Banche: 28 miliardi di utili. Chi si spartisce il malloppo e il peso sulle famiglie

I numeri arrivano dai comunicati delle principali banche italiane quotate: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, Mediobanca, Popolare di Sondrio e Credem hanno registrato nel corso del 2023 utili per 23 mld che salgono a circa 28 mld se si aggiungono i 1,85 mld di Iccrea e i 0,55 mld di Cassa Centrale Banca, i 1,3 mld della controllata bancaria italiana del Crédit Agricole e i 0,93 mld della Bnl, controllata bancaria italiana del gruppo Paribas.
Un boom di utili con un valore ben superiore (+ 87%) al già significativo risultato di 15 mld conseguito nel 2022. Visto l’impatto che questo settore ha sulla vita di tantissimi privati e imprese, con l’aiuto di Arturo Capasso (professore di Corporate Finance alla Luiss) e dell’ex dirigente bancario Francesco Tuccari, proviamo a capire come si è formato questo enorme profitto e chi sono i reali beneficiari.

Dove guadagnano le banche

Le banche guadagnano principalmente attraverso tre diverse attività. La prima è quella di intermediazione di denaro: riconoscono un interesse fisso a chi deposita soldi (interessi passivi) e fanno pagare a chi chiede prestiti un tasso base di riferimento (l’Euribor per i finanziamenti a tasso variabile e l’Irs per quelli a tasso fisso) a cui aggiungono un «sovraprezzo» che varia in misura direttamente proporzionale alla «rischiosità» dei soggetti finanziati (questi si chiamano interessi attivi). La differenza fra gli uni e gli altri è il «margine d’interesse».
La seconda attività riguarda le commissioni che incassano ogni qualvolta effettuano per conto del cliente il pagamento di una utenza, l’incasso di un assegno, dispongono un bonifico, spediscono l’estratto conto, sul prelievo di contante col bancomat, sulla gestione del conto corrente e sulla vendita dei prodotti finanziari (sui quali si fanno pagare i costi più alti d’Europa approfittando dell’ignoranza dei clienti).
La terza attività sono gli investimenti finanziari, dai quali le banche possono conseguire un utile o una perdita («Proventi finanziari»).

Mentre nel biennio 2020 -2021 il peso delle commissioni e dei proventi finanziari costituiva il 56% del totale dei ricavi, nel 2022-2023 è il «margine di interesse» a raggiungere la componente di maggior valore: quasi il 60%.

Cosa è successo?

Dalla sua costituzione la Bce ha posto fra i suoi obiettivi un livello di inflazione al 2%, considerato come il migliore per assicurare una crescita economica stimolante ma non drogata dall’andamento dei prezzi. A inizio 2022, dopo due anni di pandemia e a seguito dell’invasione dell’Ucraina con i rincari dell’energia, i prezzi sono esplosi.
Per contenerli, nel mese di luglio del 2022, la Bce ha innalzato il tasso di riferimento e, con 10 interventi successivi, lo ha portato nell’arco di soli 14 mesi dallo 0,5% al 4,50%. Il sistema bancario italiano ha applicato immediatamente questi rialzi, ma rivedendo solo i tassi applicati sui finanziamenti passati, fra il 2022 e il 2023, dal 2,13% al 4,76%. Gli interessi invece riconosciuti ai depositanti sono rimasti pressoché fermi fra lo 0,20 e lo 0,53%. Dai dati Abi solo nell’ultimo trimestre 2023 si è arrivati all’1,16%, si tratta però di una media ponderata che include anche gli interessi sui depositi vincolati e sulle obbligazioni bancarie. Va detto che ancora oggi molte grandi banche applicano sui deposti a vista lo 0,01%.

Eppure il comma 4 dell’art 118 della Legge bancaria dice espressamente: «Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente». La vigilanza non ha battuto ciglio. Forse perché il sistema bancario deve fronteggiare maggiori costi di funzionamento, e le esposizioni verso clienti che non sono in grado di rimborsare i loro debiti? I dati dimostrano che sia i primi che i secondi sono in calo.

