della disoccupazione congiunturale possa essere curato con vecchie ricette, come quelle che prevedevano un aumento della spesa pubblica con esecuzione di lavori pubblici (spesso improduttivi) da parte dell’amministrazione pubblica, per rimettere in circuito fattori di produzione stagnanti ma, nello stesso tempo siamo consapevoli che per affrontare il problema della disoccupazione strutturale occorre richiedere  una politica più orientata, che non miri tanto all’aumento delle spese ma, piuttosto alla eliminazione delle strozzature del sistema produttivo attraverso una politica selettiva di reindustrializzazione con aziende pubbliche.

In conclusione, non possiamo esimerci dal far presente che l’andamento della produzione nazionale, ossia l’aumento del PIL, non si riflette necessariamente in un aumento o in una diminuzione del benessere degli individui; noi siamo convinti che il benessere dipenda dal livello di soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi. Per esprimerci in maniera più chiara utilizziamo un banale esempio: se prendiamo in esame la scelta sempre più diffusa di aumentare la produzione lavorando il sabato e la domenica, in questo caso possiamo sostenere che l’incremento produttivo così realizzato costituisce solo un incremento nella produzione economica ma, per la nostra valutazione, avremo una crescita inferiore rispetto alla scelta di avere due giorni di vacanza in più, in quanto per noi il lavorare il sabato e la domenica riduce il benessere dei lavoratori e, quindi, della collettività. Questo per dire che, anche se in generale la produzione nazionale pro-capite è assunta come unico criterio per misurare la crescita, non bisogna attribuire a questo criterio un valore assoluto. A maggiore conferma, si considerino le ripercussioni negative sull’ambiente derivante dall’incremento delle produzioni; nell’ottica del benessere è infatti necessario esaminare anche le diseconomie esterne connesse all’incremento della produzione, come l’inquinamento dei fiumi, dovuto agli scarichi industriali, l’inquinamento atmosferico, il rumore e  la distruzione della natura in genere.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti 

 




C’è un clima di tensione che assomiglia a una strategia

Profonda preoccupazione e sconcerto”, le parole del rettore di Pisa Riccardo Zucchi interpretano benissimo il sentimento generale di fronte alle cariche della polizia contro un corteo di studenti giovanissimi che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza. E il direttore della Normale e la direttrice del Sant’Anna offrono, nel loro comunicato congiunto, l’unico possibile giudizio politico, affermando “che l’uso della violenza sia inammissibile di fronte alla pacifica manifestazione delle idee”.

La domanda è: perché? Dopo che cose assai simili sono successe alla Sapienza di Roma e nel campus universitario di Torino, è sempre più difficile credere che si tratti di una casuale catena di errori da parte di singole questure. Se si aggiungono le pessime dichiarazioni di ministri (come Casellati o Santanchè), che invece di condannare la repressione condannano i repressi, il quadro che ne esce è piuttosto fosco.

Chi ha interesse a incendiare le piazze italiane con un uso della violenza di Stato palesemente irresponsabile? O il ministro dell’Interno si assume la responsabilità di spezzare questa catena, o sarà legittimo credere che sia proprio il governo a volersi avvantaggiare di un clima di tensione che assomiglia sempre più a una strategia. La matrice ideologica del governo, e il fatto che la presidente del Consiglio si accinga a una campagna referendaria in cui chiederà di fatto pieni poteri per abbattere il sistema di garanzie democratiche della Costituzione antifascista non lasciano per nulla tranquilli.

Io davvero non vorrei unire i puntini tra la sproporzionata violenza della polizia in piazza e il progetto politico di Fratelli d’Italia, perché ne verrebbe fuori un’immagine terribile: ma se le cose continuano così, quei puntini si uniranno da soli.

 

Articolo di Tommaso Montanari sul Fatto Quotidiano del 24 febbraio 2024




Come il governo ci sta rubando le pensioni

Uno degli argomenti che hanno portato la coalizione attualmente al governo a raccogliere voti determinanti per vincere le elezioni è lo sbandierato impegno al superamento della Legge Fornero. Fra le promesse quella di permettere a tutti di andare in pensione al raggiungimento dei 41 anni di contributi.

