La “formula vincente” dei discount? “Turni massacranti, personale all’osso, stagisti usati come dipendenti”

Con l’aumento dell’inflazione e la stagnazione dei salari, i discount sono ormai diventati un punto di riferimento per moltissimi consumatori costretti ogni mese a far quadrare i bilanci familiari al centesimo. Ma dietro alle offerte di questi supermercati a buon mercato che spesso vendono a prezzi concorrenziali e talvolta sottocosto spesso si nasconde anche la compressione dei costi che impatta – è la denuncia dei lavoratori – soprattutto su stipendi e condizioni di lavoro di chi opera nei punti vendita. E insomma, specialmente nell’ultimo anno, in queste realtà i fatturati sono esplosi, ma a questo non è corrisposto affatto un miglioramento delle condizioni per i dipendenti. Anzi.

Le segnalazioni arrivano da diverse realtà di questo settore (anche se non tutte le aziende si comportano alla stessa maniera): turni massacranti, spesso comunicati con preavvisi di pochi giorni, assunzioni e turnazioni di personale ridotte all’osso, punti vendita che vanno avanti con il minore impiego possibile di dipendenti, grandissimo ricorso a contratti stage o contratti part-time a tempo determinato con clausole di flessibilità che costringono i precari a firmare assunzioni a 24/30 ore a settimana per poi accettare richieste di straordinario continue che fanno lievitare oltremodo il monte orario e di fatto impediscono al lavoratore di poter avere un equilibrio tra vita privata e lavoro. Queste le caratteristiche principali più volte denunciate nel corso degli anni dai lavoratori del comparto e dalle rappresentanze sindacali attive nel settore.

In Eurospin, forse uno dei discount italiani più noti, i sindacati hanno promosso un grande sciopero nell’agosto del 2022, mettendo in rilievo le pessime condizioni di lavoro a cui sono sottoposti molti dipendenti della grande catena, puntando il dito soprattutto sulle richieste dei direttori di filiale volte ad aumentare il più possibile il tasso di produttività del punto vendita per risultare competitivi agli occhi dell’azienda madre, a scapito dei dipendenti assunti. Un modello che sembra non essere caratteristica esclusiva di Eurospin ma anche di molte altre realtà simili.

 

Non va meglio in Penny Market, altro noto discount diffuso in tutto il Paese. “Ho lavorato per mesi come direttore di filiale e ho potuto toccare con mano le tante incongruenze di questa azienda. Il mio contratto, come quello di tutti i direttori, prevede lo straordinario forfettario che però non va di certo a favore del lavoratore”, racconta Alfonso (altro nome di fantasia, ndr).
“Quando firmi non sai a cosa stai andando incontro, quante ore dovrai fare davvero. Finisci per vivere in azienda. Le ore di straordinario puntualmente ogni settimana devono essere suddivise per i membri dello staff di negozio e il problema è che ci sono troppe poche persone per coprire in modo corretto le ore di apertura del punto vendita. Quindi per poter arrivare a coprire tutte le ore, il direttore si sobbarca tutte quelle che i dipendenti assunti in quel punto vendita non possono fare. Per aver messo in rilievo queste storture sono stato messo in punizione e mandato in un altro negozio, ho subito comportamenti ai limiti del mobbing. Nel negozio dove sono inviato in seconda istanza ho visto il responsabile obbligare i membri del team a timbrare la fine del proprio turno alle 21 per poi intrattenersi nel negozio fino alle ore 22/22:30 per sistemare tutto ciò che non era stato possibile sistemare durante il turno. E questa è praticamente prassi, non un caso”.

Devi sempre essere disposto a fare sempre straordinari, arrivando a lavorare anche 45/50 ore a settimana. I tirocinanti sono un altro tassello della compressione dei costi, è lavoro dipendente mascherato e molto conveniente: non si versa nulla, c’è solo il rimborso spese e nessun contributo. Dopo lo stage di solito fanno contratti a tempo determinato con i vari rinnovi per poi proporre l’apprendistato inquadrato due livelli in meno, ma a questi apprendisti vengono chieste le stesse cose che vengono chieste a un lavoratore non apprendista. Ci sono punti vendita portati avanti dagli apprendisti, che gestiscono ordini e burocrazia in tutto e per tutto, e punti vendita in cui gli apprendisti fanno da tutor agli stagisti. E’ un qualcosa di paradossale. Il dipendente deve praticamente fare tutto, dal cassiere al contabile alle pulizie, non esistono mansioni.  ”, conclude Margherita.

