Gruppo Bper c’è l’intesa con i sindacati: mille esuberi e 500 assunzioni

L’esito della trattativa con i rappresentanti dei lavoratori: previste anche 200 stabilizzazioni di precari


 

Ricambio generazionale e riorganizzazione delle filiali , di cui 125 chiuse sul territorio nazionale: gli accordi firmati in Bper dopo una lunga trattativa con le sigle sindacali terminata all’alba lascia tutti soddisfatti. L’intesa prevede l’uscita volontaria di 1.000 dipendenti, 500 nuove assunzioni di giovani e la stabilizzazione di 200 lavoratrici e lavoratori in somministrazione. Fabi e le organizzazioni sindacali di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno firmato per la precisione tre distinti accordi con l’istituto di credito modenese che riguardano la razionalizzazione della rete, il prossimo avviamento del nuovo modello organizzativo chiamato «BCustomer» e, appunto, la manovra sul personale tra esuberi, assunzioni e stabilizzazioni.

Le tutele

Per le lavoratrici e i lavoratori coinvolti dalle chiusure di filiali sono state previste tutele sui temi di mobilità professionale e territoriale, garanzie sui percorsi di inquadramento in corso e formazione. Inoltre, alla vigilia del rilascio di «BCostumer», destinato a soppiantare il precedente «Footprint», è stato raggiunto un accordo che sancisce la prosecuzione nella maturazione degli inquadramenti di rete fintanto che, entro il primo trimestre del 2024, non si arriverà ad un accordo dedicato a governare i nuovi percorsi di carriera alla luce dei molteplici interventi riorganizzativi e dei possibili conseguenti cambiamenti di ruolo. Il nuovo sistema degli inquadramenti, recita l’accordo, “dovrà tenere conto non solo di aspetti quantitativi, ma anche delle professionalità, dei ruoli e delle relative complessità, e riguarderà tutti gli ambiti delle aziende del gruppo: centro, semicentro, rete, filiali online, centri imprese, wealth management e bancassurance».

L’esito della trattativa

Per quanto riguarda la manovra sul personale, sono state confermate tutte le garanzie per le colleghe e i colleghi che entreranno nel Fondo esuberi o che andranno direttamente in pensione, così come gli incentivi previsti negli analoghi accordi sottoscritti nel 2021 e nel 2023.
Commentando l’esito della trattativa, che «per complessità e argomenti affrontati ha avuto pochi precedenti», la coordinatrice Fabi del gruppo Bper Antonella Sboro ribadisce che «sono stati conseguiti obiettivi strategici per la gestione delle ricadute» sui dipendenti per ogni riorganizzazione in calendario o futura. Anche per il coordinatore nazionale Fisac Cgil del gruppo Bper, Nicola Cavallini, gli accordi sono positivi e, aggiunge, «è importante aver sancito l‘impegno di Bper di destinare una quota di assunzioni e stabilizzazioni, in rapporto alle uscite avvenute, ai residenti sugli stessi territori. La riconferma del turn over consentirà la stabilizzazione di nuove unità e l’attenzione ai territori, con speciale focus su quelli più fragili».

 

La soddisfazione dei sindacati

«Siamo soddisfatti – puntualizza a sua volta il segretario responsabile First Cisl di Bper Emilio Verrengiaper la garanzia della continuità dei percorsi professionali già avviati nonostante l’adozione da parte aziendale di un modello distributivo che rivoluzionerà i ruoli e il modo di lavorare delle colleghe e dei colleghi. Viene favorita – ricorda – attraverso il Fondo di solidarietà, l’uscita anticipata volontaria di lavoratrici e lavoratori che ne hanno i requisiti, bilanciando comunque le uscite previste con un numero elevato di assunzioni e stabilizzazioni». Per il segretario nazionale Uilca Giuseppe Del Vecchio, infine, quello di Bper «è un percorso nel solco del recente rinnovato ccnl del credito, che conferma il livello delle buone relazioni industriali».

 

Fonte: corriere.it




I Lavoratori del Gruppo Bper non sono spazzatura!

I Lavoratori del Gruppo Bper non sono spazzatura!

 

 

La Fisac/Cgil del Gruppo Bper condanna fermamente il linguaggio utilizzato dal quotidiano “Milano Finanza” che, nell’articolo del 24/9 nel quale riportava la notizia dell’avvio della procedura per l’uscita di 1.700 lavoratori, ha titolato “ Bper fa le pulizie in attesa di un’operazione straordinaria ”.

Si tratta purtroppo di un linguaggio in linea con una logica secondo la quale i Lavoratori non rappresentano persone o importanti componenti del ciclo produttivo, ma zavorra o addirittura spazzatura di cui liberarsi per fare appunto “pulizia”, come risulta dal titolo di Milano Finanza.

Riteniamo inaccettabile una simile mancanza di rispetto nei confronti di 1.700 esseri umani e le loro famiglie, che non possiamo fare a meno di stigmatizzare auspicando una rettifica da parte dell’organo di stampa.

 

 

NICOLA CAVALLINI ANDREA MATTEUZZI ALESSANDRO LOBINA
Segretario Responsabile Fisac/Cgil Segretario Responsabile Fisac/Cgil Segretario Responsabile Fisac/Cgil
Gruppo Bper Bper Banca Banco di Sardegna

 

 

 

 




BPER. MBO ovvero: Mantenere Bassi Oboli

Come definire un sistema per il quale, se un singolo indicatore di performance non raggiunge il 90%, quel risultato (ad esempio l’89%) ai fini del computo della performance viene considerato pari a ZERO?

Come definire un sistema per il quale, se il Bonus Pool (la somma stanziata per i premi) a un certo punto è ritenuto eccessivo, il CdA può abbassarlo a suo piacimento?

Come definire un sistema per il quale, se viene stabilito anche un obiettivo semestrale e questo viene raggiunto, il risultato di quel semestre NON CONTA ai fini del raggiungimento dell’obiettivo annuale?

Come definire un sistema che spende poco meno del 3% del costo del personale per dare premi (il VAP impegna poco più del 3%), ma l’effetto è che 7 “premiati” su 10 percepiscono una cifra di cui non si accorgono nemmeno, perchè il netto in busta è uguale o addirittura leggermente inferiore(per effetto della tassazione intera?

Come definire un sistema per il quale i 3 che prendono un premio tangibile sono, spesso, coloro che tormentano con telefonate, mail e pressioni varie i 7 che sgobbano per ottenere un premio non tangibile?

Come definire un sistema per cui comunque il 30% del personale è escluso a priori dal novero dei premiandi?