Cos’è rimasto in realtà di quelle promesse? A sentire i TG sono stati fatti grandi cambiamenti nel comparto previdenziale. E questo purtroppo è vero. Solo che siamo andati in direzione opposta a quanto era stato promesso.

Esaminiamo nel dettaglio come i provvedimenti adottati stiano cambiando in peggio le prospettive di chi è già in pensione e di chi aspira ad andarci in un futuro più o meno lontano.

 

QUOTA 103

Si tratta di un’opzione per andare in pensione in anticipo rispetto alla Legge Fornero, a patto di aver raggiunto i 62 anni di età e i 41 di contributi (quindi la somma dei due dati dà appunto 103). E’ l’evoluzione della quota 100, istituita nel 2019 proprio con la pretesa di superare la Legge Fornero. La norma si è poi evoluta in quota 102 e successivamente in quota 103. L’agevolazione scadeva il 31/12/2023, ma il governo l’ha prorogata estendendola al 2024.

Quindi una buona notizia? Lo sarebbe se non fosse che non si è trattato di una proroga, ma di un qualcosa di decisamente penalizzante rispetto alla preesistente quota 103. E questo il governo non si è preso la premura di spiegarlo.

In che modo è peggiorata?

  • Modalità di calcolo: dal 2024 il calcolo della pensione per chi aderirà a “Quota 103” sarà fatto interamente con il metodo contributivo, perdendo quindi la quota retributiva, decisamente più favorevole, relativa ai contributi versati fino al 1995. Questo comporta una riduzione della pensione mensile che può arrivare fino al 30-35% dell’importo complessivo.
  • Allungamento delle finestre d’uscita: le finestre mobili sono un escamotage introdotto per tardare il pagamento della pensione rispetto al momento dell’effettiva maturazione del diritto. Se fino al 2023 erano di 3 mesi per i lavoratori privati e di 6 mesi per i lavoratori pubblici, adesso i periodi diventano di 6 mesi per i privati e 9 mesi per i  pubblici. Un bancario che vuole accedere a quota 103 (ammesso che gli convenga) dovrà pertanto lavorare almeno per 41 anni e 6 mesi ed aver raggiunto almeno l’età di 62 anni e 6 mesi: in pratica una Quota 104 mascherata da Quota 103.
  • L’importo massimo della pensione: per chi aderirà a quota 103 è previsto che l’assegno pensionistico mensile non possa essere superiore a 4 volte il trattamento minimo (per il 2024 pari a 2.270 euro lordo). E questo per un bancario equiparrebbe a veder vanificati anni di versamenti contributivi.

OPZIONE DONNA

E’ un’opzione per il pensionamento anticipato riservata alle donne che al 31/12/2023 abbiano totalizzato almeno 35 anni di contributi e 61 di età. Il conteggio viene effettuato interamente con il metodo contributivo: questo comporta, considerando l’età anticipata rispetto alle opzioni della Legge Fornero, una penalizzazione molto pesante per le lavoratrici che dovessero farvi ricorso.
In effetti i limiti di età e di anzianità contributiva indicati sono da maggiorare in modo significativo per effetto delle finestre: 12 mesi per le lavoratrici dipendenti, 18 per le autonome.

In che modo è peggiorata?

  • Limitazione requisiti: il governo ha limitato l’accesso a Opzione Donna a casistiche molto specifiche, escludendo tutte le lavoratrici che non presentano i requisiti richiesti:
    • caregiver
    • invalide dal 74%
    • licenziate o dipendenti aziende con tavolo di crisi aperto

Il requisito anagrafico viene scontato di un anno per ciascun figlio con un massimo di due anni.
Entro il 31.12.2023, le lavoratrici caregivers e invalide almeno al 74%, possono accedere al trattamento pensionistico con la maturazione di 35 anni di contribuzione e l’età anagrafica di:

  • 61 anni se senza figli
  • 60 anni se con 1 figlio
  • 59 anni se con 2 o più figli

Le lavoratrici licenziate o dipendenti da aziende in crisi, devono aver perfezionato 35 anni di contribuzione e 59 anni di età, indipendentemente dal numero dei figli.

