Io ho un sogno

Esattamente 60 anni fa, Martin Luther King pronunciava un discorso destinato ad entrare nella storia. Parole che divennero il simbolo della lotta contro il razzismo.

Il suo messaggio è quanto mai attuale. Per questo, pubblichiamo un estratto dalle parole pronunciate il 28 agosto 1963 alla fine di una manifestazione per i diritti civili nota come la marcia su Washington per il lavoro e la libertà durante la presidenza Kennedy.

 

Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho un sogno, oggi!

Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto. Terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente.”

 

“Liberi finalmente”. Free at  last.

Le stesse parole saranno usate dagli U2, ribaltandone volutamente il significato, nel bellissimo brano Pride (In the name of love).

“Free at last, they took your life, they could not take your pride”

Liberi finalmente (ma qui si riferiscono ai suoi assassini). Ti hanno tolto la vita perché non potevano toglierti l’orgoglio.

Parole che danno i brividi, e che fanno riflettere sulle conseguenze dell’odio. Perché ci può essere sempre qualcuno che pensa di “liberarsi”, togliendo di mezzo quell’individuo fastidioso che sogna un domani in cui bambini di diverso colore possano sedere insieme allo stesso tavolo.

 




Nessuno lascia la propria casa. A meno che…

Casa

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri
solo quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo.
Lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

Nessuno lascia casa sua
a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia.

Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.

Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali
a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.

Nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato.

Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto.

Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora
vogliono distruggere il nostro.

Le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?

Forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda

A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante.

Nessuno lascia casa sua
se non quando essa diventa una voce sudaticcia
che ti mormora nell’orecchio
vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Warsan Shire

Poetessa britannica di origine somala, nata in Kenya nel 1988. Vive a Londra dove i suoi genitori si sono rifugiati per scappare alla guerra civile in Somalia negli anni ottanta.
Avevamo già pubblicato questa poesia ad ottobre 2019. Purtroppo non cessa di essere attuale.



“L’ITALIA NON E’ UN PAESE RAZZISTA!!!” Siamo proprio sicuri?

Questa è la risposta che immancabilmente ci viene data ogni qualvolta si prova a porre la questione razzismo. E di solito, i più sdegnati e pronti a rispondere sono quelli che dicono “Non sono razzista. Ma…” e lì partono tutti i più triti e ritriti stereotipi su stranieri, persone con la pelle di un altro colore o che professano un’altra religione.
In passato molti Italiani non sapevano di essere razzisti fino a quando non sono entrati in contatto con popoli e culture diverse dalla loro. Da quando la nostra società è diventata multietnica, il mito degli “Italiani brava gente” ha cominciato a vacillare.

Cosa sta succedendo in Italia in questi giorni?

 

SEID, 20 ANNI

“Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”.

Queste parole provengono da una lettera scritta tre anni fa da Seid Visin ad un amico. Seid Visin era nato in Etiopia vent’anni fa. Amava il calcio: aveva giocato nelle giovanili del Milan e del Benevento. Poi aveva deciso di tornare a Nocera Inferiore per conseguire il diploma al liceo scientifico, abbandonando così il sogno del calcio professionistico.
Crescendo ha scoperto qualcosa che non inizialmente non aveva immaginato: lui era diverso. Il colore della sua pelle lo portava a non essere trattato come gli altri, in un paese in cui essere troppo scuri è una colpa. Tanto da aver dovuto lasciare il lavoro di barista: troppa gente rifiutava di farsi servire da lui. Eppure Seid si sentiva italiano, uguale ai ragazzi della sua età.
Ma nonostante tutto, non si atteggiava a vittima. Leggiamo dalla stessa lettera:

“Non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.

Seid è stato trovato senza vita nella sua camera da letto: non ce l’ha fatta ad andare avanti.
Il padre adottivo invita a non strumentalizzare le parole scritte diverso tempo fa, a non collegare il suo suicidio al razzismo, e noi dobbiamo rispettare il suo volere, senza però dimenticare la sofferenza di un ragazzo al quale stupidità, ignoranza e cattiveria hanno impedito di sentirsi uguale ai suoi coetanei.