Come definire un sistema per il quale un richiamo scritto (arrivato spesso per gravi lacune organizzative ed informatiche che inducono all’errore) preclude la percezione del premio?

Potremmo continuare. Vedete voi come definirlo. Per noi è arrivato il momento di cambiare registro. Un Premio Unico di Risultato, frutto di un accordo tra le parti, consentirebbe una distribuzione universale della remunerazione e una tassazione agevolata (il 10%). Sfidiamo l’azienda a fare in modo che quel 6% di costo del personale messo a budget per i premi sia concentrato e indirizzato in maniera più equa. Sarebbe anche il segnale di un’azienda che considera tutti i dipendenti ugualmente parte della squadra che produce reddito ed utile.

Adesso invece l’azienda lancia un segnale diverso: alcuni dipendenti sono più importanti di altri.

Nicola Cavallini
Segretario Coordinatore
Fisac/CGIL Gruppo BPER



MBO: cosa succede se il management non è SMART

MBO è un acronimo sulla bocca di tutti, nelle aziende di servizi finanziari (e non solo)Anche smart è un vocabolo inglese in gran voga: nonostante possa corrispondere, in dialetto ferrarese, al nostro “sgagià” (una persona sveglia, dall’intelligenza rapida, veloce a comprendere ed agire) che è quasi un sostantivo, smart è più propriamente un aggettivo. Quando si parla di smart work si intende il lavoro agile, smart city è la città intelligente, Smart è il nome dell’automobilina che puoi parcheggiare in un fazzoletto anche nella metropoli (non a caso è l’auto più rubata a Roma). Dentro questo aggettivo convivono sfumature di senso che hanno a che fare con la rapidità, la semplicità, la sveltezza. Ma SMART, nel gergo dell’organizzazione aziendale, è anche un acronimo, coniato dall’ economista Peter Drucker, l’inventore del sistema MBO (Management by Objectives): per approfondire la storia del Mbo e la figura di Drucker [Vedi qui] 

Si tratta di un sistema tanto propagandato quanto tradito nei suoi elementi fondativi, almeno nel sistema bancario italiano, al punto da generare effetti opposti a quelli che dovrebbe indurre. Il motivo può essere sintetizzato con una frase: l’MBO (o “gestione per obiettivi”) dei nostri manager non è SMART. Peccato che SMART sia il metodo coniato dal suo creatore, Peter Drucker, la declinazione in cinque voci di una vera e propria “cassetta degli attrezzi” per far funzionare un MBO. Se non lo si conosce e non lo si utilizza, il rischio è quello di generare un mostro. Vediamo cosa si intende con l’acronimo SMART.

S  sta per “specifico”: Un obiettivo deve essere definito, e va indicato anche come raggiungerlo.

M  sta per “misurabile”. Deve essere possibile in ogni momento verificare dove ci si trova rispetto al traguardo.

A  sta per “achievable”, cioè “raggiungibile”.

R  sta per “rilevante”, cioè un obiettivo coerente con gli scopi aziendali

T  sta per “temporizzato”, cioè legato ad una scadenza temporale predeterminata.

Facciamo qualche esempio.

Specifico: Aumentare del 30% la percentuale di risparmio gestito tra i propri clienti è un obiettivo specifico. Se non mi viene indicato come fare, quando la mia clientela è anagraficamente più vecchia della media, e il mio territorio ha avuto negli ultimi due anni il 20% delle filiali chiuse, mi si lascia in mezzo al mare. Non mi importa come lo fai, basta che lo fai. Esattamente il contrario di quello che teorizzava Drucker.

Misurabile: ci sono banche in cui i dipendenti stessi si costruiscono gli appunti excel artigianalmente per sapere come sono messi, perchè gli strumenti di controllo di gestione aziendali aggiornano i dati di produzione dopo settimane, dovendoli pescare da archivi coi quali spesso non dialogano. Come faccio a sapere dove arrivare se non so dove mi trovo?

Achievable (Raggiungibile): qui entra in gioco il termine “condivisione”, una delle parole dal significato più travisato all’interno delle banche. “Condividere” dovrebbe significare raggiungere un accordo sui contenuti. “Condividere”, per chi “discute” un budget con il proprio sottoposto, significa spesso metterlo al corrente che deve arrivare lì. Punto. Se l’obiettivo è raggiungibile in astratto, ma non in concreto, il problema si salda con quello della specificità, e porta alle distorsioni più gravi, come vendere prodotti alle persone sbagliate per raggiungere un obiettivo che è stato assegnato senza tenere conto delle condizioni di quel contesto.

Rilevante: ha senso concentrare le energie della rete commerciale in una campagna martellante per far indebitare la clientela “debole” (ad esempio cessione del quinto dello stipendio o della pensione per ripagare un debito) e nel frattempo perdere volumi importanti su clientela “forte” ma non adeguatamente presidiata, magari dopo essere stata assorbita per effetto di una incorporazione? (provare, per credere, a fare un giretto di opinioni ‘fuori dai denti’ tra i clienti e le associazioni di categoria di Bergamo e Brescia, orfane di UBI).

Temporizzato: se il tempo prefissato è un anno solare, non può in corso d’opera diventare (anche) tre mesi. Soprattutto, l’obiettivo trimestrale non può essere penalizzante ai fini del consuntivo annuale se non viene raggiunto, e non essere premiante ai fini del consuntivo finale se viene raggiunto, ma a fine anno per qualche ragione non si raggiunge il 100% del target. Troppo comodo (per l’azienda), beffardo (per il dipendente).

Poi ci sono i paletti. Primo esempio: se raggiungi gli obiettivi commerciali ma non completi i corsi di formazione, sei fregato: niente premio, o premio tagliato. Peccato che la formazione, fondamentale per Drucker proprio per fornire al manager gli strumenti per gestire i propri obiettivi e quelli della propria squadra, adesso sia quasi tutta on line: moduli lunghissimi, da fare a spizzichi durante i ritagli di tempo (quali?) tra un cliente e l’altro, che diventano folli rincorse di fine anno per passare il test (copiando le risposte da altri) e ottenere la certificazione. In questa spirale, il contenuto formativo che rimane addosso al dipendente è inconsistente. Eppure l’azienda si considera a posto, perchè tanto i moduli sono a disposizione e se la maggior parte dei dipendenti li completa, formalmente la formazione è fatta.