 

Riduzione di sportelli e personale

Partiamo dai costi operativi: fra il 2013 e il 2023 le banche hanno ridotto del 37% il numero dei loro sportelli e di circa il 20% il numero dei loro dipendenti, passati da 310 mila a 261 mila. Solo negli ultimi due anni è stata registrata la chiusura di oltre 1.500 filiali: una media di due al giorno, con la conseguente contrazione degli organici. 50 mila impiegati mandati a casa in dieci anni. Secondo una stima delle Organizzazioni sindacali di settore, per il 2027 si prevede una riduzione di personale tra le 12 mila e le 14 mila unità.
Tradotto in termini di impatto sulla popolazione: ben 4,4 milioni di persone (il 7,5%) risiedono in comuni in cui non possono accedere fisicamente ai servizi bancari. Alla chiusura delle filiali fisiche e alla riduzione del personale non ha poi corrisposto la crescita dell’internet banking, in Italia utilizzato dal 51,5% della popolazione contro una media europea dl 64%. Per quel che riguarda i costi sofferti dalla industria bancaria, i cosiddetti crediti problematici sul totale dei crediti bancari, l’Npl Ratio lordo delle banche italiane nel 2023 è sceso al 3,1%, un livello di gran lunga inferiore alla soglia di sicurezza del 5% definita dall’Eba (l’Autorità di vigilanza bancaria europea). Ciò è avvenuto anche grazie alla cessione ai Fondi specializzati di circa 280 miliardi di crediti deteriorati. Tornando invece all’enorme incremento dei proventi, quale impatto ha avuto sulle famiglie?

 

Il peso sui mutui delle famiglie

In Italia a fine 2023, sulla base di dati elaborati da Bankitalia, circa 2,8 milioni di famiglie risultavano avere in essere un mutuo per acquisto casa a tasso fisso, mentre circa 1,6 milioni a tasso variabile. Secondo la stessa elaborazione, nel 2021 – ultimo anno per il quale si dispone di dati a livello territoriale – i mutui pesano sul reddito disponibile per circa il 32%. Il governatore della Banca d’Italia, in un suo recente intervento (Assiom Forex del 10 febbraio 2024), ha ricordato che nell’ultimo biennio l’aumento dei tassi applicati sui mutui a tasso variabile ha determinato una crescita della rata mensile del 50%, passata mediamente da 500 a 750 euro. Se si considera che nel nostro Paese lo stipendio netto medio di un dipendente oscilla fra i 1.400 ed i 1.600 euro (Istat 2023), il solo aumento della rata pesa per un ulteriore 17% sul reddito disponile, già eroso da un’inflazione all’8,1% nel 2022 e al 5,7% nel 2023. Un’altra conseguenza dell’innalzamento dei tassi dei finanziamenti è un calo del 9,8% nell’ultimo anno nell‘erogazione di nuovi mutui alle famiglie per l’acquisto della casa. Non a caso le compravendite di immobili su base annua si è ridotta del 16% (rilevazione Istat).

La tassa sugli extra-profitti

Lo straordinario incremento degli utili delle banche, dunque, non è dovuto a una crescita della loro efficienza e, per questo, è stato definito «extraprofitto». Il governo lo scorso agosto ha annunciato l’applicazione di una imposta straordinaria del 40% su quella parte del «margine di interesse» che va oltre il 10% in più della stessa voce relativa all’esercizio 2021. L’incasso previsto per le casse dello Stato era stimato in circa 3/4 miliardi, da destinare a misure di sostegno per i mutui delle famiglie in difficoltà, al rifinanziamento del fondo mutui prima casa giovani a tasso variabile e a un contributo per la riduzione delle tasse per famiglie e imprese. Le banche sono insorte e, in sede di approvazione definitiva della legge di Bilancio 2024, il governo ha concesso un’alternativa: se non volete dare questi soldi allo Stato potete metterli nella vostra cassaforte per rafforzare il patrimonio per un ammontare pari fino a 2,5 volte il prelievo calcolato. Le banche hanno aderito in massa. Va detto che oggi presentano livelli di patrimonializzazione ampiamente al di sopra dei requisiti minimi di vigilanza richiesti dal regolatore europeo.

Chi si spartisce il malloppo

Tirando le somme: i debitori hanno visto innalzare il costo del loro debito, i depositanti non hanno visto crescere i loro interessi se non nell’ultimo trimestre, in misura minima e solo su insistenza del cliente. I reali beneficiari della maggiore redditività delle banche sono gli azionisti che si divideranno il 60% di quei 28 miliardi, ovvero i grandi fondi d’investimento internazionali: BlackRock, Vanguard, Capital Group, Dimensional Fund Advisors, ma anche Allianz, Crédit Agricole, JP Morgan ecc. Dividendi accresciuti anche da una maggiore valorizzazione dei titoli azionari posseduti, visto che quasi tutte le maggiori banche hanno fatto grandi acquisti di azioni proprie, aumentandone pertanto il valore, che viene trasferito dagli stakeholder agli shareholder, con buona pace di tutte le teorie di «responsabilità sociale d’impresa». L’attività bancaria, va precisato, non è un’attività come le altre e per questo ha un trattamento particolare: quando si configurano danni collettivi interviene lo Stato. Infatti la collettività è andata in soccorso di Montepaschi, Veneto Banca, Popolare di Vicenza e di tutte le altre finite il liquidazione.
Ora che il sistema bancario vive un periodo di vacche grasse, con il benestare dello Stato, alla collettività restituisce nulla.