MOUSSA, 23 ANNI
Moussa Balde veniva dalla Guinea, un paese vittima della violenza incontrollata in cui una vita umana vale pochissimo. Era fuggito come qualsiasi essere umano avrebbe voluto fare al suo posto.
Uno degli stereotipi più radicati tra noi “fortunati” è che essere nati in un Paese nel quale è impossibile vivere costituisca una colpa che rende indegni di aspirare ad una vita “normale” e magari desiderare di essere felici.
Una logica aberrante, che ci porta a bollare come criminali tutti coloro che fuggono dalla povertà e dalla disperazione, ma contemporaneamente ci fa considerare normale che i nostri figli vadano a lavorare all’estero perché “In Italia gli stipendi sono troppo bassi”:
Un atteggiamento che, ci piaccia o no, rappresenta già una forma di razzismo.
Moussa arriva in Italia 4 anni fa come richiedente asilo: sarebbe un suo diritto, viste le condizioni inumane del Paese da cui proviene. Non cerca di andarsene in Francia come molti suoi compagni di viaggio: decide di fidarsi dell’Italia, paese nel quale frequenta le scuole medie ed impara la lingua. Moussa vuole impegnarsi: partecipa attivamente ad iniziative sociali e culturali, ma non riesce ad avere una vita normale. Sì, perché l’asilo non arriva e lui diventa un clandestino.
Tutti noi abbiamo imparato a dare a questa parola un significato tremendo: il clandestino è un criminale, un mostro, un subumano. In realtà, clandestino è semplicemente un essere umano a cui manca un documento, ma resta una persona con tutti i suoi sentimenti, i suoi sogni e le sue paure.
E la persona Moussa è terribilmente tormentata: il Paese nel quale avrebbe voluto costruirsi una vita normale non lo vuole. Da qui la decisione di andarsene in Francia. Ma anche la Francia non lo vuole: Moussa viene prontamente riportato in Italia.
Provate ad immaginare come può essersi sentito: una vita senza speranza, senza una via d’uscita, in cui sembra che tutto il mondo vi respinga.
Lo scorso 9 maggio, mentre sta chiedendo l’elemosina davanti ad un supermercato di Ventimiglia, Moussa viene circondato da fascisti e massacrato con delle spranghe di ferro, senza alcun motivo a parte il vigliacco piacere di infierire su una persona più debole.

Si ritrova in ospedale, dove finalmente spera che qualcun si prenda cura di lui, della sua tragica esistenza. E invece arriva l’ultima amarezza: per la Polizia i criminali non sono quelli che lo hanno aggredito. Moussa è un clandestino, quindi è lui il delinquente, quello che va punito.

Uscito dall’ospedale si ritrova recluso nel Centro di Permanenza Rimpatri (una specie di carcere per persone che non hanno commesso reati) in attesa di essere espulso. E lì, lo scorso 23 maggio Moussa decide di liberarsi dal peso di un’esistenza insopportabile.

Non si dava pace per aver ricevuto un trattamento che non capiva e non meritava. E alla fine ha trovato il modo per uscire dall’inferno nel quale era vissuto.