La Cgil calcola che, a seguito delle penalizzazioni nel calcolo e dei requisiti previsti, nel 2024 saranno solo 250 le donne che riusciranno ad utilizzare questa opzione. Che quindi è stata sostanzialmente abrogata, nonostante sia formalmente prorogata.

 

APE SOCIALE

L’Ape sociale è una forma di anticipo pensionistico. Consiste in un’indennità che spetta fino al conseguimento dei requisiti di età e di contribuzione necessari alla pensione di vecchiaia, destinata ad alcune categorie di lavoratrici e lavoratori che si trovano in particolari condizioni.

  • invalidi 74%, caregiver, disoccupati con almeno 30 anni di contribuzione
  • lavoratori addetti a mansioni gravose con almeno 36 anni di contribuzione
  • lavoratori edili e ceramisti con almeno 32 anni di contribuzione

Per le donne un anno in meno di contribuzione per ogni figlio, con riduzione massima di 2 anni.

In che modo è peggiorata?

  • Innalzamento età minima: l’età minima per acedere all’Ape Sociale viene elevato da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.

 

PENSIONE ANTICIPATA

E’ forse il simbolo delle promesse mancate da parte della Lega e di Salvini, che prometteva il superamento della Legge Fornero attraverso l’introduzione di “Quota 41” per tutti. In realtà le soglie previste dalla Legge Fornero non sono state modificate, saranno anzi peggiorate a partire dal prossimo anno.

In che modo è peggiorata?

  • Ripristino adeguamento all’aspettativa di vita: la norma prevede che i requisiti di anzianità contributiva attualmente prevista, pari a 41 anni e 10 mesi per le donne e un anno in più per gli uomini, debbano annualmente essere aggiornati adeguandoli all’aumento della vita media calcolato dall’ISTAT. Il governo Conte 1 sospese questo meccanismo fino al 31/12/2026. Il governo Meloni ha previsto che l’adeguamento torni ad essere calcolato a partire dal 2025. Tradotto in termini pratici, già dall’anno prossimo dobbiamo aspettarci un allungamento dei termini per la pensione anticipata.

 

ASSUNTI A PARTIRE DAL 1/1/1996

Parliamo di persone che lavorano ormai da oltre 25 anni, quindi non si può più riferirsi a loro come “giovani”. Sono quelli che nel nostro sistema pensionistico sono i più penalizzati, con la pensione calcolata interamente col metodo contributivo.

I requisiti anagrafici per ottenere la pensione sono i seguenti:

  • Pensione di vecchiaia: 67 anni di età con 20 mesi di contributi. E’ possibile accedervi solo se si è maturata una pensione pari almeno all’assegno sociale (€ 534,41 nel 2024).
  • Limite massimo per restare al lavoro: 71 anni di età con almeno 5 anni di contribuzione.
  • Pensione anticipata: 64 anni di età con almeno 20 anni di contribuzione. E’ possibile accedervi solo se si è maturata una pensione pari a 3 volte l’assegno sociale (per il 2024 € 1.603,23)

In che modo è peggiorata?

  • Aumento soglia contributiva minima: nel 2023 si poteva accedere alla pensione anticipata con un importo pari a 2,8 volte l’assegno sociale. Nel 2024 tale soglia è stata portata a 3 volte l’assegno sociale. Considerando che per chi non ha avuto versamenti continuativi e contratti full time per tutta la sua vita lavorativa l’importo di € 1.603,23 lordi non è così semplice da raggiungere, si tratta per tante persone di un aumento mascherato dell’ età pensionabile. La soglia resta a 2,8 volte l’assegno minimo per le donne con un figlio, scende a 2,6 volte per le mamme di due o più figli.
  • Adeguamento all’aspettativa di vita: anche per le pensioni calcolate con il metodo contributivo si introduce l’adeguamento all’aspettativa di vita per il requisito dei 20 anni di contribuzione.

Per comprendere le storture di questo meccanismo, che sarebbe stato importante correggere, facciamo un esempio.

