La ‘ndrangheta: “Col Pos abbiamo perso 1 milione di euro”

Ecco a chi giova l’innalzamento del tetto al contante


Al centrodestra di governo ossessionato dalla voglia di innalzare sino al cielo il tetto al contante, nella convinzione che questo non favorisca il crimine, andrebbero fatte leggere le intercettazioni dell’inchiesta “Eureka” di Reggio Calabria. Sono state diffuse l’altroieri con le ordinanze che hanno mandato in galera il gotha della ’ndrangheta specializzata nel narcotraffico internazionale.

Si ascoltano gli uomini del clan che contavano i soldi da dividersi, il “nero” realizzato nel ristorante di Ponte Milvio a Roma e nei cinque ristoranti in Portogallo, e si lamentano perché l’obbligo del pos aveva arrecato danni notevoli: “C’abbiamo perso un milione di euro”.

Scrive il gip: “I due si lamentano dei pagamenti effettuati tramite pos, circostanza che limita notevolmente il margine di manovra per distrarre somme dagli incassi della società”. È il 22 novembre 2021 quando Francesco Giorgi e Francesco Nirta “offrono ulteriori elementi in ordine alle divisioni mensili tra i soci del contante proveniente sia dal circuito dei ristoranti portoghesi, sia dalla gestione del ristorante romano; i due ripercorrono le spartizioni dei mesi precedenti, fino a giungere a quella più recente del mese di ottobre, mensilità durante la quale i quattro membri del gruppo hanno percepito una quota pro capite pari a 16.135 euro”.

Andrebbe ringraziato il pos, per aver contribuito a ridurre i proventi di una delle mafie più potenti del mondo. Un apparecchio che invece appare come un orribile nemico agli occhi di una parte della nostra classe dirigente, quella che al momento sta al governo, perché strozzerebbe di commissioni i piccoli commercianti a favore delle banche.
Prendiamo un Matteo Salvini di pochi mesi fa. Il 27 ottobre scorso il ministro delle Infrastrutture dichiara, sicuro: “Non c’entra nulla il pagamento in contanti con l’evasione fiscale o il riciclaggio tanto che, amici di sinistra un po’ distratti, ci sono nell’attuale Unione europea Austria, Cipro Estonia, Finlandia, Germania, la virtuosa Germania, l’Ungheria, la pericolosa Ungheria, Islanda, Irlanda Lussemburgo, Olanda, Polonia e il Regno Unito da fuori, che non hanno nessun limite di spesa in denaro contante”.
Sarà anche vero, ma la riflessione andrebbe tarata con l’assenza, in quei Paesi, di criminalità organizzate penetranti come la nostra. Del resto, Meloni & C. ne avevano fatto un punto di principio. Avevano anche provato a inserire in Finanziaria una norma per consentire agli esercenti di rifiutare il pos per pagamenti al di sotto dei 60 euro. Le pressioni dell’Ue hanno scongiurato la cosa. Ma l’innalzamento del tetto al contante da 2.000 a 5.000 euro con il nuovo anno è diventato legge dello Stato.
Una legge che Meloni aveva apparecchiato così a ottobre: “Non c’è nessun nesso tra i limiti all’utilizzo del contante e l’evasione fiscale, per questo il governo innalzerà il tetto attuale dei 2.000 euro che oltretutto penalizza i più poveri”. Citando, a sostegno della tesi, le parole di un ex ministro Pd dell’Economia: “Ci sono Paesi in cui il limite non c’è e l’evasione è bassissima, sono parole di Piercarlo Padoan ministro dei governi Renzi e Gentiloni”. Il giorno prima che parlasse Salvini.

 

Articolo di Vincenzo Iurillo sul Fatto Quotidiano del 5 maggio 2023




Manifestazioni vietate dal nuovo decreto rave?

Il nuovo decreto rave prevede una multa fino a 10.000 euro e la detenzione fino a 6 anni per chi prende parte a un raduno pericoloso; ma vieta anche le manifestazioni?