 

 




Il Molise torna in Abruzzo? L’autonomia è fallita

Dopo un divorzio durato 60 anni il Molise vorrebbe tornare negli Abruzzi. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise». Qualche anno fa addirittura la Bbc, incuriosita dall’ hashtag «il Molise non esiste», inviò un reporter alla scoperta della «regione che non c’è» e narrò di una separazione che aveva confinato questo territorio impervio e struggente all’invisibilità. In un’area sempre più disabitata e sommersa dai debiti, oggi una parte della popolazione si sta dando da fare per fondersi con la comunità abruzzese. Ma perché il piccolo Molise è riuscito a diventare una Regione, status negato ad aree più estese e popolate come la Romagna e il Salento?

La Costituente e la legge del 1963

Già nel 1947, durante l’Assemblea costituente, viene proposta la creazione della regione Molise, un’area prevalentemente montano-collinare di 4.460 km² con appena 418 mila abitanti. La richiesta è bocciata perché si riconoscono solo le regioni storiche, ma i costituenti stabiliscono anche la condizione per costituire nuove regioni: la presenza di almeno 1 milione di residenti (art 132). I fautori dell’autonomia però non demordono e riescono a inserire nelle disposizioni transitorie una una deroga che congela il limite demografico ai primi anni della Repubblica. Così, dopo un acceso dibattito parlamentare, nel 1963 arriva la legge costituzionale che sancisce la nascita del Molise. La nuova regione è definita da Alberto Cavallari in un reportage dell’epoca sul Corriere della Sera «una provincia cenerentola, eternamente seconda, rimasta in fondo alla serie B dei Paesi sottosviluppati». Per tutti gli anni ‘60 l’ente è composto dal solo capoluogo Campobasso. Nel 1970, quando le regioni entrano effettivamente in funzione, si aggiunge la provincia di Isernia.

Le motivazioni della separazione

Al momento della separazione, le regioni italiane sono solo sulla carta e anche negli anni successivi hanno una limitata discrezionalità fiscale. Le motivazioni che portano alla creazione del nuovo ente sono sostanzialmente tre:

  1. Identitaria-culturale. In un intervento al Senato l’esponente della DC Giuseppe Magliano, primo firmatario della riforma costituzionale, afferma che il Molise si considera «un complesso etnico, storico, geografico e politico nettamente distinto e separato dagli Abruzzi». In realtà tutta questa differenza non c’è: salvo lungo i confini dove le inflessioni sono più napoletane o pugliesi, i molisani parlano abruzzese.
  2. Logistica-amministrativa. Gli abitanti dei 136 comuni del Molise hanno difficoltà a raggiungere i 20 specifici uffici pubblici perché dislocati troppo lontano o addirittura in altre province fuori dalla regione «Abruzzi e Molise». Ad esempio, per l’esame della patente bisogna raggiungere la motorizzazione a Pescara, per il distretto militare si deve andare a Bari, per la Corte d’Appello a Napoli, i servizi erariali a Benevento e così via. Problemi, nell’Italia contadina del tempo, comuni a molti altri territori. Sarebbe bastato modificare la giurisdizione e aprire qualche ufficio a Campobasso. Si è preferito dar vita ad una Regione. L’ironia della storia è che di quei 20 uffici, a distanza di 60 anni, solo 9 sono stati trasferiti effettivamente nel capoluogo di provincia, mentre il resto è rimasto altrove, come il comando generale dei carabinieri, che sta in Abruzzo.
  3. Elettorale. Nell’ articolo 57 della Costituzione è inserito il comma che prevede due senatori provenienti dal territorio. La Democrazia Cristiana, dunque, si assicura nel feudo elettorale molisano un seggio di senatore in più. Forse questa la vera ragione.