Fonte: Il fatto quotidiano

 

 




“Pagati un euro o due all’ora”: anche questo è il mare di Rimini

L’indagine CGIL – Le testimonianze di decine di lavoratori stranieri del terziario. Confcommercio: “Due euro sì, uno è un’esagerazione…”


 

“A Rimini ci sono lavoratori del commercio che guadagnano poco più di un euro all’ora”.

Alla pesantissima denuncia lanciata in questi giorni dalla Flai Cgil nella città romagnola, è seguita la difesa d’ufficio, quantomeno maldestra, della Confcommercio : “Abbiamo sentito purtroppo di due o tre euro – ha risposto il presidente provinciale Gianni Indinoma un euro sembra una cifra troppo bassa per essere
credibile”.

Il surreale botta e risposta è avvenuto negli scorsi giorni, dopo la pubblicazione di un’indagine informale con dotta dal sindacato tra gli immigrati della provincia romagnola. I risultati, persino peggiori rispetto alle aspettative, hanno fatto arrabbiare l’associazione di imprese che, pur non avendo subito accuse dirette, ha voluto reagire con la più classica delle toppe peggiori del buco.

Per mettere i fatti nella giusta prospettiva va tenuta da conto una premessa: il sondaggio in questione non ha un valore statistico, come chiarito anche lo stesso sindacato. Si è trattato di una raccolta di 123 testimonianze di chi ha raccontato in quale settore lavora e qual è la sua retribuzione. Una platea composta perlopiù da uomini, la maggior parte dei quali proveniente dall’Africa centrale, più qualche decina di pachistani e cittadini del Bangladesh. La fetta più grossa è impiegata nel turismo: li si vede ogni giorno, soprattutto in questo periodo, servire ai tavoli dei ristoranti nella riviera, ma anche assistere i clienti nei negozietti, pulire le stanze degli hotel, trasportare merci, lavorare in spiaggia. Il modello vacanziero della riviera romagnola, del resto, è tornato a girare a pieno regime e ha bisogno di braccia. Ed è proprio nelle attività connesse col turismo – alberghi, ristoranti e negozi – che sono emersi i salari più miseri, ben inferiori a quelli, comunque tutt’altro che faraonici, di metalmeccanica, edilizia e agricoltura.

Chi opera nel commercio ha dichiarato di prendere da un massimo di 10,38 euro all’ora a un minimo di appena 1,09 euro. Nel turismo si va dai 10,98 euro a 1,65 euro. Più stretta la forbice nell’agricoltura: da 6 a 4,23 euro. In edilizia, invece, si va da 8,08 euro a 5,76 euro. Numeri, come spiegato, da circoscrivere a chi ha risposto alla rilevazione, legati a casi singoli dai quali non si può tirar fuori una media, ma che comunque fanno emergere evidenti situazioni di sfruttamento.

Subito dopo la diffusione della ricerca, come detto, è partita la controffensiva della Confcommercio provinciale, che ha contestato al sindacato il fatto di aver pubblicato un “sondaggio quasi ideologico”. “Mai sentite cifre del genere, purtroppo sento parlare di 2 o 3 euro, ma 1,09 euro non è una somma credibile, se non nel caporalato”, ha detto al Corriere Romagna il presidente Gianni Indino, aggiungendo, bontà sua, di non voler sminuire con questo il fenomeno del lavoro sottopagato.