Il cosiddetto decreto Rave varato dal governo Meloni ha messo immediatamente in allerta sia l’opposizione politica che gli avvocati penalisti. La paura è che il nuovo articolo 434-bis c.p. non si limiti a proibire i raduni pericolosi, (il rave infatti è diventato un vero e proprio reato), ma che preveda anche manifestazioni vietate.

L’articolo 5 del D.L. 162/2022 prevede per l’appunto l’introduzione del reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine, la salute e l’incolumità pubblica, con sanzioni sia per gli organizzatori che per i partecipanti stessi. Il tema della sicurezza pubblica non viene tuttavia chiarito in maniera esaustiva, nonostante le pene previste non siano da sottovalutare.

Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha spiegato che l’obbiettivo di questa norma è la prevenzione di situazioni pericolose e spesso difficili da gestire per le Forze dell’Ordine, in particolare alla luce del recente rave di Modena che ha creato non pochi problemi durante le trattative per lo sgombero. Nonostante l’obbiettivo comune resti quello di combattere l’illegalità, in molti si sono schierati contro questa norma, chiedendo di fare chiarezza.

Decreto Rave: quali saranno le manifestazioni vietate

La tematica dei rave party era già stata oggetto di preoccupazione per il governo, motivo per cui Luciana Lamorgese, precedente ministra dell’Interno, aveva sollecitato la stesura di una norma che contrastasse questo tipo di eventi, che comportano un notevole dispendio di risorse e potrebbero favorire la criminalità.

L’intero procedimento ha subito una rapida accelerazione con il governo Meloni, ed era del tutto prevedibile dato che il centrodestra ha sempre avuto molto a cuore questo problema. Così, i rave sono ufficialmente reato ma non in maniera specifica.

La nuova normativa, infatti, non tratta dei rave in maniera esplicita, limitandosi a condannare tutti i raduni che mettono in pericolo la collettività. Per il momento, quindi, non è possibile escludere che siano vietate anche tutte le altre forme di manifestazione e associazione.

Il motivo è che il nuovo articolo introdotto nel codice Penale non definisce i criteri per stabilire in maniera definitiva l’eventuale pericolosità dell’evento, lasciando il tutto al sostanziale libero arbitrio del governo.

Proprio su questo punto insistono il Pd e +Europa, preoccupati per gli effetti che questa definizione così vaga potrebbe avere sulla libertà pubblica. Almeno in linea teorica, infatti, potrebbero essere puniti anche i partecipanti di scioperi sindacali, manifestazioni pacifiche e perfino occupazioni scolastiche.

Il vicesegretario Matteo Salvini si è detto in completo disaccordo su questa discussione, affermando che l’obbiettivo del governo è semplicemente la difesa della legalità mentre, anche secondo il Viminale, non viene lesa in nessun modo la libertà di manifestazione prevista dalla Costituzione.

Rave e raduni pericolosi: ammesse le intercettazioni

Le sanzioni previste per punire gli eventi abusivi con più di 50 partecipanti sono: una multa, che può andare da 1.000 euro a 10.000 euro, e la reclusione da 3 a 6 anni per quanto riguarda gli organizzatori della manifestazione incriminata.

È stata proprio la pena detentiva a far storcere il naso ai penalisti, con particolare riferimento alla questione delle intercettazioni telefoniche e telematiche, anche se per i soli partecipanti è prevista una riduzione della pena che li escluderebbe da questo problema.

La premier Giorgia Meloni aveva infatti dichiarato di non aver dato il via libera alle intercettazioni per questo reato, ma il fatto stesso che preveda una pena oltre i 5 anni di reclusione ne permette l’utilizzo. Lo ha spiegato Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali, senza nascondere la sua perplessità a riguardo.

La questione è stata criticata aspramente anche dal ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, secondo cui le intercettazioni in questa particolare fattispecie rappresenterebbero uno strumento d’indagine eccessivamente invasivo. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd, che teme l’oppressione delle libertà personali.