 

Il confronto tra Abruzzo e Molise

All’inizio degli anni Sessanta le due Regioni sono molto arretrate. L’agricoltura occupa la maggior parte della popolazione attiva, mentre l’industria è rappresentata per lo più da piccole imprese artigianali. Il tenore di vita delle due popolazioni è inferiore di un terzo rispetto alla media italiana. Con un reddito netto pro-capite di 298.121 lire, il Molise è più povero dell’Abruzzo (323.766 lire, in linea con quello dell’Italia meridionale che è di 324.977 lire). Nel 1974 la situazione è già diversa: in Molise il reddito netto raggiunge le 923.547 lire, mentre in Abruzzo diventa il più alto del Sud Italia: 1.176.068 lire, molto vicino alla media italiana (82,8%). In entrambi i territori cala drasticamente l’occupazione in agricoltura, mentre quasi uno su tre lavora nell’industria. All’inizio degli anni ’90 l’economia abruzzese si avvicina a quella nazionale (85%), mentre quella molisana migliora (76%) ma non decolla. Poi la crescita rallenta fino a vivere un brusco crollo nei primi due decenni del secolo, ma con enorme differenza fra le due Regioni: tra 2001 e 2014 il Pil dell’Abruzzo cala del 3,3%, quello molisano precipita a quasi -20%.

Il Molise oggi: crisi economica, spopolamento, carenza di servizi

Nel corso degli anni il Molise si è spopolato, e a fine 2023 i residenti sono 289.294. E’ l’unica regione italiana ad avere una popolazione inferiore rispetto al tempo dell’Unità d’Italia. Dagli ultimi dati Istat il Pil pro-capite raggiunge i 24.500 euro contro i 27 mila dell’Abruzzo, e i 32.983 della media nazionale. In Molise la crisi morde più forte: nel 2023 le chiusure delle imprese hanno superato le aperture con un saldo negativo di 188 aziende, il peggiore in Italia e in controtendenza con l’andamento nazionale dove 17 regioni su 20 registrano dati positivi. Cresce il disavanzo pubblico che a fine 2021 ha superato i ha superato i 573 milioni di €, la Sanità è commissariata da 15 anni ed ha ancora un debito di 138 milioni (Monitoraggio della spesa sanitaria, pag.113). Nell’ultima legge di bilancio il governo Meloni ha stanziato 40 milioni a favore della regione, vincolati alla riduzione del disavanzo. Per questo la giunta di centro-destra guidata da Francesco Roberti ha deciso di aumentare l’addizionale Irpef per i redditi superiori a 28mila € al 3,33%, l’aliquota più alta d’Italia (in Abruzzo è ferma all’1,73%). La capacità di gettito però resta limitata, anche perché bisogna mantenere un apparato regionale che costa 30,7 milioni di euro, circa 105 euro a testa contro i 60 dell’Abruzzo (Relazione Corte dei Conti, pag 210). In un report della «Fondazione Gazzetta Amministrativa» sulle spese per incarichi di studi e ricerca effettuati nel 2021 il Molise si classifica ultimo con 225 mila euro.

 

Il referendum per il ritorno al passato

Alla fine il «meglio da soli» non ha portato prosperità. Il 9 marzo è partita la raccolta di firme per un  referendum che mira a portare la provincia di Isernia dentro l’Abruzzo, e poi l’intero Molise. Secondo l’ex questore Gian Carlo Pozzo, uno dei promotori dell’iniziativa popolare, la Regione è gravata da un pesante debito che combatte a suon di tasse e tagli e non è più in grado di garantire ai cittadini servizi essenziali come sanità, trasporti e formazione. Si sta muovendo nella stessa direzione la provincia di Campobasso con un comitato a Montenero di Bisaccia, e iniziative anche nei comuni di  Petacciato, Termoli e Campomarino.

Bisognerà poi vedere alla prova dei fatti se la politica locale mollerà l’osso, perché con una popolazione così esigua ogni famiglia ha rapporti diretti con gli amministratori, e il clientelismo è più di un rischio. Nel concreto ogni amministratore controlla 97 votanti effettivi.

E il Molise è tutto qui: 80 mila abitanti nella provincia di Isernia, e poco più di 200 mila in quella di Campobasso, con enormi difficoltà a sostenere uno sviluppo in grado di camminare con le proprie gambe. Già a suo tempo i padri costituenti avevano intuito i pericoli dei territori infiammati dalle aspirazioni a diventare piccole patrie, ma con pochi abitanti e ancor meno risorse.

 

 

Fonte: [email protected] ripubblicato da Lasicilia.it