Secondo esempio: se il tuo responsabile ti valuta scadente, o carente in alcuni aspetti delle competenze, non vai a premio pur avendo raggiunto i targets. E pensare che Drucker aveva in mente proprio di rendere misurabile in maniera oggettiva la prestazione del collaboratore, sottraendola alle paturnie del capo di turno.

Terzo esempio: NPS negativo. Se i clienti assegnano un basso indice di gradimento al servizio (anche se dovuto a problemi organizzativi e non alla incompetenza o maleducazione del dipendente) il premio individuale può essere decurtato o non essere proprio assegnato. In questo modo si scarica sul singolo addetto il costo che dovrebbe essere addebitato ad una cattiva organizzazione.

In tutto ciò, mai che si possa cogliere un indice di qualità “sociale” della consulenza: quanto credito è stato erogato ad aziende del terzo settore; quali crediti erogati fanno assumere un rischio eccessivo, meritevole di correggere il dato quantitativo; quali indici introdurre per misurare il rischio reputazionale. Il risultato è che un sistema che dovrebbe essere semplice e misurabile diventa un interminabile manuale, cervellotico e bizantino, di regole ed eccezioni (tutte quantitative, o legate all’arbitrio del capo) aventi lo scopo fondamentale di rendere il raggiungimento del premio il più difficile possibile.

In questa situazione, il problema dell’assegnazione di obiettivi individuali anche a dipendenti che non hanno incarichi manageriali (novità foriera di inquietanti scenari, se non circoscritta) diventa, per paradosso, l’ultimo dei problemi. Il primo dei problemi è che nessuno si fida del sistema, perchè nessuno ci capisce nulla, e questo, lungi dal creare dipendenti “orientati al risultato”, aumenta la demotivazione, la sensazione di essere presi in giro.

Ovviamente, non è così per tutti. Esiste una limitata categoria di quadri aziendali i cui riconoscimenti ad personam scavano un solco imbarazzante tra la loro gratifica e le briciole (quando arrivano) della truppa, fatto che contribuisce, tra l’altro, ad alimentare la malsana abitudine di alcuni “manager” di identificare la loro attività con la vessazione dei collaboratori. Ed è inevitabile: quando un’azienda premia il manager che usa il bastone, se questo bastone porta in un modo o nell’altro al risultato (ancora una volta: non importa come, mentre per Drucker era fondamentale), il manager riceve un incentivo a interpretare il suo ruolo in maniera bovina.

Appare, in conclusione, evidente che non basta adottare formalmente sistemi di gestione per obiettivi ricolmi di termini anglosassoni, a volte del tutto travisati(la parola budget viene costantemente usata al posto della più corretta target, per fare un altro esempio) per far funzionare l’azienda in modo sano. Sotto questo profilo, le relazioni industriali avrebbero urgente bisogno di fare un enorme salto di qualità, nella direzione di una contrattazione degli algoritmi che fungono da base di calcolo per l’ MBO, la cui interpretazione “all’italiana” accontenta pochi e scontenta molti; una sorta di riproduzione, su scala aziendale, di una cattiva politica redistributiva del reddito.

 

Articolo di Nicola Cavallini su www.ferraraitalia.it




I banchieri giocano a Risiko con la nostra pelle

Ve lo immaginate vostro nonno di 80 anni che sta in un paese collinare, in cui la filiale più vicina è a 30 chilometri e che per fare un bonifico o pagare una bolletta deve accedere con lo smartphone o il computer ad una app, in un posto dove non c’è il wifi e la fibra non arriverà mai? Questa è la mitologica “digitalizzazione” per molti cittadini italiani. Questo è il risultato della desertificazione dei servizi bancari (che erogano secondo la legge un “servizio pubblico essenziale”), accompagnata spesso dall’abbandono sugli stessi territori dei servizi di trasporto e sanitari. Questa è la “tutela del risparmio” garantita dalla Costituzione. Questo è il quadro degno di un film di Ken Loach, e diventerà sempre più frequente con il procedere impetuoso e inarrestabile del processo di aggregazione delle banche in tre o quattro grandi gruppi oligopolistici.

Non è una previsione, è quello che accade. Migliaia di sportelli vengono e verranno chiusi in nome della “filiale moderna”, un sogno popolato da umanoidi che ti aiutano a compiere le operazioni e ti assistono nella risoluzione dei problemi, la frontiera che prenderà il posto dell’assistenza telefonica, già disumana e inefficiente ma almeno un operatore umano che risponde dall’Albania puoi ancora trovarlo, se riesci a uscire indenne dal labirinto delle dieci opzioni commerciali che fanno da scudo al suo intervento. Come evidenzia Daniele Quiriconi, segretario regionale Fisac CGIL della Toscana in questo articolo:

“Se l’algoritmo che sovrintende le scelte organizzative di oligopoli finanziari che macinano miliardi di utili invitando in automatico a chiudere le filiali di tre dipendenti, spostare migliaia di lavoratori e lasciare milioni di cittadini senza un servizio costituzionalmente garantito, procede inesorabile e la protesta di sindacati, sindaci, associazioni dei consumatori nulla ha potuto finora, forse la politica dovrebbe interrogarsi sulle conseguenze dell’ampliamento di periferie sociali oltre che geografiche, che queste scelte alimentano. E che colpiscono i ceti più popolari e più fragili

Questa corsa al puro abbattimento dei costi (lo chiamano “efficientamento”), alle aggregazioni favorite da robusti sconti fiscali, all’impiego ingente di denaro pubblico per salvare la capitalizzazione di istituti sistemici, dovrebbe avere come contropartita la richiesta di garanzie per i lavoratori e per i clienti. Questo dovrebbe essere il compito della politica: se ti erogo denaro dei cittadini, quegli stessi cittadini che sono anche lavoratori e clienti dovrebbero beneficiare di un servizio migliore, di tutele professionali e territoriali per il proprio lavoro. Invece succede che il ruolo dello Stato si ferma all’erogazione di denaro, e per il resto vige il laissez-faire: altro che dirigismo, qui siamo al liberismo economico(apoteosi della teoria del libero mercato come autoregolatore) alimentato però dal denaro pubblico. Peccato che il “libero mercato” , che dovrebbe essere garanzia di concorrenza, stia portando ad un oligopolio alla Kurgan del film Highlander, quando dice “ne rimarrà uno solo”. Peccato che questa direzione obbligata peggiori le condizioni dei lavoratori: quelli che vengono “spintaneamente”  accompagnati fuori dall’azienda, anticipandone la quiescenza, non sono infatti sostituiti in pari misura da forze fresche, con il risultato che chi resta in ufficio o allo sportello rimane sempre “sott’acqua”, affogato dai carichi di lavoro e dalle pressioni alla vendita. I clienti al contempo non vengono soddisfatti nei bisogni reali, ma vengono agganciati per creare loro dei bisogni immaginari. Così può capitare che un privato cui è appena stato negato un prestito venga agganciato dalla stessa banca che glielo ha negato per cedere il quinto dello stipendio in cambio di un prestito, perchè quella è la campagna in voga. Così può capitare che il capetto, più realista del re, imponga ai subalterni la concessione di un mutuo solo a condizione che il cliente sottoscriva anche una polizza vita, con buona pace di ogni regola nemmeno etica, ma di banale valutazione del merito creditizio.