NELSON, 30 ANNI
Questa storia parte in modo diverso dalle altre. Nelson Yontu è nato in Camerun, ma nel nostro Paese è riuscito a farsi strada. Si è laureato in medicina a Padova, è stato assunto dall’INPS e fa il medico fiscale, cioè la persona che si occupa di verificare la veridicità dei certificati di coloro che si assentano dal lavoro.
In Italia non è un lavoro facile. Siamo un paese che è sempre pronto a schierarsi con i furbi. Il falso malato suscita in fondo simpatia, e se qualcuno prova a smascherarlo è lui l’infame, non chi aveva cercato di frodare lo Stato ed il suo datore di lavoro. Immaginiamo cosa può succedere nel Paese che “Non è razzista ma…” se a svolgere il ruolo dell’infame è una persona di colore.
E in effetti, è quello che è accaduto lo scorso 2 giugno, durante una visita fiscale a Chioggia. Nelson suona alla porta del presunto malato ma non lo trova. Passano pochi minuti e il finto malato, probabilmente avvertito dai familiari, torna di corsa in bicicletta, in costume da bagno ed infradito. Cosa succede a quel punto? Lo racconta la moglie in un post pubblicato su Facebook:
Succede che in orario di visita un uomo che non era in casa, avvisato telefonicamente dai vicini, arriva in bicicletta indossando il costume e invece di giustificare con vergogna la propria assenza, ti sequestra chiudendo il cancello della palazzina e ti minaccia ripetutamente di morte.
Succede che avvicina la mano a un bastone mentre ti urla “Negro di merda, da qui non esci vivo“, “Non puoi venire in Italia a fare il cazzo che ti pare“, “Tu mi firmi che ero in casa o ti spacco la testa”, poi ti strappa il tablet dalle mani e lo scaraventa su un muretto rompendolo in mille pezzi.
Succede che tutto avviene davanti ai vicini affacciati alle finestre e ai cancelli e, mentre tu chiedi “Per favore chiamate la polizia”, “Per favore aprite il cancello”, loro ti guardano sghignazzando, si piazzano sulla sedia che lui ci ha messo davanti per bloccarti la strada e si prendono gioco di te “No, adesso te la vedi con lui”.
Succede che nonostante le tue richieste di aiuto di fronte a un uomo violento, nessuno viene in tuo soccorso o prova a calmarlo. Anzi, mentre tu tenti di chiamare il 112 in un momento di distrazione dell’uomo, le vicine lo informano che hai chiamato la polizia, che hai il cellulare nascosto tra i fogli e lui te lo strappa privandoti della tua unica possibilità di salvezza.
Succede che per salvarti la vita vieni obbligato a sottoscrivere il falso e quando finalmente riesci ad allontanarti e ad entrare nella tua auto, l’uomo ti raggiunge per dirti “Sei morto, ti vengo a prendere” e con violenza inaudita divelle la maniglia della portiera dell’auto di cui stai pagando le rate, per scagliarla contro il tuo finestrino. E mentre tu tenti di andartene, un altro vicino gli offre un passaggio in moto per inseguirti mentre scappi.
Perché sei nero.
La coppia ha annunciato che probabilmente se ne andrà. Perché hanno una bambina di due anni, che non vogliono vogliono far vivere in questo modo. Non vogliono che provi quello che ha provato il povero Seid.

 


La CGIL, come dice l’Art.1  dello Statuto, è un’organizzazione plurietnica che ripudia fascismo e razzismo.
Perché il razzismo, anche quello che ormai siamo abituati a considerare normale, quello delle chiacchiere da bar e delle stupidaggini scritte sui social, uccide e distrugge vite umane.
E non serve sempre usare la violenza fisica: bastano le parole ad uccidere.
Seid e Moussa non ci sono più, Nelson avrà la propria vita stravolta, e come loro ci sono tantissimi esseri umani le cui storie non arrivano agli onori della cronaca.
Le loro tragedie non sono colpa del destino: hanno milioni di mandanti che, con gesti e parole apparentemente innocue, hanno contribuito attivamente a distruggere degli esseri umani.



Caro Presidente Conte…

Caro Presidente Conte,

Mi rivolgo a lei perché ho saputo che, pur essendo un uomo di straordinaria importanza, è così sensibile da aver risposto personalmente alla missiva di un bimbo di cinque anni che le chiedeva un’autocertificazione speciale per Babbo Natale.

Forse quindi risponderà anche a me.

Sarò sincero, l’autocertificazione non mi preoccupa molto. Ho solo cinque mesi e nessuno mi ha mai parlato di questo Babbo Natale. Né potrò scoprire di che si tratta, visto che sono annegato.

Quei volontari erano quasi riusciti a salvarmi. Ma ero troppo provato dal naufragio e avrei avuto bisogno di cure che in mezzo al mare non ci sono. Purtroppo nessuno è venuto a prendermi per portarmi sulla terraferma.

So che lei è molto impegnato, ma volevo chiederle se può fare qualcosa per aiutare le persone che annegano cercando di raggiungere il suo paese.

Non lo dico per me, io ormai la vita l’ho persa.

Ma le barche sono piene di bambini come me che, mi creda, sono costrette a partire. A casa loro non possono restare perché soffrirebbero la fame. In Libia non possono restare perché morirebbero nei campi di concentramento.

Nessuno mette i suoi figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”.

Con calma, senza fretta. Mi rendo conto che queste cose da grandi richiedono tempo e le priorità sono altre. Il Natale per esempio.