L’aspetto problematico non riguarda quindi il fine del decreto, quanto più la sua formulazione che risulta troppo ampia e generale, soprattutto considerando la gravità delle sanzioni indicate.
Fonte: www.money.it



Gli idranti contro i portuali e i decreti di Salvini

Il leader della Lega si scaglia contro il Viminale (dove come sottosegretario c’è un leghista) per i fatti di Trieste. Ma se gli idranti sono stati accesi e puntati contro lavoratori e cittadini la responsabilità è tutta sua e del suo decreto sicurezza.


Idranti contro i pacifici lavoratori e cittadini a Trieste. Ma al Viminale come ragionano?

Il duro commento è in un tweet del 18 ottobre – ore 11 – di Matteo Salvini che si schiera dalla parte dei manifestanti “No green pass” sgomberati in modo plateale dalle forze dell’ordine per ripristinare la viabilità intorno al porto di Trieste. Immagini decisamente poco edificanti in un Paese democratico. Salvini per una volta ha ragione a chiedersi “ma al Viminale come ragionano?

Per trovare una risposta alla domanda il leader della Lega ha due opzioni. La prima: usare quello smartphone che, gli ricordiamo, serve non solo a scattare selfie e chiamare Nicola Molteni, deputato della Lega e sottosegretario al ministero dell’Interno. Lui sicuramente ha una risposta.
La seconda: andare indietro tra tweet e commenti e tornare indietro all’ottobre 2018 e ricordarsi di quando, proprio nelle vesti di ministro dell’Interno, pensò, scrisse e fece approvare – era il primo governo Conte – quel decreto sicurezza che, al suo interno, contiene all’articolo 23 “Disposizioni in materia di blocco stradale”.

Il decreto ha ripristinato il reato di blocco stradale, depenalizzato nel 1999, con pene che possono arrivare fino a sei anni di carcere e recita così:

“Chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, ad eccezione dei casi previsti dall’art. 1-bis, è punito con la reclusione da uno a sei anni”.

Che quella disposizione fosse pensata ad hoc per limitare e punire il diritto a manifestare era chiaro. Nel mirino dell’allora capo del Viminale c’erano ovviamente, in cima alla lista, movimenti e sindacati, dai No Tav alle lotte nella logistica, allora come oggi un fronte caldo del dissenso contro il governo, allora Conte prima versione, oggi Draghi.

Nei mesi in cui Matteo Salvini era impegnato a (far) scrivere quel dispositivo del decreto sicurezza, a Torino si stavano celebrando diversi processi scaturiti dai blocchi stradali effettuati tra febbraio e marzo del 2012 lungo l’autostrada che dal capoluogo piemontese porta a Bardonecchia. In quei giorni centinaia, se non migliaia di persone bloccarono l’arteria stradale per protestare contro la crescente militarizzazione della Val di Susa con l’obiettivo di ostacolare l’arrivo di alcune componenti della famosa “talpa” e bloccare così i lavori nel tunnel di Chiomonte.

Come ricorda questo articolo di volerelaluna.it, “se quelle manifestazioni venissero fatte oggi (all’epoca dell’approvazione dei decreti, ndr), i partecipanti rischierebbero pene elevatissime e, con ogni probabilità, l’applicazione di misure cautelari, visti i criteri guida utilizzati negli ultimi anni dagli uffici giudiziari torinesi. Tutto ciò in perfetta armonia con le roboanti dichiarazioni del ministro dell’interno (all’epoca Matteo Salvini, ndr), che sembra avere in odio qualsiasi forma di protesta o di conflitto sociale”.

