Una donna coraggiosa contro un destino orrendo


Non era italiana.
Non era cristiana.
Ma era una donna. E soprattutto era una mamma.
Si chiamava Shadida Raza, aveva 29 anni e veniva dal Pakistan.

Non è facile per una donna vivere nel Pakistan. Non è facile vivere in un paese che vuole le donne sottomesse agli uomini, chiuse in casa a sfornare figli e accudirli. Una visione, peraltro, condivisa anche da orribili personaggi nel nostro Paese.

Una donna pakistana ha una sola possibilità: rassegnarsi a una vita anonima, annullarsi nell’ombra del suo uomo. Ma Shadida non aveva nessuna intenzione di rassegnarsi. Era riuscita ad emergere, a sfuggire al grigiore di una vita prestabilita da altri, e lo aveva fatto attraverso lo sport, diventando una campionessa di hockey e arrivando a giocare in nazionale. Shadida giocava anche a calcio nella squadra della sua città. Certo, era costretta a farlo indossando il velo e i pantaloni lunghi, ma questo non l’aveva fermata.

E nel frattempo Shadida non aveva rinunciato a prendere in mano la sua vita anche nella sfera privata, tanto da essere capace di divorziare in un paese in cui questa scelta significa, per una donna, porsi ai margini della società.

Una donna forte, con la quale il destino non è stato generoso. Shadida aveva un bambino di 3 anni, Hassan, con metà del corpo paralizzato per le conseguenze di un ictus.

Cosa farebbe una madre per un figlio malato? Shadida Raza ha fatto ciò che avrebbe fatto una mamma europea: ha girato tutti gli ospedali del suo paese, ma alla fine il verdetto è stato impietoso: in Pakistan non esistono strutture adeguate a curare Hassan, ma in Europa avrebbero potuto aiutarlo.

Per curare un figlio malato una madre farebbe qualsiasi sacrificio. Shadida ha scelto di rischiare tutto, imbarcandosi su una delle carrette del mare, cariche di disperati e dei loro sogni di vivere una vita appena dignitosa. Lo sapeva benissimo che quella su cui si stava imbarcando non era una nave da crociera. Sapeva benissimo di rischiare la vita ma, come ha raccontato la sorella Sadia, “L’unico sogno di Shahida era la cura del suo bambino disabile. Ha rischiato la sua stessa vita dopo che gli ospedali in Pakistan le hanno detto che l’assistenza medica all’estero poteva essere l’unica opzione».

Shadida è una delle oltre 70 persone inghiottite dal mare nel naufragio di Cutro del 26 febbraio. Decine di esseri umani, ognuno dei quali potrebbe raccontarci una storia sconvolgente, tale da portarli accettare il terribile azzardo di un viaggio che rappresentava una sfida con il fato, e che solo persone ciniche e crudeli potrebbero disprezzare, arrivando ad accusare di irresponsabilità chi ha perso tutto perché da perdere non aveva niente.

Era una donna coraggiosa, forte come un uomo”. Questo dice di lei la sorella Sadia. Parole del genere, se riferite ad una donna italiana, non rappresenterebbero un’affermazione particolarmente rilevante. Ma provate ad immaginare di pronunciarle in un paese nel quale l’inferiorità delle donne e la loro subalternità agli uomini sono fatti culturalmente accettati: ecco che dire “era forte come un uomo” diventa una frase rivoluzionaria.

Oggi è la Giornata Internazionale della Donna. Una giornata in cui nelle nostre case, nei nostri uffici, ci sarà spazio per mimose, cioccolatini e auguri. Ed è sicuramente una bella occasione per esprimere o ricevere affetto dalle persone che ci stanno accanto.

Ma se vogliamo attribuire a questa giornata il suo vero significato, dedichiamo almeno un pensiero ad Shadida, ed alle tante donne come lei che devono lottare e sono pronte a dare la vita per conquistare quella normalità della quale spesso non apprezziamo il valore.



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