Insomma, un euro l’ora sarà pure un caso isolato, nella ricostruzione imprenditoriale, ma non è infrequente imbattersi in “contratti” che riconoscano due euro o poco più. L’ipotesi formulata da Indino è che dietro quelle paghe così misere si nascondano i riscatti dei viaggi degli immigrati: stranieri cioè costretti a lavorare per pochi euro così da “risarcire” i connazionali che hanno permesso loro di raggiungere l’Italia. Il leader locale dei commercianti, già che c’era, ne ha approfittato per rilanciare il ritornello dei lavoratori introvabili: “Sparare nel mucchio non è accettabile, né corretto quando si fa informazione, specie nell’estate in cui gli imprenditori raschiano il fondo e in mancanza di personale rintracciano parenti alla lontana per farli lavorare”. Anche la presidente della Federalberghi Patrizia Rinaldis ha attaccato il sindacato: “Denunce simili fomentano l’astio mettendoci l’uno contro l’altro, mentre bisogna separare il loglio dal grano”.

La Flai di Rimini ha realizzato la ricerca nell’ambito di un progetto che l’ha vista in questi anni collaborare col sistema di accoglienza, grazie al quale centinaia di stranieri sono stati “alfabetizzati” sui loro diritti di lavoratori. Le loro risposte di oggi confermano un fatto che non sorprenderà nessuno: le attività stagionali di turismo e commercio sono particolarmente esposte allo sfruttamento. Certo, se si vogliono fare distinzioni tra una paga da tre euro l’ora e una da 1,09 forse non è chiaro quale sia il problema.

 

Articolo di Roberta Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 19/8/2022

 




Il dovere di essere infelici

Una notizia pubblicata un paio di giorni fa ci spinge a considerazioni che vanno ben oltre il mondo del lavoro.

Il fatto da cui partiamo è la condanna per comportamento antisindacale della  “Betty Blue”, azienda appartenente al marchio di moda di Elisabetta Franchi.

Cos’è successo? È successo che alle operaie era stato imposto l’obbligo di 8 ore settimanali di straordinario. Ore retribuite, ma che comportavano un aumento dell’orario di lavoro di circa un’ora e mezzo al giorno. Le operaie hanno retto finché hanno potuto, poi hanno proclamato uno sciopero dello straordinario, limitandosi ad uscire dal lavoro all’orario contrattualmente previsto. Per questo motivo sono state punite dall’azienda.
La Filcams di Bologna ha impugnato i provvedimenti disciplinari davanti al Giudice del lavoro, che ha sanzionato l’azienda per comportamento antisindacale.

Fino a qualche tempo fa erano in tanti a non aver mai sentito nominare Elisabetta Franchi ed il suo marchio. Poi l’imprenditrice si è presa le luci della ribalta grazie alle sue dichiarazioni, peraltro rilasciate alla presenza di una distrattissima Ministra delle Pari Opportunità:

“Nella mia azienda ho spesso puntato sugli uomini”.
“Le donne le ho messe, ma sono “anta”, sono ragazze cresciute. Se dovevano far figli o sposarsi lo hanno già fatto e quindi io le prendo dopo tutti i giri di boa, sono al mio fianco e lavorano h24″.

Evitiamo di tornare sulle polemiche scatenate da queste dichiarazioni, sulle tardive giustificazioni della Franchi e della Ministra Elena Bonetti, o sulla presunta capacità  dell’imprenditrice di arrivare in alto partendo da zero, visto che la sua “agiografia” fa acqua da tutte le parti.

Vogliamo invece ragionare sul fatto che quello che ha detto la Franchi, in realtà, sono sempre più imprenditori a pensarlo. E preoccupa, davvero tanto, l’idea di “lavoro” che si sta affermando nel mondo cosiddetto civilizzato.

Il lavoratore deve produrre. E basta.
Non ha diritto a coltivare affetti. Non deve dedicare tempo ai figli, alla famiglia, agli amici. Meno che mai ha diritto a coltivare le sue passioni.
Voler stare vicini ai propri affetti è un segnale di scarso attaccamento al lavoro; una debolezza da nascondere, e della quale vergognarsi.
Chi lavora non ha diritto ad essere felice.

Di più: il lavoratore ha il dovere di essere infelice. La sua aspirazione alla felicità lo distrae dalla produzione, ed il dio PIL non glielo permette.