Un dirigente d’azienda, con retribuzione mensile di € 5.000, lavorando solo 20 anni arriverà all’età di 64 anni a maturare una pensione di € 1.650 mensili. Essendo superiore alla soglia di € 1.603,23 potrà scegliere di andare in pensione.
Una persona addetta alle pulizie, che lavora per 40 anni con contratto part-time, a 67 anni avrà maturato una pensione di € 360 mensili. Non avendo raggiunto la soglia minima, dovrà lavorare fino ai 71 anni. Se dovesse morire prima di tale età, i suoi contributi saranno perduti: di fatto avrà fatto solidarietà a favore del manager che prendeva € 5.000.

 

PENSIONE DIPENDENTI PUBBLICI

Vengono riviste le modalità di calcolo della quota retributiva, relativamente alle pensioni anticipate di tutti coloro che alla data del 31/12/1995 avevano una contribuzione inferiore ai 15 anni. La misura si applica a coloro che effettuano i versamenti nelle seguenti gestioni:

  • CPDEL, enti locali,
  • CPS, sanitari,
  • CPI, insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate,
  • CPUG, ufficiali giudiziari.

Le nuove modalità di calcolo non si applicano a chi va in pensione per il raggiungimento del limite di età previsto dalla legge o dai regolamenti degli enti di appartenenza. Non si applicano a chi ha maturato i requisiti per la pensione anticipata al 31/12/2023, anche se sceglie di uscire più tardi.

In che modo è peggiorata?

  • Revisione tabelle: le nuove modalità di calcolo comportano tagli che possono arrivare fino al 20% dell’assegno pensionistico: si stima che un medico che ha iniziato a lavorare nel 1992 e percepisce uno stipendio lordo di € 50.000 possa arrivare a perdere fino a € 850 al mese.
  • Allungamento (di fatto) dei requisiti pensionistici: la norma prevede, solo per gli infermieri, la possibilità di ritardare l’uscita dal lavoro per avere uno “sconto” sul taglio. Per ogni mese di posticipo rispetto alla possibile uscita con pensionamento anticipato, la decurtazione verrà ridotta di 1/36°. Restando 3 anni in più al lavoro si azzerano i tagli.
    In definitiva, chi aveva promesso quota 41 per tutti, di fatto ha portato una specifica categoria alla quota 46.

Sebbene questa novità riguardi al momento il solo settore pubblico, l’ipotesi che in un prossimo futuro il governo possa pensare ad estendere il provvedimento anche ai lavoratori privati è tutt’altro che remota.

Già adesso ci vengono segnalati casi di bancari o bancarie con precedente contribuzione presso la P.A., che scoprono alla vigilia del pensionamento che la loro pensione subirà una decurtazione inattesa.
Consigliamo a chi si trovasse in questa situazione di rivolgersi ad un patronato Inca per verificare l’ammontare della loro pensione prima di accedere ad esodi incentivati.

 

INDICIZZAZIONE PENSIONI IN ESSERE

All’inizio dell’anno gli organi di stampa istituzionali hanno salutato con grande enfasi l’aumento delle pensioni per tutti, presentandolo come una generosa concessione del governo. In realtà, soprattutto in periodi di alta inflazione, è indispensabile che l’ammontare delle pensioni si adegui per evitare di ridurre la capacità di spesa dei pensionati.

Un adeguamento inferiore al tasso di inflazione equivale a sfilare i soldi dalle tasche delle persone che vivono di pensione.

E questo è esattamente ciò che il governo ha fatto.

In che modo è peggiorata?

  • Adeguamenti inferiori al costo della vita: l’adeguamento all’inflazione è stato mantenuto solo per i livelli più bassi (fino a € 2.271,76). Per i redditi più alti l’ammontare viene progressivamente decurtato. Per una pensione lorda superiore a € 2.839 (soglia che più o meno riguarda i lavoratori che escono dal settore bancario) l’adeguamento si riduce al 53% dell’effettivo aumento del costo della vita: come dire che ogni anno avranno qualche problema in più a riempire il carrello della spesa.
    La seguente tabella riepiloga le percentuali di effettivo recupero del costo della vita

Questo è il provvedimento più pesante tra quelli adottati dal governo: si tratta di un taglio sulle pensioni di oltre 3,5 miliardi per il solo 2024, interamente a spese dei pensionati, passato totalmente sotto silenzio da parte degli organi di stampa. Si calcola che in 10 anni il risparmio per le casse dello Stato sarà superiore ai 60 miliardi.