Sotto i nostri occhi, le banche si stanno trasformando da infrastrutture di sostegno ai territori a negozi di pura vendita: sono disposto a darti soldi solo se con quei soldi compri un mio prodotto. Le cosiddette “operazioni baciate” rischiano di diventare il core business di aziende che sono disposte a stravolgere ogni regola della loro tradizione al fine di perpetuare l’unica regola che non può cambiare: quella del massimo profitto per il grande azionista.

Articolo di Nicola Cavallini su www.Ferrara Italia.it




Fusioni tra banche e “Fusione” dei bancari: trova le differenze

In questi mesi e nei prossimi assisteremo in Italia ad un tumultuoso succedersi di fusioni e acquisizioni bancarie. Esse hanno tutte lo scopo dichiarato di rafforzare i valori patrimoniali degli istituti, di migliorare il margine operativo lordo, di ottimizzare il rapporto tra utile netto e mezzi propri. Una impresa che incrementa il proprio patrimonio, che produce un risultato operativo in utile, che accresce la propria quota di mercato è il sogno di chiunque in quella impresa ha messo soldi, ed è anche un presupposto necessario (almeno sul medio-lungo periodo) affinché quell’impresa possa essere dichiarata profittevole, visto che le imprese (quelle bancarie in particolare) hanno tra i propri scopi istituzionali la creazione di valore per i soci – nemmeno le banche “etiche” fanno eccezione, sotto questo profilo. Milton Friedman, economista divenuto consigliere di Reagan, affermò nel 1970 che “lo scopo principale di un’impresa è quello di massimizzare i profitti per i suoi azionisti” . Due anni dopo, disse testualmente: “i grandi dirigenti, all’interno della legge, hanno responsabilità nei loro affari al di fuori di fare il più possibile soldi per i loro azionisti? E la mia risposta a questa domanda è: no, non ne hanno”.

Molti economisti venuti dopo Friedman hanno criticato questa visione, affermando che i portatori di interessi di un’azienda sono molti di più, e addirittura alcuni di essi si pongono al di fuori dell’azienda stessa: da queste considerazioni ha preso le mosse l’affermazione del concetto di “responsabilità sociale” dell’impresa. Responsabilità nei confronti dei propri dipendenti, dei propri clienti, ma anche dei cittadini, dei territori, dell’ambiente. L’ Unione Europea definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come la “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. E’ possibile affermare che l’impresa bancaria assolve a questa responsabilità sociale finanziando, ad esempio, qualche iniziativa economica di riconversione energetica, o di sviluppo di energie alternative? Non è forse vero che il primo agglomerato sociale direttamente correlato all’impresa è quello della sua società “interna”, costituita dai suoi dipendenti e dai suoi clienti, siano essi risparmiatori o prenditori di danaro? Non è forse vero che l’etica dei comportamenti si misura anzitutto nel rapporto che si instaura nelle proprie relazioni, con le persone care, gli affetti e gli amici, prima che con le dichiarazioni di solidarietà verso il mondo? Credo sia vero. Altrimenti si cade nell’antico vizio di predicare bene e razzolare male.

Nei fatti, le fusioni bancarie appaiono ispirate molto più alla visione di Milton Friedman che a quella dei suoi critici successori. Una visione anni settanta trasportata senza troppi scrupoli nell’anno 2021. In apparenza, i portatori di interessi “interni” sono tre: i soci, i dipendenti, i clienti. Nei fatti, i dipendenti e i clienti al dettaglio sono portatori di interessi che appaiono strumentali alla massimizzazione del profitto dell’azionista. Non esiste pari dignità tra questi “stakeholders”. Se li mettessimo su un podio, il gradino più alto sarebbe a distanza siderale dagli altri due. I dipendenti, i tanto vituperati bancari, somigliano a dei corrieri incaricati di portare a destinazione il pacco (il budget, l’obiettivo di vendita) lungo una strada disseminata costantemente di lavori in corso, che ne rendono il percorso lastricato di ostacoli e di imprevisti che però non contano e non devono contare  – per qualche capo area degli affari non conta nemmeno il fatto di essere in una pandemia, figuriamoci il resto.
Così aumenta lo stress correlato al lavoro, l’ansia della domenica sera, il vomito del lunedì mattina, la caduta di motivazione e la perdita del senso di appartenenza alla propria azienda. Lavorare per obiettivi, in un’azienda contemporanea, dovrebbe essere un’altra cosa: motivare i collaboratori e consentire loro di ottenere risultati grazie alla conoscenza dei loro clienti, che implica una concessione di autonomie decisionali, un riconoscimento di dignità professionale e umana. Invece la vita di moltissimi bancari, specialmente di rete, è fatta di report incessanti per dimostrare non già di avere raggiunto un obiettivo, ma di avere “fatto qualcosa”: telefonate, appuntamenti, contatti.
Una impostazione che si giustifica solo partendo dall’assunto che il proprio personale sia fatto di potenziali lavativi che hanno bisogno dell’occhiuto superiore per darsi da fare. Una concezione infantile del rapporto tra azienda e dipendenti, circondata da una organizzazione paramilitare all’italiana, dove anche le inefficienze e le sacche di parassitismo ricordano certi uffici dei marescialli dell’esercito, intenti a portarsi i prosciutti della mensa a casa mentre la truppa sgobba e mangia pasta scotta (chi ha fatto la leva sa di cosa parlo).

I clienti non sono tutti uguali. C’è quell’ uno per cento di “classe dirigente” ammanicata col potere politico, per cui un Ennio Flaiano conierebbe anche oggi alcune delle sue fulminanti definizioni, che ha causato l’ottanta per cento dei crediti a sofferenza, spesso concessi da banche-bancomat. Poi c’è il restante novantanove per cento che si vede negare il credito per merito del dissesto provocato dall’uno per cento precedente, oppure che deve sperare nel bancario corretto che cerca di soddisfare le sue esigenze reali di risparmio, anziché incappare nel fenomeno in carriera che cerca di vendere cappotti all’equatore e ghiaccio agli esquimesi, e sapete perché? Perché la struttura lo premia. Premia la quantità di pezzi venduti, non importa come. Il controllo di qualità è una cosa che in banca arriva quando un giudice o un’autorità si occupano delle polizze decorrelate vendute come condizione di concedibilità di un finanziamento, si occupano di un derivato capestro, o di una polizza index linked venduta ad un ottantenne.