A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla felicità”. Questa frase è riportata nella Dichiarazione d’Indipendenza de Stati Uniti d’America: era il 1776, e per la prima volta veniva considerata un diritto la legittima aspirazione di ogni uomo ad una vita piena e gratificante.

La nostra  Costituzione, nell’Art. 3, parla di  “Pieno sviluppo della Persona umana” , stabilendo che la Repubblica deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”  che lo impediscono.
La Repubblica dovrebbe rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono ad una persona di essere felice.
E invece…

La Franchi ha detto apertamente ciò che in tanti pensano, che in molti fanno e che da troppi viene considerato normale.

Il lavoratore bravo è quello che non esce in orario, e che non pretende gli straordinari. Che non va in ferie, o che comunque ci va solo quando ci viene costretto. Che non si ammala, e se si ammala lavora lo stesso.
Il bravo lavoratore deve accettare qualsiasi mansione, qualsiasi stipendio. Di più: deve accettare anche l’assenza di stipendio, ringraziando perché impara.
Deve ringraziare per ogni rinnovo di contratto, anche se ha una durata brevissima e gli impedisce qualsiasi progetto per il futuro. Anzi, il lavoratore bravo i progetti per il futuro non li deve fare. Non si sposa, non fa figli. Non ha passioni che lo distraggano dal lavoro.
Il suo unico scopo è la produzione: dev’essere infelice e produttivo.

Nel settore bancario siamo ormai abituati a considerare l’infelicità una normale compagna di lavoro. Per motivi che forse un giorno capiremo ma oggi ci sfuggono, le banche si sono convinte che avere impiegati infelici sia il modo migliore per aumentare i ricavi, perciò fanno di tutto per seminare infelicità: quindi pressioni, intimidazioni, mortificazioni, demansionamenti, trasferimenti. E poi classifiche, per mortificare chi non è ai primi posti, messaggi di scherno giustificati con la “goliardia”. E una scientifica capacità di far sentire una specie dì nullità chi ha venduto meno di ciò che gli veniva richiesto,
Se lo scopo è rendere infelici gli impiegati, non potrebbero farlo meglio.

Se c’è una battaglia che oggi vale la pena di combattere è quella per recuperare il diritto alla felicità, alla propria realizzazione come individui. Che passa per il riconoscimento della nostra dignità di persone sul posto di lavoro. Il che equivale a dire ribaltare tutto ciò che sta avvenendo: retribuzioni eque, orari compatibili con la vita privata, possibilità di crescita personale e professionale.
Ricordando sempre che il lavoro è un mezzo, non un fine. E che ognuno di noi, attraverso il lavoro, ha il diritto di provare a conquistarsi un pezzetto di felicità.

Acquisire questa consapevolezza sarà la nuova sfida. La coscienza di classe del XXI secolo.

 

 




Un barista sfruttato risponde a Borghese: “Per vivere servono i soldi”

In questi giorni, dopo le dichiarazioni di Alessandro Borghese (“lavorare per imparare non significa essere pagati”) e Flavio Briatore (“i giovani preferiscono il weekend libero al lavoro”),  Emanuele Caprarelli, 32enne di Scampia, ha sentito l’esigenza di scriverci a Napoli Today al fine di raccontare la propria esperienza lavorativa come barista sottopagato e sfruttato.

“Sono Emanuele, un ragazzo di 32 anni, nato e cresciuto a Scampia. Ho perso mio padre poco dopo aver compiuto 18 anni, ma avevo una passione: quella del caffè, che poi a Napoli è una vera e propria cultura.

Pur di non delinquere, visto il quartiere problematico e viste le tante responsabilità che mi hanno praticamente rubato l’adolescenza, ho deciso di voler imparare il mestiere di barista. Lavoravo in un bar di Napoli, iniziavo alle 6.30 e se tutto andava bene finivo alle 17.00. Durante il periodo estivo iniziavo alle 6.00 e se tutto andava bene finivo alle 23.00; dovevamo alternarci per l’unica settimana di ferie concessa durante l’anno.

Ho iniziato guadagnando 120 euro a settimana, che moltiplicati per 4 settimane totalizzano 480 euro. Vivevo con mia mamma ma senza mio padre. Con i miei soldi riuscivamo a fare ben poco, una piccola pensione di reversibilità e la fortuna di una casa popolare aiutavano a poterci permettere un piatto di pasta al giorno.