Lo ripetiamo: sono soldi che non arriveranno ai pensionati attuali e a quelli che usciranno nel frattempo.

 

PER CONCLUDERE

Abbiamo un governo privo di visione, che mentre toglie i sussidi ai più poveri va avanti a base di regali per guadagnare voti: taglio tasse alle partite IVA, sconti agli evasori, bonus a pioggia sgravi contributivi a volontà, anche per gli agricoltori e per chiunque possa rivelarsi utile per guadagnare consensi.

Abbiamo parlato di regali, ma in realtà questi favori hanno un costo, e lo paghiamo tutti noi. Ecco perché hanno bisogno di togliere 3 miliardi e mezzo ai pensionati: per premiare chi non paga o per permettere agli imprenditori di pagare la flat tax al 15%. In questo il governo Meloni non si è distaccato dalla pessima tradizione che la politica porta avanti da anni: considerare le pensioni una sorta di bancomat al quale attingere.
Si tratta di un modello economico e sociale che la CGIL rifiuta con forza, e contro il quale siamo più volte scesi in piazza, purtroppo con scarsissimo seguito nel settore bancario.

Speriamo che questi numeri servano a capire quale sia la posta in gioco, e a favorire un risveglio delle coscienze.




Morire sul lavoro, la scena del delitto perfetto

Una bomba”.

Alcuni testimoni raccontano di aver sentito una deflagrazione nitida e potente. C’è chi giura di aver avvertito la terra tremare per qualche istante. Qualcuno grida, altri scappano. Chi in macchina accelera per evitare di essere travolto dalla nube di polvere. Poi il silenzio, subito interrotto dalle urla strazianti sotto le macerie. A quel punto il rumore diventa caotico. Da lì a poco sovrastato dal suono delle sirene di ambulanze e vigili del fuoco. Avanti e indietro.

Il vociare dei curiosi si fa sempre più invadente. “Che è successo?”. “Quanti erano?”. “Ma c’erano italiani?”. “Non si è salvato nessuno?”. “Che brutta fine, però”. Telecamere e telefonini affollano la scena del crimine illuminandola. Altro rumore. Sgommano auto. “Fate largo”. Volti cupi, costernati, provati davanti ai microfoni. “Una tragedia che si poteva evitare”. “Serve più prevenzione”. “Morti inaccettabili”. “La responsabilità è collettiva”. Tutti colpevoli, nessun colpevole.

Nel frattempo rimbalzano, confusi, i primi lanci d’agenzia. “Due vittime”. “Anzi tre”. “Ci sono feriti e dispersi”. “Non sappiamo ancora nulla di loro”. “Che contratto avevano?”. “Ma avevano un contratto?”. Dettagli per la diretta delle 10. Il cordoglio, intanto, da cittadino diventa nazionale. “Non si può morire sul lavoro”: l’intero arco costituzionale si ritrova unito attorno ai cadaveri senza ancora un nome. A parole, come sempre, tutti bravi.

Bentornati sul luogo del delitto perfetto. Plasticamente ricostruito nell’orrore di un tranquillo venerdì italiano. Oggi Firenze, domani chissà. Tutto così maledettamente prevedibile. Tutto così dannatamente ipocrita. Perché le lacrime dell’ennesima strage degli innocenti si asciugheranno presto sotto il sole e le macerie del prossimo appalto al massimo ribasso. E di nuovo altri caroselli, commiati, telecamere. E di nuovo altri numeri per aggiornare la media insanguinata della dignità umana.

 

Fonte: collettiva.it




Il lavoro diventa una merce

Per l’insegnamento universitario corrente l’economia viene mostrata come la teoria della scelta umana tra beni scarsi, per cui sono possibili usi alternativi, e l’interazione dei beni attraverso lo scambio (la divisione del lavoro ha portato alla massima specializzazione della produzione e, di conseguenza, agli scambi delle merci prodotte tra i vari agenti economici).