Intanto, forse, può aiutare quel bambino di sei anni che era sulla barca con me. È quello che nella foto vomita acqua, perché quando sono arrivati i volontari stava annegando anche lui. Nel viaggio ha perso la madre, ora è completamente solo.

Le chiedo scusa, le sto rubando tempo. È che mi è sembrato che lei ci tenesse, ai bambini.

Le auguro buon lavoro e spero che potrà fare qualcosa per noi.

 

Post scriptum:

Perdonatemi se ho indugiato in una figura retorica molto banale. Come tanti sono colpito dalla trovata della letterina e dalla retorica del “salvare il Natale” che imperversa sui media, e ho trovato infinitamente triste la sovrapposizione dei due bambini nelle cronache di questi giorni.

Vorrei solo dire che:

È necessario ripristinare un sistema istituzionale di ricerca e soccorso.

È necessario smettere di ostacolare le organizzazioni che salvano vite in mare.

È necessario ricostruire una cultura dell’empatia e della solidarietà.

Chiedo scusa in anticipo per l’accostamento (un’altra forma retorica), ma credo che sia anche a causa dell’abitudine a rimuovere dalla coscienza collettiva i morti altrui che siamo capaci di superare con una scrollata la strage che si consuma oggi nei nostri ospedali.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

Leggi anche:

https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/nessuno-lascia-la-sua-casa.html

 

 

 

 

 




Sulla strada

“Mi svegliai che il sole stava diventando rosso; e quello fu l’unico preciso istante della mia vita, il più assurdo, in cui dimenticai chi ero – lontano da casa, stanco e stordito per il viaggio (…). Non avevo paura; ero semplicemente qualcun altro, uno sconosciuto, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma.”
J. Kerouac

Potrebbe dirsi una singolare rivisitazione del celebre romanzo di Kerouac la foto che rimbalza sui media da oggi: ritrae due donne e una bambina che dormono per terra, sull’asfalto di un parcheggio, nel pieno centro cittadino.
Invece non abbiamo a che fare con un diario della Beat generation.

Non si tratta del racconto di persone che intraprendono un viaggio in autostop per fuggire a regole e convenzioni, che cercano l’ebbrezza delle sensazioni estreme, che rifiutano di adattarsi alla società.
È l’esatto il contrario.
Si tratta di persone che hanno viaggiato su mezzi di fortuna, che fuggono da fame e guerra affrontando situazioni estreme e che, tuttavia, la nostra società rifiuta.

Guardandola, possiamo scegliere.
Se guardare scorrere la strada e la realtà senza affrontarne gli aspetti morali, un po’ come fa Kerouac, o pensare che noi, il nostro Paese, la nostra Europa, ricchi di una storia lunga di diritti conquistati, non possa fallire ora, davanti a questa foto e, semplicemente, respingerla.

Il giudizio che ne diamo, passando sulla strada, è la proiezione della meta che raggiungeremo: una roccaforte che si si barrica nell’odio e si disgrega nell’abbandono dei propri principi o una civiltà, che ancora sa affermarsi, costruire, accogliere.

Emnuela Marini
Fisac/Cgil Banca d’Italia

 




Usereste l’immagine di una scimmia per combattere il razzismo?

La Lega Calcio ha usato una immagine che raffigura il volto di 3 scimmie per la sua campagna contro il razzismo negli stadi.

La scelta ha sollevato una valanga di critiche, sia in Italia sia sui media internazionali.

Volendo interpretare la scelta in modo benevolo, si può immaginare (con molta immaginazione) che l’intento fosse dire ai razzisti da stadio, come ha sostenuto l’autore: “smettetela di fare i razzisti, siamo tutti uguali, siamo tutti scimmie”.

E, pur volendo adottare questa interpretazione benevola, già sembra di sentire l’ultrà razzista di turno dire: “se siamo tutti scimmie, che male faccio a chiamare un nero scimmia, a lanciargli delle banane, a fargli buuuu quando tocca la palla? Tanto anche lui è una scimmia…”

Il calcio italiano è alle prese con un problema persistente: una serie di giocatori è stata nuovamente vittima di abusi razzisti negli stadi del Paese, gruppi di ultrà hanno difeso il loro presunto diritto di maltrattare chiunque scelgano e alcuni club hanno negato che il razzismo sia persino un problema.