Il risiko bancario cui assistiamo ed assisteremo contribuirà a migliorare i rendimenti ed il valore dell’investimento dei soci e degli azionisti? Di sicuro ci proverà. Contribuirà a migliorare le condizioni di lavoro e la qualità del servizio? Non ci proverà nemmeno. Non sono obiettivi, questi ultimi, che rientrano tra gli scopi del risiko. Proprio questo quadro impone una inedita ma necessaria alleanza tra i risparmiatori e i dipendenti, perché solo una saldatura tra gli interessi degli stakeholders più deboli potrà costituire un argine allo strapotere dei padroni delle ferriere.

 

Articolo di Nicola Cavallini su Ferraraitalia.it

 




Idee per una finanza sostenibile: diretta streaming 17 e 18 febbraio 2021


Programma

MERCOLEDÌ 17 FEBBRAIO

10:30 Apertura dei lavori
• Alessandra Orlando Segreteria Naz. FISAC CGIL

Presentazione e introduzione
• Bruna Belmonte Presidente ISRF LAB

10:45 Prolusione di
❖Enrico Letta Presidente Istituto Jacques Delors

11:15 Il ping pong delle idee
‣ Fabrizio Petrolini Coordinatore Nazionale FISAC CGIL BCC
‣ Sergio Gatti Direttore Generale Federcasse

11:30
Una finanza europea etica e responsabile

Introduce:
• Giacomo Sturniolo Segreteria Naz. FISAC CGIL
Partecipano:
• Susanna Camusso Responsabile per le Politiche Globali CGIL Nazionale
• Emilio Contrasto Segretario Generale UNISIN
• Christy Hoffman Segretaria Generale UNI Global
• Laura Rinaldi DG Reform Unione Europea
• Irene Tinagli Presidente Commissione per i problemi economici e monetari Parlamento Europeo
Modera: Andrea Greco

12:30 Pausa dei lavori

14:30 Il ping pong delle idee
‣ Luca Esposito Segreteria Naz. FISAC CGIL
‣ Gianluca Perin Chief HR and Organization Officier, Generali Italia

14:45 
Finanza e digitalizzazione

Introduce:
• Cinzia Ongaro Segreteria Naz. FISAC CGIL
Partecipano:
• Nicola Cicala Direttore ISRF LAB
• Angelo Doni Co Direttore Generale ANIA
• Fulvio Furlan Segretario Generale UILCA UIL
• Alessandra Perrazzelli Vice Direttrice Generale Banca d’Italia
• Ernesto Maria Ruffini Presidente Agenzia delle Entrate – Riscossione
Modera: Nicola Borzi

15:45 Il tema 
Criptomonete: istruzioni e avvertenze

Marcello Minenna Direttore Generale Agenzia Dogane e Monopoli

16:00
Diseguaglianze, Mezzogiorno, accesso al credito

Introduce:
• Chiara Canton Segreteria Naz. FISAC CGIL Partecipano:
• Riccardo Colombani Segretario Generale FIRST CISL
• Marcella Corsi Università La Sapienza – Roma
• Rev. Robert Gahl Pontificia Università della Santa Croce – Roma
• Giuseppe Massafra Segreteria Nazionale CGIL
• Andrea Roventini Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa
Modera: Rita Querzè

17:00 Il ping pong delle idee
‣ Paolo Cornetta Responsabile Human Capital Gruppo UniCredit
‣ Luca Dapporto Segretario Coordinamento FISAC CGIL UniCredit

17:15
Finanza e contrattazione
Partecipano:
• Stefano Bottino Responsabile Direzione sindacale e del lavoro ABI
• Susy Esposito Segreteria Naz. FISAC CGIL
• Francesco La Gioia Presidente Commissione Relazioni Industriali ANIA
• Matteo Spanò Presidente Delegazione Sindacale Federcasse
Modera: Gabriele Polo

GIOVEDÌ 18 FEBBRAIO

9:30 Il ping pong delle idee
‣ Nicola Cavallini Segretario Coordinamento aziendale FISAC CGIL BPER
‣ Giuseppe Corni Capo del Personale BPER

9:45
La finanza al servizio del Paese
Introduce:
• Paola Morgese Segreteria Naz. FISAC CGIL
Partecipano:
• Claudio Di Berardino Assessore al Lavoro della Regione Lazio
• Gianna Fracassi Vice Segretario Generale CGIL
• Salvatore Poloni Presidente CASL ABI
• Elly Schlein Vice Presidente Regione Emilia Romagna
• Lando Maria Sileoni Segretario Generale FABI
Modera: Giovanna Reanda

11:00 Prolusione di
❖Lucrezia Reichlin Professore di economia London Business School

11:30 Tavola rotonda conclusiva
Introduce:
๏ Nino Baseotto Segretario Generale FISAC CGIL
Partecipano:
๏ Carlo Cimbri AD Gruppo Unipol
๏ Roberto Gualtieri Deputato, già Ministro Economia e Finanze *
๏ Maurizio Landini Segretario Generale CGIL
๏ Carlo Messina CEO Gruppo Intesa Sanpaolo
๏ Marco Sesana AD Gruppo Generali Italia
Modera: Lucia Annunziata

* in attesa di conferma

 




Lavorare stanca, anzi uccide (lo stress del colletto bianco)

Non parleremo, in generale, di lavoratori che si fanno male o perdono la vita cadendo da un ponteggio, respirando miasmi tossici, travolti da un muletto o risucchiati da un macchinario in catena. Parleremo, in particolare, dei lavoratori che operano nei settori finanza, banche, assicurazioni. Colletti bianchi, un tempo considerato il paradigma dell’impiego comodo, sicuro e ben pagato. Cosa c’è di meglio di lavorare al fresco d’estate e al calduccio d’inverno, ben vestiti, senza rischiare di rimanere senza lavoro e con un premio di produzione che si somma allo stipendio?