Dopo quasi 8 anni, la mia paga è salita a 180 euro a settimana che moltiplicati per 4 totalizzavano 730 euro al mese. Nessun contratto, se mi ammalavo era un mio problema, le ferie erano solo 7 giorni in estate, contributi mai versati, forse solo 2 anni.

Dopo 8 anni di sangue versato per imparare, di psicologia applicata per relazionarti al pubblico, di pianti fatti di nascosto perché ero stanco ma non potevo mollare, ero arrivato a guadagnare 200 euro in più rispetto all’inizio senza nessun riconoscimento, nemmeno morale, anzi dovevo ringraziare del lavoro, se così lo vogliamo chiamare, che mi era stato concesso.

Sai cosa è successo poi? È successo che avevo un sogno, quello di aprire un bar tutto mio e ci ho provato in tutti i modi, Dio solo sa quanto volte ci ho provato, quante notti non ho dormito per i progetti, i disegni, l’arredamento.

Nel frattempo studiavo; sai, vista la disgrazia che mi ha colpito non ho avuto tempo, ma stavo recuperando e quindi finivo di lavorare, andavo a casa, mi facevo una doccia e poi andavo a scuola fino alle 22.30. Dopo tornavo a casa, mangiavo, dormivo 6 ore e poi di nuovo il giorno dopo: dalle 6.00 alle 17.00 a lavoro, dalle 18.00 alle 22.30 a scuola, così per 4 anni.

Morale della favola, dopo 12 anni, ho preso il mio bel sogno e l’ho chiuso in un cassetto, mi sono diplomato ho lasciato Napoli e ora sono un tecnico che lavora sulla fibra ottica a Bologna e tutte le volte che entro in un bar a prendere un caffè provo odio e tanto rancore verso chi mi ha spezzato il cuore non permettendomi di inseguire il mio sogno, solo mio.

Vedi caro chef (Borghese)  per poter vivere occorrono i soldi, eh sì, occorrono proprio i soldi. Occorrono soldi quando devi mangiare, perché nessuno ti regala nulla e in virtù di questo nessun giovane deve regalare il suo tempo, perché non gli tornerà mai più indietro.

Ti do un consiglio, sfrutta la tua popolarità insieme al tuo sapere per ottenere altri tipi di obiettivi.

 

Fonte: Napoli Today

 

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L’ennesima prova: i giovani vogliono lavorare, non essere schiavi

Il caporalato dilaga anche dove non te lo aspetti. Come ad esempio alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama.

Gravissimi i capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti del gruppo. Le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. E pensare che solo qualche anno fa quella stessa azienda lamentava che non c’erano giovani a voler fare i turni. Di sicuro non volevano fare gli schiavi.

 


 

Il caporalato dilaga. Lascia il lavoro nei campi al quale più spesso è associato per scrivere l’ennesima pagina di sfruttamento là dove non te lo aspetti, alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama. Contenuti che stridono in modo insopportabile con i gravissimi capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti dell’azienda.

Più simili a un film dell’orrore che a un grande classico per bambini, le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. I lavoratori venivano picchiati, legati e derubati di documenti e cellulari se osavano ribellarsi. Condizioni di semi-schiavitù imposte a una ventina di cittadini pakistani dipendenti di un’azienda trentina, utilizzati come manodopera nei magazzini di Grafica Veneta.

Per gli inquirenti il management dell’azienda di Trebaseleghe ne era perfettamente a conoscenza. per questo tra i provvedimenti presi ci sono anche gli arresti domiciliari per caporalato dell’amministratore delegato Giorgio Bertan e del responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton.

Le vittime, molte delle quali appena arrivate in Italia, venivano prelevate all’alba e costrette a lavorare fino a sera. Di fatto vivevano segregate in due abitazioni nelle vicinanze dell’azienda, ammassate e sorvegliate. Chi tentava di ribellarsi, provando a contattare i sindacati, veniva sequestrato, derubato di documenti e cellulare e brutalmente picchiato. Undici cittadini pakistani sono stati ritrovati ai bordi delle strade tra le province di Padova e Venezia, imbavagliati e con le mani legate dietro alla schiena.