Quindi la Lega Serie A, l’organizzazione che sovrintende alla massima serie di calcio del Paese, ha risposto lanciando una serie di iniziative contro il razzismo. Quasi immediatamente, una di queste – una serie di immagini di scimmie con i colori dei club – è stata criticata come razzista. “In un paese in cui le autorità non riescono a gestire il razzismo settimana dopo settimana #SerieA ha lanciato una campagna che sembra uno scherzo da malati”, ha dichiarato la rete antidiscriminazione europea  Football Against Racism. “Queste immagini sono un oltraggio, saranno controproducenti e continueranno la disumanizzazione delle persone di origine africana.”

Le tre immagini realizzate dal pittore Simone Fugazzotto, che saranno appese all’ingresso del quartier generale della Serie A a Milano, raffigurano tre scimmie, ognuna decorata con colori diversi. Fugazzotto – che usa regolarmente immagini di scimmie nel suo lavoro – ha scritto su Instagram di aver avuto l’idea per le immagini dopo una partita allo stadio di San Siro di Milano tra Inter e Napoli. Durante quella partita, dei fan interisti avevano diretto versi da scimmia contro il difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly.

Avevo una tale rabbia che ho avuto un’idea“, ha scritto Fugazzotto. “Perché non smettere di censurare la parola scimmia nel calcio, ma girare il concetto e dire invece che alla fine siamo tutti scimmie?”

Dato il contesto, tuttavia, l’utilizzo di tali immagini sembra essere un errore sorprendente. Diversi giocatori della massima serie sono stati vittime di versi di scimmie negli stadi italiani anche in questa stagione: tra gli altri, Romelu Lukaku è stato maltrattato mentre giocava per l’Inter a Cagliari, il terzino sinistro brasiliano della Fiorentina Dalbert ha subito canti simili sul campo dell’Atalanta e Ronaldo Vieira della Sampdoria è stato preso di mira dai tifosi della Roma mentre giocava nello stadio di casa. Mario Balotelli, vilipeso come gli altri, durante una partita a Verona ha preso la palla e l’ha calciata tra la folla. Poi gli altri giocatori e gli ufficiali di gara hanno convinto l’attaccante a rimanere in campo.

La risposta delle società calcistiche e delle autorità è stata questa: il Cagliari non è stato penalizzato per l’incidente di Lukaku e inizialmente i funzionari del Verona si sono rifiutati di riconoscere che fosse successo qualcosa che spiegasse la rabbia di Balotelli. In tutti i casi, gli ultrà (razzisti) delle squadre hanno negato che i loro fossero comportamenti razzisti, per la serie “non siamo noi razzisti, è lui che è nero”.

Il Corriere dello Sport ha avuto la bella idea di annunciare una partita tra Inter e Roma che si giocava il venerdì usando le immagini di due calciatori neri,  Lukaku e Smalling e il titolo “Black Friday”. Quando anche i due giocatori hanno criticato la decisione, il giornale ha detto di essere vittima di un “linciaggio”.

De Siervo, a.d. della Lega di serie A, ha inizialmente respinto l’osservazione che l’uso di immagini di scimmie per convincere a evitare cori razzisti potrebbe contribuire al problema, piuttosto che risolverlo. “I dipinti di Simone riflettono appieno i valori del fair play e della tolleranza, quindi rimarranno nella nostra sede”, ha detto.

Successivamente, sotto il montare delle critiche, ha trasmesso una dichiarazione che rappresenta una parziale retromarcia: «Ci scusiamo con tutti coloro che si sono sentiti offesi per l’opera realizzata da Simone Fugazzotto. Nonostante l’artista avesse spiegato che il senso della sua creazione fosse proprio un messaggio contro il razzismo, l’opera è apparsa però a molti discutibile. Ciò che non può essere oggetto di discussione è la forte e costante condanna da parte della Lega Serie A contro ogni forma di discriminazione e razzismo, fenomeni che siamo impegnati a sradicare dal nostro campionato. La Lega Serie A sta lavorando alla campagna ufficiale antirazzismo, che non può essere identificata con l’opera di Fugazzotto, e che sarà presentata entro fine febbraio».

 

Fonte: People for Planet 




FISAC Banca d’Italia: dalla parte di Liliana

Alla notizia della scorta assegnata a Liliana Segre dopo le minacce subite negli ultimi tempi, la domanda stupita che si è sentita più spesso è “Cosa stiamo diventando? Cosa siamo diventati?”.