Le pubblicità delle grandi banche, delle compagnie di assicurazione, degli enti che fanno prestiti personali mostrano consulenti dall’aria rilassata, elegante, rassicurante che, con un sorriso perennemente stampato in faccia, risolvono il problema del mutuo casa alla giovane coppia con bimbo, coprono il rischio del furto in casa vostra mentre siete in vacanza, mettono in un salvadanaio sicuro i vostri sudati risparmi. Ho imparato una legge dell’immaginario creato dai pubblicitari: più seducente è il mondo rappresentato e associato a quel marchio, più infernale è il mondo reale che sta all’ombra di quel marchio. Non parlo tanto del mondo della finanza stile Wall Street: spietato, feroce e dal fascino algido, la cui crudeltà può apparire superficialmente una minaccia per pochi facoltosi (naturalmente non è vero: le grandi corporation della finanza possono far fallire interi stati sovrani, e con loro affamare popoli). Parlo di un inferno meno cinematografico ma più popolare: quello dello sportello bancario sotto casa, dell’agenzia assicurativa che vi fa la polizza auto, della posta che propone un investimento di finanza strutturata a vostro padre, che ha settantacinque anni. L’inferno che vi viene rappresentato con l’immagine a volte bonaria, a volte fighetta del consulente della porta accanto.

The Workforce View 2020 – Volume Uno realizzata da ADP, multinazionale leader nell’ambito della gestione delle risorse umane, è un’indagine nella quale sono stati intervistati circa 32.500 lavoratori in tutto il mondo, 2.000 in Italia, esplorando le opinioni dei dipendenti riguardo alle problematiche attuali sul posto di lavoro e il futuro che si aspettano.
La fascia d’età più colpita è quella tra i 35 e i 54 anni: si dichiara giornalmente sotto pressione il 26%. Anche dopo i 55 anni la percentuale rimane alta al 23%, mentre scende al 20% dai 25 ai 34 e al 13,5% dai 18 ai 24 anni. Sommando le risposte è possibile tracciare una classifica dei settori in cui i lavoratori risentono maggiormente di stress.
Al primo posto il settore della finanza (bancario, assicurativo, intermediazioni) con una percentuale del 93%.
Al primo posto.
Le ragioni? Ansia del risultato, eccessiva mole di lavoro, senso di frustrazione derivante da una paga poco premiante o da una carriera che stenta a decollare nonostante i numerosi sacrifici, ma anche la preoccupazione di non poter coniugare al meglio lavoro e vita privata.
Marisa Campagnoli, HR director di ADP Italia, commenta: “Lo stress eccessivo e cronico può portare il lavoratore ad avere problemi di salute psicologica. I datori di lavoro e i responsabili HR, dovrebbero prendere in considerazione l’importanza di alleviare l’onere per i lavoratori sotto pressione. Purtroppo, i lavoratori stessi sono restii a parlare del problema, temono li possa danneggiare nella carriera, ma i team delle risorse umane possono svolgere un ruolo importante in modo che il personale si senta supportato nel farsi avanti. Aumentare la consapevolezza del problema all’interno delle organizzazioni, mettere in atto politiche per affrontarlo e indicare come i dipendenti possono ottenere aiuto sono alcuni dei modi in cui i datori di lavoro possono dimostrare che stanno prendendo sul serio il problema della salute psicologica dei propri lavoratori”.

Vi sembra esagerato? Beh, ma non lo dico io, lo dicono i lavoratori del settore, rispondendo per una volta non ad una indagine interna, commissionata dal datore di lavoro, ma ad un questionario indipendente. Lo stress lavoro-correlato è la nuova frontiera del danno professionale, in particolare nel settore dei servizi finanziari. Volendo esemplificare con una immagine il disagio di questa categoria, parlerei di una persona che si sente costantemente tra l’incudine e il martello.

L’incudine è la crescente richiesta di servizio, di assistenza, di aiuto dei clienti, sempre più smarriti dalla situazione sociale, alla ricerca in taluni casi disperata di sostegno economico, ma anche di onesta consulenza, di consigli per districarsi nella giungla di prodotti spesso incomprensibili, costosi, dalle commissioni nascoste e dai rendimenti incerti, dal tasso di sicurezza aleatorio. Clienti che, in una città normale, magari di provincia, sono conoscenti del bar, amici, parenti, persone che cercano tutte le cose sopra citate, e che si possono compendiare in una parola: fiducia. Cercano persone, professionisti di cui potersi fidare, in modo da affidare loro la propria situazione in maniera trasparente, a propria volta onesta, tale che la fiducia possa dirsi reciproca.

Il martello è l’ossessiva, quotidiana, soffocante richiesta aziendale di obiettivi da raggiungere, di performance, di risultati, per dirla con una espressione la “pressione commerciale”. Una pressione ormai svincolata dall’effettivo risultato, al punto da essere paradossalmente più vessatoria nelle aziende che macinano più utili, come se picchiare con il martello sul proprio dipendente facesse parte della ontologia (che assorbe e annulla la deontologia) della prestazione, che diventa impropriamente un’obbligazione di risultato quando normativamente si tratta, con tutta evidenza, di una obbligazione di mezzi.

Tra l’altro, in cambio di cosa? Per la stragrande maggioranza dei lavoratori di trincea, in cambio di un premio annuale che, in termini monetari, consente al massimo di pagarsi un fine settimana in un dignitoso tre stelle. Qualcuno potrebbe domandarsi il perchè di questa spirale assurda, di questo gioco al massacro della propria salute che non vale una candela tanto fioca, perchè in tanti ci cascano, non riescono a starne fuori. Per tre ragioni fondamentali.
La prima è organizzativa: per quattro che remano, ce ne sono sei che dettano il ritmo della pagaiata, che dicono ai quattro rematori quanto e come remare. E quei sei prendono un premio che è fino a dieci volte tanto quello dei quattro rematori. Una specie di multilevel marketing istituzionalizzato.
La seconda ragione è la paura della rappresaglia: che non è solo il timore di non fare carriera, ma di essere trasferiti lontano da casa, emarginati, bollati come scarsi o fannulloni, anche perchè i criteri di valutazione della prestazione non sono quelli di un consulente, ma quelli di un venditore, di un piazzista, essendo pesantemente sbilanciati sulla parte quantitativa: quanto vendi, non come vendi. E in particolare se sei donna, magari con figli piccoli, il timore di essere allontanata da casa gioca un ruolo fondamentale nel condizionare la tua condotta sul lavoro.
La terza ragione è psicologica: il meccanismo entra dentro di te, diventa parte del tuo essere, lo assumi come parte della tua cassetta degli attrezzi. La formazione dei bancari, per dirne una, è per la massima parte commerciale, mirante a vendere prodotti (tecniche di vendita screziate a volte da ridicole impalcature new age, stile “i believe i can fly, i believe i can touch the sky” ).
La formazione obbligatoria, quella sulle norme – e sono tante – che devono essere rispettate nell’esercizio del credito e nel collocamento dei prodotti di risparmio, è schiacciata dalla mole dei corsi finalizzati alla vendita, e spesso le aziende si mettono in regola (formalmente, ma non sostanzialmente) sottoponendo i dipendenti a corsi sulla normativa solo on line, Bignami digitali di nozioni incamerate non per renderle parte del proprio bagaglio (è impossibile, intruppando le slide tra un cliente e l’altro), ma per riuscire a passare il test finale. Va peraltro detto che le tre ragioni, appena declinate, di questa spirale sono strumentali ad una potente ratio basica sottostante, molto prosaica ma molto potente: la necessità di dare soddisfazione agli azionisti, in particolare ai grandi azionisti. Gli utili non possono scendere, i dividendi non possono calare, il valore capitale non può deprezzarsi. Ciò non può accadere, anche se da anni, ormai, il differenziale dei tassi d’interesse (lo scarto tra i tassi attivi e passivi), che era il grosso del margine di una banca, è strutturalmente basso, lontanissimo dai margini di quindici anni fa. Esiste solo un modo per mantenere tendenzialmente inalterato il margine di guadagno, se il margine di interesse è enormemente più basso del passato: collocare prodotti in maniera massiva, possibilmente prodotti che incorporano elevate commissioni.