Questo modo di affrontare il problema (in termini capitalistici) pone l’accento più sullo scambio che sulla produzione, e tende, quindi, ad escludere lo studio dei rapporti economici tra le classi e il processo di sviluppo dell’economia nel suo complesso. Possiamo affermare che il processo di produzione, ossia il processo lavorativo, è quel processo attraverso cui il lavoro trasforma i materiali forniti dalla natura in ricchezza: esso si presenta come il processo di trasformazione della natura per servire ai bisogni umani.

Fin dall’alba della storia gli uomini hanno prodotto non individualmente, ma insieme ad altri uomini. La società antica, la società feudale e la società borghese, sono caratterizzate da complessi rapporti di produzione ed ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità. L’elemento che causa e determina i profondi mutamenti sociali, attraverso cui passa la storia umana, è il mutamento nelle forze produttive, cioè le variazioni negli strumenti di produzione e nelle capacità e nelle tecniche della gente che li usa. Da notare che le varie forme di società non differiscono solo per i diversi metodi di produzione in vigore, ma anche per il fatto che i rapporti tra gli uomini e tra le classi, cioè i rapporti sociali tra gli uomini, sono diversi.

I rapporti sociali entro i quali gli individui producono (i rapporti sociali di produzione) si modificano; dunque, mutano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società ad un grado di sviluppo storico determinato.

Il capitalismo è un sistema di produzione sociale all’interno del quale ci sono sfruttatori e sfruttati: i capitalisti e i lavoratori.
Per la classe lavoratrice lo sfruttamento è il punto di partenza nello studio dell’economia politica, per i capitalisti il punto di partenza è come mantenere la ricchezza ed il dominio ed è da questo punto di partenza che affrontano i problemi dell’economia. Ora i processi economici sono alla base di tutti gli altri processi sociali; l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base sulla quale si costruisce una sovrastruttura giuridica e politica ed alla quale si collegano forme determinate della coscienza sociale Secondo la nota concezione materialistica della storia, il fattore che, in ultima istanza, è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale: ossia noi facciamo noi stessi, la nostra storia, ma decidono in ultima analisi le condizioni economiche, anche se le condizioni politiche esercitano una loro funzione non determinante (lettera di Engels a Bloch Joseph 21/09/1890).

Nella cosiddetta società mercantile semplice esistevano i presupposti della divisione del lavoro; in esso la divisione del lavoro era prevalentemente costituita da una divisione per prodotto, cioè, il falegname faceva il tavolo intero e non un pezzetto di tavolo, così il calzolaio con le scarpe; il mercato si era esteso, ma era ancora basato su una produzione che serviva prevalentemente in modo diretto per il consumo. Un classico esempio di questo rapporto diretto è il lavoro su ordinazione prevalente in questo tipo di società (mercantile). Infine, ed è la caratteristica maggiormente rilevante, il produttore era anche proprietario delle merci che egli portava nel mercato.

La realtà sociale è poi mutata; ad un certo momento, la società mercantile semplice si trasforma, per proprie leggi di sviluppo, in società capitalista di prevalente concorrenza. La storia economica ci ricorda che ad un certo momento si sono riscontrati molti fenomeni, come l’aumento della produzione, il sorgere della produzione di massa per il mercato, un aumento della produttività del lavoro, una maggiore divisione del lavoro e, al sorgere di nuovi strumenti di produzione, tutti questi fenomeni si sono tra di loro dialetticamente collegati; cioè essi sono espressione e causa di un nuovo sistema economico che andava sorgendo.

Tra i vari fenomeni che hanno accompagnato lo svilupparsi della società capitalistica e che sono compresi sotto il nome di rivoluzione industriale, l’introduzione della macchina ha avuto una primaria importanza. Infatti, la rivoluzione industriale fu caratterizzata da grandi scoperte nella tecnica produttiva che, al posto degli strumenti di produzione animati dall’energia motrice dell’uomo, introdussero dell’energia motrice indipendente, come l’acqua prima e il vapore dopo, che resero possibili nuovi processi lavorativi  ed un aumento colossale delle quantità prodotte: cioè, in sostanza, un aumento della produttività del lavoro.