Ora però che quel decreto sicurezza è stato usato per andare contro quel popolo “no green pass” al quale Salvini e la destra strizzano da tempo l’occhio, ecco che il leader della Lega attacca sui social quanto scaturito dal decreto da lui pensato, voluto e approvato e, qui è bene sottolineato, non modificato dalla riforma a quei decreti avvenuta nel secondo governo Conte, quello sostenuto (anche) dal Partito Democratico. Perché, in fondo, un “sano” autoritarismo contro ogni tipo di dissenso, di questi tempi, fa comodo un po’ a tutti.

 

Fonte: Micromega




Perché l’Italia non si finanzia da sola invece di chiedere soldi all’Europa?

La proposta di Salvini di finanziare la risposta all’emergenza con bond riservati agli italiani è sbagliata e controproducente, figlia della propaganda più spregiudicata e della pericolosa incompetenza dei suoi consiglieri economici.
Non si sa da dove cominciare.

Emettere titoli del debito pubblico riservati ai risparmiatori italiani significa finanziarsi attraverso il mercato come sempre, ma esclusivamente quello locale.

All’emissione dei titoli corrisponde la promessa di restituire i soldi prestati con gli interessi. Tali interessi costituiscono il “rendimento” del titolo. Il rendimento è un premio per il rischio. Investimenti più sicuri hanno un basso premio per il rischio. Investimenti più rischiosi garantiscono un rendimento più alto. Per questo quando un gestore di fondi vi propone investimenti ad alto rendimento dovreste chiedervi: sono sicuri?

Se il prestatore (cioè i risparmiatori italiani, nella proposta di Salvini) teme che lo Stato non sarà in grado di restituirgli i soldi, per convincerlo sarà necessario offrire dei rendimenti più alti.
Se lo Stato è già pesantemente indebitato, in parte per aver gestito male le proprie finanze pubbliche in passato (per una breve storia del nostro debito pubblico si veda questo thread), la paura che non sia in grado di ripagare il debito aumenta, e i risparmiatori chiederanno rendimenti più alti.
Se uno Stato già pesantemente indebitato come il nostro chiede ingenti prestiti nel corso della peggiore crisi dal dopoguerra, il timore che non sia in grado di restituire i soldi è ancora più alto. Quindi i rendimenti aumentano ulteriormente.

I cittadini italiani sono disposti a correre questo rischio? Se hanno soldi da investire, non preferiscono rivolgersi a titoli più sicuri ancorché con rendimenti meno elevati?

Qui Salvini, e i sedicenti “economisti” che lo consigliano, puntano su due fattori:

  1. L’illusione di ricchezza che soffrirebbero gli elettori trovandosi in tasca titoli con un rendimento elevato, senza accorgersi che il tasso di interesse è alto proprio per convincerli a comprare carta straccia.
  2. La possibilità di costringere gli italiani a comprare quei titoli, convertendo forzosamente parte dei loro risparmi in debito pubblico.

L’oro alla patria insomma, il prestito forzoso di memoria fascista, un’idea tante volte accennata da Salvini e dai suoi “economisti”, come ho spiegato a suo tempo qui.

In parole povere, avremmo un’esplosione non solo del debito pubblico (che è comunque destinato ad aumentare, beninteso), ma anche dei tassi di interesse; la spesa per interessi aumenterebbe ulteriormente limitando la nostra capacità di finanziare le misure anticrisi, i nostri titoli diventerebbero sempre meno appetibili dal punto di vista di tutti i risparmiatori (non solo quelli italiani), perderemmo rapidamente l’accesso ai mercati internazionali, e gli italiani si troverebbero il portafoglio gonfio di carta straccia.

Un’illusione di autarchia che pagheremmo a caro prezzo.

Ora, tale prestito forzoso sarebbe migliore del finanziamento sui mercati internazionali con la “garanzia” della Bce o del ricorso al MES senza condizionalità, come proposto da altre parti politiche, non solo italiane?

No.

Sarebbe un disastro del tutto inutile, che ha l’unica funzione di consentire a Salvini qualche sparata televisiva per distogliere l’attenzione da un altro disastro: quello causato in Lombardia dagli amministratori della Lega.