Quale che sia la risposta, forse sarebbe saggio chiedersi anche “quando” lo siamo diventati. Forse è stato quando abbiamo dichiarato gli stadi di calcio “zone franche” in cui chiunque può ululare insulti a ebrei, zingari, neri: tanto nessun provvedimento efficace viene preso.

O forse è stato quando Gad Lerner è stato gravemente insultato e minacciato, chiamato con disprezzo “ebreo” mentre faceva il suo lavoro di giornalista al raduno leghista di Pontida. Oppure è stato quando abbiamo lasciato che i social network diventassero il terreno perfetto per aggressioni sessiste, auguri di stupro e di morte alle donne che si “espongono” con posizioni politiche scomode.

Abbiamo lasciato che i portatori di odio spostassero l’asticella sempre più in alto, fino all’impensabile: prendersela con una signora coi capelli bianchi sopravvissuta al campo di concentramento più famoso della Storia. Una donna che, probabilmente, pensava di aver già pagato alla vita un prezzo molto alto, ma che, condividendo i propri ricordi personali, ha contribuito a tenere in vita una memoria collettiva altrimenti destinata ad affievolirsi.

Ma è con la proposta di istituire una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza che la senatrice Segre incarna sì la vittima, ma che reagisce e questo, per alcuni, non va affatto bene.

I gruppi parlamentari di destra si astengono dal voto sulla proposta di Commissione, lamentando – con involontario tragicomico senso dell’umorismo – tentativi di censura.

Il resto – gli insulti, le minacce – è cronaca di questi giorni; e la necessità di mettere sotto scorta una signora di novant’anni sopravvissuta ad Auschwitz non fa che certificare il mesto fallimento culturale della nostra società.

Roma, 8 novembre 2019

 

La Segreteria Nazionale Fisac-Cgil Banca d’Italia




Nessuno lascia la sua casa

Una poesia che è un pugno nello stomaco.

Da leggere assolutamente, soprattutto per coloro che, mentre pregano per il figlio che si è trasferito all’estero alla ricerca di un lavoro dignitoso, gioiscono per ogni gommone che affonda nel Mediterraneo.

 

CASA

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo;
verso il confine ci corri
solo quando vedi tutta la città correre,
i tuoi vicini che corrono più veloci di te,
il fiato insanguinato nelle loro gole.

Il tuo ex-compagno di classe,
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine,
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo;
lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo;
fuoco sotto ai piedi,
sangue che ti bolle nella pancia.
Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti il collo,
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale sotto il respiro;
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto,
singhiozzando ad ogni boccone di carta,
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca,
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni,
sotto i vagoni,
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
Nessuno striscia sotto ai recinti;
nessuno vuole essere picchiato,
commiserato.
Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori,
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro di una città che arde
e un secondino nella notte
è meglio di un carico di uomini che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare,
nessuno lo può sopportare,
nessuna pelle può resistere a tanto.

Andatevene a casa neri,
rifugiati,
sporchi immigrati,
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese,
negri con le mani aperte:
hanno un odore strano,
selvaggio,
hanno distrutto il loro paese e ora
vogliono distruggere il nostro.

Le parole,
gli sguardi storti,
come fai a scrollarteli di dosso?
Forse perché il colpo è meno duro che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra le cosce
o gli insulti sono più facili da mandare giù
che le macerie,
che le ossa,
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo,
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa,
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda.
A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo,
lasciati i panni dietro,
striscia nel deserto,
sguazza negli oceani,
annega,
salvati,
fatti fame,
chiedi l’elemosina,
dimentica la tua dignità:
la tua sopravvivenza è più importante.

Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso:
non so cosa io sia diventata,
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Warsan Shire

 

Warsan Shire è una giovanissima poetessa britannica di origine somala. Se il nome non vi è nuovo è perché molto si è parlato di lei e della sua scrittura in occasione dell’uscita dell’album Lemonade di Beyoncé, alla quale Shire ha partecipato come autrice di alcuni dei testi. I suoi libri e le sue poesie hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali e sono diventati stendardi in difesa dei diritti degli immigrati. Warsan Shire parla di immigrazione da immigrata e da sempre nelle interviste esprime la volontà di dare voce a chi voce non ha, a chi viene imbavagliato da una retorica razzista che vuole dividere gli esseri umani per appagare la divorante fame di consensi popolari e potere.