A gestire questo sistema criminale due cittadini, anche loro pakistani, proprietari dell’azienda trentina BM Services, che offre servizi di confezionamento di prodotti per l’editoria. Colpevoli, secondo le indagini, anche di un tentativo di depistaggio, avendo falsificato le timbrature dei dipendenti in modo da far risultare turni di otto ore.

​​”Le responsabilità penali dei dirigenti di Grafica Veneta verranno accertate dalla magistratura” – il commento di Christian Ferrari, segretario generale Cgil Veneto, e Aldo Marturano, segretario generale Cgil Padova -. Ma quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù e privati dei diritti più elementari e perfino della libertà personale.

Come Cgil, abbiamo molte volte denunciato, e da anni, il fenomeno del caporalato, presente in Veneto soprattutto nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, della logistica. Ma il fatto che nemmeno una realtà considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia, secondo gli inquirenti, immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti e deve far agire le Istituzioni.

Il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni, ormai è chiaro, è un sistema malato, che si fonda sulla artificiosa frantumazione dei cicli produttivi, sulla forsennata ricerca della compressione dei costi, a partire da quelli del lavoro, e quindi sullo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori più poveri.

Anche in questo caso, infatti, si tratta dell’affidamento a terzi di un’attività che è parte integrante del ciclo produttivo diretto.

Sugli appalti pubblici abbiamo ottenuto importanti risultati nel confronto con il Governo, dobbiamo fare altrettanto anche sugli appalti privati.

A livello veneto, per sconfiggere il fenomeno del caporalato e di un’illegalità economica troppo diffusa, non basta l’azione delle Forze dell’Ordine e dei Magistrati, che vanno ringraziati per lo straordinario impegno con cui stanno operando. E non basta nemmeno il sindacato, che continuerà comunque a fare fino in fondo la sua parte. Occorre una presa di coscienza, e scelte conseguenti, di tutta la società, a partire dalle organizzazioni datoriali, che non possono tirarsi indietro in questa battaglia di civiltà.

Dalla pandemia e dalla crisi economica usciremo solo cambiando modello di sviluppo, e rimettendo al centro il lavoro libero, dignitoso e di qualità, non perpetrando le storture già tutte presenti nel nostro sistema ben prima dell’arrivo del Covid 19.

Fonte: www.collettiva.it

 




Il lavoro nobilita (solo) gli anziani

Apprendiamo da Repubblica, che l’ha letto su Bloomberg, che negli Stati Uniti si registra un boom di assunzioni di lavoratori anziani nelle catene di fast-food. Ammettiamo che il colpo d’occhio è suggestivo: gli individui sopravvissuti alle malattie cardiovascolari provocate dalle abbuffate da McDonald’s hanno come premio un impiego presso gli stessi ristoranti, dove oggi servono schifezze a una nazione satolla.

Negli ultracapitalisti Stati Uniti il sistema performa il proprio collasso: 9 milioni di persone sopra i 65 anni, invece di crogiolarsi nel fine di ogni esistenza umana (oziare, riposarsi), lavorano indefesse a rendere l’America great again.

Con una disoccupazione al 3,7%, l’impero della Libertà ha realizzato il suo sogno (incidentalmente, è anche il sogno dei totalitarismi). Chi pensa che Trump faccia gli interessi dei dimenticati contro l’establishment farà bene a considerare a quale degenerazione ha condotto la sua narrazione anti-globalista. In un contesto di piena occupazione c’è carenza di manodopera; per sopravvivere, le aziende sono costrette ad aumentare i salari (lo ha fatto Amazon, e non per filantropia ma in base al principio della concorrenza) oppure a inventarsi metodi nuovi per risparmiare. Un metodo è licenziare personale per comprare macchine, almeno finché i robot non saranno tassati; un altro è assumere lavoratori che si possa pagare meno. Chiunque dotato di gambe e braccia può friggere patatine. Trasformare l’essere umano in un mero strumento di carne a basso sostentamento biologico è sempre stato il sogno dei capitalisti; se si possono sfruttare i giovani, o se non si possono più sfruttare, perché non sfruttare i vecchi?
(Da noi il governo Renzi ha invertito il trend, mandando gli studenti minorenni a lavorare gratis nei fast-food e chiamando questa ingegnosa forma di schiavismo “alternanza scuola-lavoro” ).