Disegnare un meccanismo europeo di sostegno alla spesa in deficit contro il #Covid19 che sia equo ed efficiente è tutt’altro che facile, ma è l’unica strada che possiamo permetterci di seguire per affrontare la crisi.

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

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L’economia secondo Matteo

Il leader leghista, ospite di Bianca Berlinguer a CartaBianca, ha tolto tre zeri alle cifre del prodotto interno lordo e delle uscite dello Stato. Ma soprattutto da quei numeri ha tratto una conclusione del tutto sballata: che le entrate siano maggiori delle uscite e ci siano soldi da spendere a piacimento. Invece la differenza è negativa e va coperta indebitandosi.

Dobbiamo usare per gli italiani i soldi degli italiani. L’anno scorso il prodotto interno lordo degli italiani sono stati 1 miliardo e 800 milioni di euro, la spesa pubblica 800 milioni. I soldi ci sono.

Epic fail del leader leghista Matteo Salvini. Che martedì, ospite di Bianca Berlinguer a CartaBianca, parlando di come trovare le risorse necessarie per l’emergenza coronavirus non solo ha tolto tre zeri alle cifre del pil e delle uscite dello Stato – come molti hanno fatto notare su Twitter – ma soprattutto da quei numeri ha tratto una conclusione del tutto sballata. Cioè che ci sia un avanzo, una specie di “tesoretto” da spendere a piacimento.

Innanzitutto il pil – circa 1.800 miliardi, non 1,8 – è la ricchezza prodotta dall’intero Paese nel corso di un anno. Non corrisponde alle entrate dello Stato, che sono rappresentate dalle tasse più gli eventuali ricavi da vendita di parte del patrimonio pubblico. Le entrate fiscali hanno un collegamento diretto con il pil, visto che le imposte sono proporzionali al reddito o ai ricavi, ma sono una sua percentuale: l’anno scorso sono state, a spanne, oltre 500 miliardi. Sommati i contributi, si arriva a un totale superiore a 800 miliardi. 

La spesa pubblica invece – tra stipendi degli statali, pensioni, spese per consumi e corposi interessi sul debito – veleggia intorno agli 850 miliardi. Quindi: a parte la confusione tra milioni e miliardi, non esiste alcuna differenza positiva tra entrate e uscite da spendere liberamente, come affermato da Salvini. Anzi.

La differenza tra le entrate e le uscite è negativa: è deficit, che viene coperto emettendo titoli di Stato. Cioè indebitandosi ancora. Come l’Italia sta abbondantemente facendo in questa fase, stavolta con il via libera della Ue che ha deciso di sospendere l’applicazione del patto di Stabilità e non conteggiare nel deficit le spese sostenute per l’emergenza coronavirus. In attesa di decisioni sui coronabond.

Il video della puntata

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it




L’immigrazione non è più un’emergenza per merito di Salvini?

È la linea del Corriere della Sera nel suo giudizio di fine anno sui governi Conte: vediamo se è vero.

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha affidato al suo editorialista Antonio Polito il compito di giudicare e confrontare il lavoro dei due governi guidati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: il primo sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle e rimasto in carica fino ad agosto, il secondo appoggiato da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle e ancora in carica.
Polito si è concentrato su vari temi fra cui economia, politica estera ed Europa, ma il giudizio più discusso lo ha dato a proposito delle politiche sull’immigrazione, nel paragrafo dedicato alla “sicurezza”.

In una ventina di righe, Polito ha sostanzialmente elogiato il lavoro da ministro dell’Interno di Matteo Salvini, in carica nel primo governo Conte, con argomenti piuttosto problematici e spericolati.
Fra le varie imprecisioni, la parte iniziale dell’articolo sostiene ad esempio che a causa del netto calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane «l’immigrazione non è più un’emergenza: ed è impossibile negare che la svolta l’abbia data Salvini al Viminale».