Fonte: http://losbuffo.com

 




La politica della paura

Pubblichiamo un articolo molto interessante e ben documentato del Prof. Fabio Sabatini dell’Università “La Sapienza” di Roma.

 

Le domande a cui vorrei rispondere con questo articolo sono:

  1. L’immigrazione causa un aumento del crimine?
  2. C’è differenza tra immigrazione regolare e clandestina?
  3. Perché il pubblico ha paura dell’immigrazione?
  4. Qual è l’impatto della paura sulla spesa pubblica?

 

Milo Bianchi (Université Toulouse 1), Paolo Buonanno (Università di Bergamo) e Paolo Pinotti (Bocconi) hanno studiato il rapporto tra immigrazione e criminalità in Italia.

Lo studio, pubblicato sul Journal of the European Economic Association, si può scaricare qui.

La stime degli autori mostrano che nelle province italiane ad un aumento dell’1% degli immigrati corrisponde un aumento del numero di reati rispetto alla popolazione totale dello 0,1%.

Ma questa relazione è dovuta a una coincidenza, perché gli immigrati si concentrano nelle aree che, per altre ragioni, sono già caratterizzate da alti tassi di criminalità. Per esempio, gli immigrati tendono ad abitare in zone degradate ad alta concentrazione criminale, perché lì le case costano meno.

Se, con tecniche appropriate, si isola la variazione del numero di reati causata dalla variazione del numero di immigrati, si scopre che l’immigrazione non ha alcun effetto sulla criminalità. Il risultato vale sia per il totale degli immigrati sia per le singole nazionalità.

 

Ma gli immigrati sono tutti uguali?

Paolo Pinotti ha studiato la propensione a delinquere degli immigrati regolari e dei clandestini in Italia in uno studio pubblicato sull’American Economic Review (scaricabile gratuitamente qui).

Ogni anno l’Italia mette a disposizione un certo numero di permessi di soggiorno per diversi tipi di candidati, definiti in base al tipo di lavoro, alla nazionalità e alla provincia di residenza. Le domande devono essere presentate online dai datori di lavoro a partire dalle 8 del mattino in determinati “click days”.

Il razionamento dei permessi e la frequenza delle domande nelle prime ore dei click days sono tali che a molte migliaia di persone viene negato il permesso soltanto perché il datore di lavoro ha esitato pochi secondi a sottoporre la domanda.

La chiusura dei termini per la domanda non è nota a priori, dipende dalla frequenza delle domande e si verifica in genere circa 30 minuti dopo l’inizio dei click days.

Le stime mostrano che, nell’anno successivo al click day, il tasso di criminalità degli immigrati che hanno ottenuto il permesso di soggiorno si riduce del 55%. Significa che gli immigrati regolari tendono a delinquere meno, probabilmente perché non ne hanno motivo e hanno molto da perdere.

Questo risultato è molto consolidato in letteratura. Si vedano per esempio Mastrobuoni e Pinotti (2015) e Freedman e altri (2018) citati in fondo a questo post.

In questo caso la ricerca mette a nudo uno degli obiettivi nascosti dei decreti sicurezza. Le condizioni disperate in cui versano i clandestini aumentano la propensione a delinquere, fornendo nuovi reati da usare a favore della narrazione autoritaria.

 

Ma allora perché il pubblico ha tanta paura dell’immigrazione?

Mathieu Couttenier (Université de Lyon) e colleghi hanno studiato l’effetto della copertura mediatica dei reati commessi da immigrati sul supporto ai partiti populisti in Svizzera.

Gli autori mostrano che:

1) i crimini commessi da immigrati hanno una probabilità doppia di essere riportati dai quotidiani svizzeri, a parità di caratteristiche del reato.

2) Leggere tali notizie aumenta la probabilità di supportare i partiti populisti.

Lo studio, pubblicato nella collana del CEPR di Londra, si può scaricare qui.

Risultati simili sono stati trovati da Nicola Mastrorocco (Trinity College) e Luigi Minale (Universidad Carlos III Madrid) per l’Italia, che in uno studio pubblicato sul Journal of Public Economics mostrano che:

1) tra il 2007 e il 2013 le reti Mediaset hanno dato una copertura sproporzionata ai reati commessi da immigrati.