So bene che non sto rassicurando i clienti delle banche e delle assicurazioni, che poi siamo tutti noi. Non intendo nemmeno fare il lavoratore del credito-fenomeno. Ce ne sono, in giro, di questi ‘pentiti’ che fanno soldi confessando quanto erano spietati nel far soldi, da dirigenti. Sostengo anzi che gli anticorpi contro la deriva del sistema finanziario diffuso sono ancora vivi. E’ proprio il profondo disagio dei dipendenti, evidenziato dalla ricerca da cui abbiamo preso le mosse, a costituire la spia dell’esistenza di questi anticorpi. Il disagio da altro non deriva, infatti, se non dalla difficoltà del corpus dei lavoratori (la grande maggioranza) di veleggiare in direzione ostinata e contraria rispetto alla corrente, che li spinge da un’altra parte. Sono i lavoratori (in particolare gli addetti alla clientela) la parte più sana del sistema. Il loro profondo disagio dipende in buona misura dal tentativo di lavorare con scienza e coscienza, anche etica, nell’interesse dei loro clienti oltre che del loro datore di lavoro. Nonostante il nuovo Contratto Nazionale dei lavoratori del credito incorpori una serie di regole che stigmatizzano e mirano a denunciare le cattive prassi commerciali, la strada per una buona finanza è ancora molto lunga, soprattutto perché non esiste ancora un vero e proprio regime sanzionatorio (e le sanzioni, per essere efficaci, dovrebbero colpire le aziende) delle condotte scorrette, laddove queste non si concretizzino in reati già codificati.

I cosiddetti stakeholders, cioè portatori di interessi classici, che gravitano attorno al sistema finanziario sono tre: azionisti, dipendenti, clienti. Credo che solo una saldatura ‘politica’ (spesso mancata) tra l’interesse dei dipendenti ad un lavoro svolto con coscienza e trasparenza, e l’interesse dei clientiad un servizio di consulenza onesto e limpido possa spostare il baricentro del sistema, consentendo ai bancari e agli assicurativi di liberarsi dall’ansia e dal disagio e ai clienti di potersi fidare della consulenza loro offerta.

Nicola Cavallini

 

Fonte: www.ferraraitalia.it

 

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Pressioni commerciali e stress lavoro-correlato

In Francia una sentenza che farà la storia ha, per la prima volta, sancito la punibilità della fattispecie di “molestie morali istituzionali”: un sistema messo in piedi, tra il 2007 e il 2010, da France Telecom e da alcuni suoi dirigenti (tra cui l’ex AD Didier Lombard) per spingere i dipendenti a dimettersi, peggiorando sistematicamente le loro condizioni di lavoro. Secondo la sentenza, queste condotte consapevolmente vessatorie hanno concausato, in alcuni casi, (fino al 2008) il suicidio di alcuni dipendenti, che lasciarono spesso messaggi di addio contenenti pesanti accuse verso la società. L’AD è stato condannato ad un anno di reclusione, la società a pagare una multa di 75.000 euro, più risarcimenti milionari a circa 150 dipendenti o loro famiglie, costituitesi parte civile.

Le vessazioni poste in essere nel caso France Telecom configuravano un vero e proprio mobbing di massa, un caso limite. Tuttavia non sono i fenomeni estremi che segnano un trend, ma quelli “normali”, che si riproducono su grande scala. E il trend, specie nelle banche, è quello di un elevato e crescente livello medio di stress, imputabile prevalentemente ad una combinazione di due fattori, presenti contemporaneamente: una organizzazione dei fattori di produzione e del lavoro inefficiente, ed una eccessiva pressione commerciale.

Una ricerca commissionata dalla Fisac Cgil in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma ha indicato che il 28% dei lavoratori bancari fa uso di psicofarmaci. In pratica, più di un lavoratore su quattro. I dati del 2015- 2016 del centro di Medicina del lavoro di Pisa raccontano che, tra le persone visitate, i bancari sono secondi in quanto a stress solo a chi lavora nella grande distribuzione. L’indagine realizzata da Università e sindacato entra nel dettaglio: l’84% dei bancari sentiti vive una condizione di disagio, l’82% soffre di ansia se non raggiunge gli obiettivi aziendali perché teme un demansionamento o un trasferimento, il 59% non riesce ad adattarsi ai continui cambiamenti, l’84% è a disagio ogni volta che consiglia un prodotto inserito nel proprio budget, il 63% ritiene moralmente ingiuste le continue richieste di vendere prodotti.

Lo stress lavoro-correlato è stato definito nell’accordo di Bruxelles 8/8/2004,  recepito in Italia nel 2008 da un Accordo Interconfederale, come una situazione di prolungata tensione, che può essere causata da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’ inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, etc. e che può portare a ridurre l’efficienza sul lavoro e a determinare un cattivo stato di salute.