Non è vero: il calo degli sbarchi a cui si riferisce Polito era iniziato nell’estate del 2017, quando al ministero dell’Interno c’era Marco Minniti, del PD. Minniti fece un accordo con varie milizie libiche – mai confermato ufficialmente, ma raccontato da diverse inchieste giornalistiche – affinché bloccassero le partenze dei migranti, mantenendoli nei centri di detenzione libici dove peraltro le torture e le violenze sono sistematiche.

Durante i mesi del mandato di Salvini, come si vede in un grafico elaborato dal ricercatore dell’ISPI Matteo Villa, gli sbarchi sono persino calati con meno rapidità rispetto a quando al ministero dell’Interno c’era Minniti.

L’articolo del Corriere usa anche diverse espressioni che di solito vengono evitate dagli esperti di immigrazione. È opinabile, per esempio, che nel 2017 l’Italia si trovasse in una situazione di «emergenza» riguardo all’immigrazione, dato che i numeri degli sbarchi erano simili a quelli registrati nei tre anni precedenti. Così come è forzato sostenere che prima del crollo degli sbarchi l’immigrazione verso l’Italia fosse «selvaggia»: il sistema di accoglienza e di esame delle richieste di protezione è sempre rimasto in piedi (la tesi falsa della «immigrazione selvaggia» è una delle più care all’estrema destra in tutta Europa).

Il consuntivo del Corriere dice cose imprecise in diversi altri punti, come per esempio quando scrive che la «politica dei porti chiusi» di Salvini «ha funzionato sul piano dei numeri e ha costretto l’Europa, almeno di tanto in tanto, a non voltarsi dall’altra parte».

Sul piano dei numeri, come abbiamo visto, si può addirittura argomentare che le misure di Salvini abbiano rallentato il crollo degli sbarchi. Ma più in generale i porti italiani non sono mai stati «chiusi», nemmeno durante il mandato di Salvini: i migranti hanno continuato a sbarcare e i divieti emessi dal ministero dell’Interno in quei mesi erano rivolti soltanto alle navi delle ong che soccorrono le persone nel Mediterraneo, e l’unica conseguenza pratica che hanno avuto è stata quella di prolungare le sofferenze e la condizione di disagio per centinaia di persone già provate dalle violenze in Libia. Le ong peraltro fanno un lavoro molto visibile – cosa che le rende facili bersagli della propaganda e delle forzature di Salvini – ma sono responsabili solo in piccola parte degli arrivi via mare in Italia.

(leggi anche: I porti sono chiusi solo per certi migranti)

Nei primi sei mesi del 2019 sono sbarcati in Italia 3.073 migranti: soltanto 248 sono arrivati a bordo delle navi delle ong, circa l’8 per cento. Gli altri 2.825, cioè il 92 per cento del totale, sono arrivati con modalità meno visibili o perlomeno meno raccontate: attraverso i cosiddetti “sbarchi fantasma” o in maniera autonoma.

Nel primo caso si parla di sbarchi che coinvolgono gommoni o piccole imbarcazioni difficilmente individuabili: in questo modo sono arrivate 737 persone dall’1 gennaio ai primi di giugno. Nel secondo caso si parla invece di piccole barche arrivate fino alle coste italiane oppure entrate nelle acque territoriali italiane e poi trainate in porto dalle autorità italiane.

(leggi anche: Chi porta davvero i migranti in Italia )

È falso anche che Salvini sia riuscito in qualche modo ad attirare l’attenzione dell’Europa sul tema dell’immigrazione.

Salvini ha disertato praticamente tutti gli incontri europei dei suoi colleghi ministri dell’Interno – ha partecipato a una sola riunione, in cui ha litigato con un ministro lussemburghese – e il governo italiano è riuscito a ottenere una disponibilità a ricollocare i migranti soccorsi in mare e portati in Italia soltanto con l’insediamento del secondo governo Conte, alla fine di settembre. Matteo Villa ha stimato che l’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha ottenuto la promessa di ricollocare in altri stati europei l’8,9 per cento dei migranti arrivati in Italia, a fronte del 4 per cento di Salvini.