Il denaro, nel sistema capitalistico, spinge la natura ad andare contro se stessa: oggi gli adulti delle democrazie liberali, invece di prendersi cura dei figli e assistere gli anziani, ciondolano nei fast-food serviti dai loro padri sottopagati.

Ma c’è un passaggio che ci ha colpito nell’articolo di Repubblica: posto che “per catene come McDonald’s assumere personale over 50 o meglio ancora pensionato è più che conveniente”, i vecchi piacciono ai padroni perché hanno altri skill: “non hanno ambizioni di carriera e spesso nemmeno la necessità di uno stipendio pieno, visto che percepiscono già l’assegno dallo stato. In sostanza: costano meno, hanno meno pretese e si divertono di più”.
Al diavolo l’artrosi, il lavoro nobilita l’anziano. Ecco il ricatto, sotto una filigrana di ottuso ottimismo, che il capitalismo neo-liberale ha fatto a milioni di suoi figli-vittime: il lavoro, anche il peggio retribuito e il più alienante, è l’unica sfera di realizzazione dell’essere umano, che in essa si sente motivato e felice. A questo dogma hanno lavorato anni di lavaggio del cervello a colpi di elogi del “merito”: meritevole è chi è conforme ai principi dell’aziendalismo, chi ne sposa la indiscutibile, ontologica necessità, chi è tanto fortunato da percorrere una carriera scolastica senza freni o malattie, chi coglie al volo ogni lavoretto in attesa d’inventarsi start-upper.

Ora pare che i giovani iperformati non si bevano più la frescaccia della “flessibilità” e pretendano salari più alti. Da noi, con la disoccupazione giovanile al 32,7% (dati Istat), le aziende dovranno accontentarsi di spremere sangue giovane ancora per un po’, e i padroni trovarsi di fronte, invece che vecchi gagliardi contenti di questa sbarazzina alternativa all’eugenetica, i visi lunghi di viziati bamboccioni che non raccolgono pomodori come i loro coetanei neri (che anche perciò abbiamo tutto l’interesse a mantenere privi di diritti) e non si divertono più nemmeno a grigliare hamburger.

 

Articolo di Daniela Ranieri pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/11/2018




Sugo amaro

LA BALLATA DEI BERRETTI ROSSI

Mattina presto, e i berretti rossi si radunano nella piazzola in attesa del caporale.

POMODORI PELATI IN LATTINA DA 500 g. A 0,65!

Il furgone verso i campi non ha finestrini e l’aria non entra ma è ancora fresco, di primo mattino, e si respira.

SOTTOCOSTO! PASSATA DI POMODORO A 0,78 EURO A BOTTIGLIA!!

Il sole è alto: nei campi roventi i berretti rossi tirano su pomodori, perché quel singolo euro di paga per ogni quintale fa gola a tutti.

INCREDIBILE! POLPA A PEZZI A 1,90 EURO PER TRE LATTINE DA 210 GRAMMI!!!

Fine della giornata e i berretti rossi risalgono sul furgone per tornare a casa: quella scatoletta di metallo ora è rovente e c’è odore di pomodori schiacciati a terra e sudore, e proprio non passa un filo d’aria.

SUGO PRONTO IN BARATTOLO A 2,30 EURO AL KG!!

Il furgone sbanda e poi frena, dentro tutti i berretti rossi finiscono l’uno sull’altro, poi il furgone sbatte contro qualcosa – che brutto rumore – e i berretti rossi cadono, e poi le lamiere si piegano, e poi…

POMODORI SAN MARZANO A 0,55 EURO AL KG!!

 

Roma, 7 agosto 2018

 

La Segreteria Nazionale FISAC Banca d’Italia

 

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