In termini civilistici, l’incidenza dello stress negativo sul contratto di lavoro deriva dalla violazione dell’art.2087 del codice civile.
Tale norma cardine, da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo non si limita al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma obbliga l’azienda ad astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta e “istituzionalizzata” dalla Corte di Cassazione con la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 c.c. (cfr. Cassazione, 8827 e 8828/2003), si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori, preposti o altri dipendenti nello svolgimento dell’attività lavorativa.
La legislazione della sicurezza (T.U. 81/2008, art. 2, lett. o), nella definizione di salute (mutuata dall’OMS che l’ha elaborata fin dal 1948), parla di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità”.

Il danno derivante da stress correlato al lavoro è inquadrato dalla giurisprudenza nella categoria del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale (art.2059 c.c.) è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, vale a dire (cfr. Cassazione 7471/2012) al ricorrere di una delle seguenti condizioni:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (art.185 c.p.)
  • quando la legge prevede espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale (ad esempio, nel caso siano state usate modalità illecite per la raccolta dei dati personali, ex art.29 comma 9 legge 675/96 per violazione art.9 stessa legge)
  • quando l’illecito ha violato diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, che quindi, non essendo ex ante individuati dalla legge ordinaria, dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (cfr. Cassazione, sentenze 8827 e 8828 del 2003).

Appare quindi evidente come il danno da stress correlato al lavoro possa essere riconosciuto come risarcibile prevalentemente attraverso l’avverarsi della terza condizione, vale a dire la produzione giurisprudenziale. Infatti non è detto che la condotta che genera elevato stress possa anche essere configurata come reato, né risultano norme in cui la legge ordinaria dichiara espressamente risarcibile un danno da stress. Di conseguenza, è attraverso le sentenze dei giudici che le maglie della tutela della salute, intesa nella sua definizione più completa, possono allargarsi fino a ricomprendere quelle ipotesi in cui il danno da stress correlato al lavoro viene dichiarato risarcibile in quanto la condotta illecita lede diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale (fonte sovraordinata).

In conclusione, il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno da stress correlato al lavoro presuppone il ricorrere di tre elementi:

a)una condotta illecita del datore di lavoro

b)un danno medicalmente accertabile

c)un nesso di causalità, o concausalità, tra la condotta illecita e il danno

  1. a) mentre mobbing e straining in termini giuridici sono declinate come esercizio di molestie e minacce di uno o più soggetti fisici specifici verso altri, lo stress lavoro-correlato si attaglia maggiormente, come categoria, alle situazioni di fatto presenti in molte aziende bancarie, dove è l’organizzazione complessiva del lavoro, con il suo miscuglio di inefficienza e pressione commerciale eccessiva, a generare una situazione di tensione “ambientale”. Sotto questo aspetto la norma cardine, da tenere presente ai fini della risarcibilità del danno (posto che le fattispecie inquadrabili come reati sono residuali e da considerare extrema ratio), è l’art.2087 del codice civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In questo modo l’ “imputato” è l’azienda, non singoli esponenti della stessa.

 

  1. b) i danni che la medicina del lavoro e la psichiatria riconoscono come direttamente collegabili a situazioni di elevato e persistente stress lavorativo sono vari: infarto, patologie autoimmuni, patologie psichiche, disturbi dell’adattamento, sindrome ansioso-depressiva. A questi responsi attingono ormai molti giudici per asseverare l’accertabilità medica del rapporto stress-danno alla salute.

 

  1. c) proprio in quanto il danno da stress lavoro-correlato è riferibile ad un contesto organizzativo “patogeno”, piuttosto che a singoli comportamenti ascrivibili a singoli individui, appare quanto mai appropriata la definizione in massima della sentenza della Corte d’appello de L’Aquila del 9 gennaio 2003: “ritenere il datore di lavoro responsabile della malattia ex articolo 2087 cod. civ. per mancata adozione delle misure idonee a preservare l’integrità psicofisica del dipendente, in quanto sia individuabile una responsabilità dell’imprenditore nel determinismo dello stress, conseguente alla violazione di un obbligo su di lui gravante e scaturente dal rapporto di lavoro”.

 

A cura della Consulta Giuridica Fisac/Cgil

 

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Piani industriali e trasferimenti

Come dipartimento giuridico Fisac/Cgil desideriamo puntualizzare un paio di cose in relazione ai trasferimenti – e ai relativi preavvisi – che si verificano durante l’esecuzione dei piani industriali.
Infatti succede che, durante l’esecuzione dei piani industriali, i trasferimenti siano numerosi in un breve lasso di tempo, e spesso le aziende utilizzino questa circostanza come giustificazione per non rispettare le disposizioni che riguardano i trasferimenti e i relativi preavvisi.

Per quanto riguarda i trasferimenti, ricordiamo che il trasferimento è efficace solamente se avviene con comunicazione scritta.
Quindi fino a che la comunicazione non è scritta, il trasferimento non è efficace.

Quanto al preavviso di trasferimento, esso riguarda sia i Quadri Direttivi sia le Aree Professionali.
Per quanto riguarda i Quadri Direttivi il preavviso deve essere almeno di 45 giorni di calendario qualora il Quadro Direttivo abbia familiari a carico, almeno 30 giorni di calendario qualora non abbia familiari a carico.
Qualora invece il dipendente sia un’Area Professionale il preavviso è di 30 giorni di calendario qualora il trasferimento sia a più 30 Km dalla residenza, di 15 giorni di calendario qualora il trasferimento sia a meno di 15 Km dalla residenza.

L’indennità di mancato preavviso consiste in una diaria.
L’allegato al CCNL permette di verificare l’importo delle diarie che sono variabili e crescenti al crescere del numero di abitanti del centro abitato nel quale si trova la nuova unità produttiva (quella del trasferimento).

L’indennità di mancato preavviso corrisponde a questa diaria, da moltiplicare per il numero di giorni di mancato preavviso. A nostro avviso è richiedibile sia nei confronti del mancato preavviso ad un Quadro Direttivo, sia nei confronti del mancato preavviso ad un’Area Professionale, nonostante nell’ultimo CCNL la disposizione di “sanzione” iscritta sia prevista solamente all’interno dell’articolato relativo ai Quadri Direttivi.
Ciò in quanto l’indennità di mancato preavviso è prevista per il mancato preavviso; e siccome il preavviso è previsto anche per le Aree Professionali, a nostro avviso non sussistono ragioni valide per non poterlo esigere anche nei confronti delle Aree Professionali.

Raccomandiamo quindi a tutti i dipendenti di far valere questi loro diritti, anche perchè il riconoscimento dei diritti passa anche attraverso le azioni per esigerli.

 

Nicola Cavallini
Consulta Giuridica Nazionale Fisac/Cgil