Possiamo dire che la rivoluzione industriale fu un insieme grandioso di fatti economici tra di loro dialetticamente collegati e non un semplice fatto tecnico; vi fu senza dubbio una relazione dialettica tra sviluppo tecnico delle forze produttive e sviluppo dei rapporti economici. Anzi su questa relazione dialettica, cioè non meccanica di causa ed effetto, Carlo Marx basò la sua concezione del progresso economico e sociale. La stessa e sola scoperta della macchina a vapore non ha significato di per sé la rivoluzione industriale; tale scoperta avvenne e la rivoluzione industriale si verificò perché si svolse in un particolare ambiente economico, nacque cioè nell’ambiente che esigeva il modo di produzione capitalistico. Ricordiamo che dal 1600 in poi si sono sviluppati ed hanno prevalso i rapporti capitalistici, dove, ad esempio, vediamo l’imprenditore commerciale che spossessa dalle materie prime e  dagli oggetti di lavoro l’artigiano medievale, il quale viene estromesso dal mercato globale. Si era sviluppato il lavoro a domicilio e in certi rami la fabbrica manifatturiera, che raccoglieva insieme gruppi di lavoratori. In pratica, con la scoperta e la introduzione delle macchine si spossessa definitivamente il lavoratore anche dello strumento di lavoro, ossia del mezzo di produzione, e si rende necessario il raggruppamento dei lavoratori nelle fabbriche originando una grande differenza tra gli stessi produttori capitalistici e tra questi e gli artigiani.

Successivamente il capitalismo, cioè la divisione in classi, si consolida e diviene perfetta: il capitalista industriale diventa il protagonista dello sviluppo economico e il capitale condizione necessaria alla crescita economica. Affinché il capitalista possa impiantare le fabbriche che vuole e dove vuole e che vi sia la libertà di produzione, si rende necessario eliminare  i vincoli corporativi medioevali. Nella società mercantile semplice esisteva una differenza tra i vari produttori, queste differenze erano limitate però, perché si riferivano in prevalenza a differenza nelle qualità umane, che come è noto non sono forti. Ad esempio, se noi ci mettiamo a fare una corsa, noi correremo più o meno con la stessa velocità; al contrario, se uno si mette a correre in bicicletta e noi a piedi, la differenza diventa molto maggiore e questa differenza avrà la sua importanza nel determinare le leggi del mercato e dello sviluppo economico. Ma, il fatto economico più importante diviene la dissociazione nella produzione tra coloro che detengono i mezzi di produzione e quelli che hanno soltanto la forza lavoro. Questo è il fatto fondamentale che determina non soltanto i rapporti diretti del mercato, ma determina la dinamica economica e lo sviluppo del sistema. Esso caratterizza il sistema capitalistico di produzione: il produttore vero, il lavoratore, è stato spossessato storicamente prima dell’oggetto di lavoro, poi anche, dello strumento di lavoro e l’unico produttore diviene il capitalista. Ma se ci chiediamo chi è il produttore nella società capitalista, la risposta per noi è che il vero produttore è chi lavora, ossia chi mette in moto le macchine e questa è una premessa logica e non deve essere mai dimenticata. Produttore in senso sociale e, quindi, sempre il lavoratore, colui che mette in moto gli strumenti di produzione nell’economia capitalistica; però, dato che gli strumenti di produzione sono in mano ad un determinata categoria, che noi chiamiamo capitalisti, si genera la convinzione (e si parte dalla premessa comune in tutta l’economia accademica) che produttore sia il capitalista e gli altri siano fattori della produzione o consumatori. Dal punto di vista della logica capitalistica ciò è vero in un concetto generale, in quanto il processo produttivo si mette in moto se il capitalista, che ha i mezzi di produzione, lo mette in moto; in sostanza, il produttore nel capitalismo è chi ha i mezzi di produzione, che sono posseduti da una categoria di persone distinta dalla categoria di coloro che materialmente li adoperano, e così tanto i mezzi di produzione, che il lavoro, diventano oggetti di scambio, ossia merci; acquistano, in questo modo, carattere di relazione di scambio, non solo le relazioni tra proprietari di merci, ma anche le relazioni tra proprietari di mezzi di produzione e non proprietari dei mezzi di produzione o proletari.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti

 

Per approfondire: Il lavoro al di fuori della logica capitalistica




La dichiarazione di guerra è stata consegnata: ai poveri

La dichiarazione di guerra è stata consegnata nelle mani di alcuni milioni di italiani, quelli poveri, che si ostinano a esserlo e a rimanerlo, nonostante i proclami del clan famigliare al governo e le magnifiche sorti del Paese illustrate ogni sera dai cinegiornali Luce, un tempo detti Tg. Una sistematica opera di bonifica ai danni di una parte non esigua della popolazione, quella che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, quella che – anche lavorando – si ritrova ai confini della soglia di povertà, o addirittura sotto. Tolto il reddito di cittadinanza a un milione di famiglie (a 400.000 via sms), dopo una campagna stampa trasversale durata anni tesa a descrivere ogni meno abbiente del Paese come un bieco truffatore, le famiglie con un sussidio sono oggi 288 mila, ma il sussidio sono due carote e un pomodoro, e per averlo bisogna avere un Isee di tipo sahariano: 6.000 euro all’anno, che in una città come Milano, per dire, non ti bastano nemmeno per andare alla Caritas in tram.

Alcuni – fortunelli – hanno ricevuto da Yo soy Giorgia una carta alimentare, una moderna carta annonaria, da 382,5 euro all’anno (1,04 euro al giorno, non scialate). Insomma, chi non ce la faceva, o ce la faceva a malapena con grande fatica, è stato prima preso a ceffoni dai giornali (i famosi fannulloni sul divano) e poi direttamente affamato dal governo. Chi ha fatto i conti stima più o meno un risparmio di 4 miliardi per i tagli al reddito e un esborso di mezzo miliardo per il caritatevole obolo di un euro al giorno, che fa un risparmio secco di 3 miliardi e mezzo: non volendo prenderli dagli extraprofitti delle banche – sacrilegio! – li si prende dagli extrasfigati, componente sociale in continuo aumento.

Naturalmente finché c’è la salute c’è tutto, e se la salute non c’è, cazzi vostri. Se ti serve un esame urgente o una cura veloce e non puoi aspettare un anno, e non puoi pagarti una sanità privata (tipo quella che possiedono i giornali che sostengono vibratamente Yo soy Giorgia) che ti devo dire, pazienza, verremo al funerale. Alla sanità sono finiti 3 miliardi, che andranno quasi tutti in contratti del personale, e undici italiani su cento rinunciano a curarsi per mancanza di soldi.
Il grande vanto e ostentazione della famiglia (sur)reale di Chigi Palace per la valanga di soldi destinati agli anziani è tragicomico. Un po’ perché si sventolano soldi che già arrivavano, e un po’ perché la platea è composta da ultraottantenni non autosufficienti, gravissimi, con un Isee inferiore a 6.000 euro: meno di trentamila persone nel 2025 e meno di ventimila nel 2026 (la strategia è puntare sulle esequie, insomma).

Però, per fortuna, si aiutano le donne. Oddio, non esageriamo. Forse era una buona idea quella della decontribuzione (fino a 3.000 euro lordi) per le donne che lavorano, poi però ecco la sorpresa: vale solo per le donne che hanno tre figli (tre!) e che siano lavoratrici assunte regolarmente a tempo indeterminato, nell’ecosistema italiano, animali piuttosto rari. Se vuoi lo sconto sui contributi – ma solo per un anno – devi avere almeno due figli, se no, zero. È una variante dei fannulloni sul divano: solo che qui si consiglia di stare sul divano a figliare. Tra l’altro, se hai un bambino solo, ti paghi l’asilo, perché per avere un contributo, di figli devi averne almeno due, se no zero pure qui.

Questo è il contenuto della dichiarazione di guerra. Come andava di moda dire, c’è un aggressore e un aggredito, che nei cinegiornali della sera non si vede mai.

 

Articolo di Alessandro Robecchi sul Fatto Quotidiano del 7/2/2024