2) Guardare meno i canali Mediaset causa una riduzione della paura dei reati commessi da immigrati.

 

Che effetto ha la paura sulla spesa pubblica?

Vincenzo Bove (University of Warwick), Leandro Elia (Università Politecnica delle Marche) e Massimiliano Ferraresi (Commissione Europea) hanno studiato l’impatto dell’immigrazione sulla composizione della spesa pubblica nei comuni italiani. Lo studio si può scaricare gratuitamente qui.

Gli autori confermano che la presenza degli immigrati non ha alcuna relazione statisticamente significativa con l’aumento dei reati. Tuttavia, c’è una relazione positiva e statisticamente significativa tra immigrazione e spesa per misure di polizia.

In media, la spesa destinata alla sicurezza aumenta di 0,12-0,30 punti percentuali per ogni punto di aumento della quota degli immigrati sulla popolazione totale. Si tratta di un effetto notevole, se consideriamo che i comuni spendono in media il 4,3% del loro budget per la sicurezza.

Nonostante i dati Istat mostrino chiaramente che i reati sono in calo – da parte sia dei nativi sia degli immigrati – chi ha degli immigrati per vicini di casa ha una probabilità più elevata di credere che la criminalità sia un’emergenza nazionale causata dall’immigrazione.

Ma da dove vengono presi i soldi per finanziare le misure di polizia? Gli autori mostrano che sono sottratti ad altre voci molto importanti per l’economia, quali la cultura, il turismo e lo sviluppo locale.

Per concludere: la paura degli immigrati è poco fondata e per lo più guidata da propaganda e differenze culturali, ma è molto costosa.

Riferimenti bibliografici

Bianchi, M., Buonanno, P., Pinotti, P. (2012). Do immigrants cause crime? Journal of the European Economic Association 10(6): 1318-1347.

Bove, V, L Elia and M Ferraresi (2019). Immigration, fear of crime and public spending on security. CAGE WP 424.

Couttenier, M., Hatte, S., Thoenig, M., Vlachos, S. (2019). The Logic of Fear – Populism and Media Coverage of Immigrant Crimes. CEPR DP13496.

Freedman, M., Owens, E., Bohn, S. (2018). Immigration, Employment Opportunities, and Criminal Behavior. American Economic Journal: Economic Policy 10(2): 117-151.

Mastrobuoni, G., Pinotti, P. (2015). Legal Status and the Criminal Activity of Immigrants. American Economic Journal: Applied Economics 7(2): 175-206.

Mastrorocco, N., Minale, L. (2018). News Media and Crime Perceptions: Evidence from a Natural Experiment. Journal of Public Economics 165: 230-255.

Pinotti, P. (2017). Clicking on heaven’s door: The effect of immigrant legalization on crime. The American Economic Review 107(1): 138-168.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

dello stesso autore:

https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/cosa-sta-succedendo-in-italia.html

https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/come-stata-creata-la-balla-delle-ong-criminali.html




Una Auschwitz a 120 miglia dalle coste italiane

Quello che segue è un filmato duro da vedere, ma necessario perché rende difficile ignorare la realtà.

Si tratta di un estratto da un’intervista al prof. Massimo Del Bene, che all’Ospedale San Gerardo di Monza ricostruisce le mani distrutte dagli aguzzini dei lager libici ad esseri umani colpevoli solo di inseguire la speranza di una vita dignitosa.

Lo scopo di tutto questo? Costringere i familiari a privarsi dei loro esigui risparmi per pagare un riscatto che faccia finire le torture e consenta agli sventurati di imbarcarsi verso il miraggio di un futuro migliore.

E tutto questo avviene con il sostegno economico del nostro Governo, che si preoccupa solo di limitare le partenze, ma poi non vuole vedere quello che succede. Insomma, è il nostro modo di aiutarli a casa loro.

Agghiaccianti le dichiarazioni del dott. Del Bene (un destino nel nome):

Abbiamo una Aushwitz a 120 miglia dalle coste italiane. E quando si dice “Li riportiamo indietro” è come se uno che scappa da Aushwitz tu lo prendi e lo riporti indietro”.

E’ il Medioevo che entra nella nostra civiltà”