Matteo Villa@emmevilla

⛔️🚢Malta ed “effetto “.

A quasi tre mesi dalla dichiarazione di Malta, qualcosa è cambiato?

Sì. Oggi l’Italia ricolloca più del doppio dei migranti sbarcati sia rispetto al 2015-2017 (emergenza), sia al periodo di “crisi in mare” con Salvini.

Un thread.

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Ci sono altri parametri, poi, che suggeriscono che le politiche di Salvini siano state quantomeno deleterie o problematiche.

Durante il suo mandato, e molto probabilmente per effetto del primo cosiddetto decreto sicurezza, gli stranieri irregolari sul territorio italiano sono aumentati da 530mila a 600mila.
Più in generale, Salvini ha spesso diffuso informazioni false sui migranti, aizzato l’odio contro gli stranieri attraverso i suoi profili sui social network e propalato teorie infondate come quella sulla presunta sostituzione etnica del popolo europeo.

(leggi anche: Sulla strada per colpa del “decreto sicurezza”)

 

Fonte: www.ilpost.it

 

 




Ma alla fine, che cos’è questo MES?

In questi giorni è sicuramente l’argomento più caldo sulla scena politica. Lo scorso 7 dicembre c’è stata l’iniziativa della Lega che ha raccolto le firme contro il MES: un mostro di cui tutti parlano, ma del quale nessuno sa dire davvero cosa sia.

Secondo Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) è un meccanismo che serve a salvare le banche tedesche a spese dei cittadini italiani.
Matteo Salvini lo definisce un fondo privato che mette nelle mani di sette burocrati europei, due tedeschi, due francesi, un olandese, un belga e un irlandese il destino dei paesi dell’Eurozona.
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo definiscono un pericolo per i risparmi dei nostri connazionali.

In tanti cavalcano la paura, presentando il MES come un meccanismo da burocrati che peggiorerà le nostre vite e limiterà la nostra libertà.
Ma cosa c’è di vero in tutto questo?

Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o ESM se riferito al nome in inglese) è un’organizzazione intergovernativa dei paesi dell’Area Euro, nata per aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica.
E’ un’istituzione basata sulla solidarietà: tutti si tassano in proporzione alle loro possibilità per evitare che gli stati più deboli diventino insolventi. Ma è anche un sistema indispensabile per difendere l’euro, visto che il fallimento di un Paese può avere ripercussioni da tutti gli altri.

Il MES, nella sua formulazione attuale, esiste dal 2012. Cioè da sette anni.
E questa forse è una notizia che risulterà sorprendente per molti. E tanto per rinfrescare la memoria, la sua istituzione fu negoziata durante il governo Berlusconi-Lega ed entrò in vigore durante il Governo Monti sostenuto, tra gli altri, dalla Meloni.

L’attuale dotazione del MES è di circa 80 miliardi. A costituirla sono stati tutti i Paesi dell’Eurozona in proporzione al loro peso economico. Questo fa sì che la Germania sia il primo contributore, sfiorando il 27% del capitale, oltre ad essere lo Stato che ha le minori probabilità di usufruire degli aiuti.
Il MES può emettere titoli garantiti dagli Stati dell’Eurozona, arrivando a raccogliere liquidità fino a 700 miliardi di euro, da utilizzare per effettuare prestiti alle nazioni che ne facciano richiesta.

Per le regole attuali, cioè quelle in vigore dal 2012 delle quali finora nessuno sembrava essersi accorto, gli Stati che chiedono l’aiuto del MES devono sottostare ai controlli di un comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosidetta Troika) e mettere in campo una serie di riforme imposte dal comitato.
Il piano di riforme prevede di solito misure molto impopolari come tagli alla spesa pubblica, – in particolare alle pensioni – privatizzazioni, liberalizzazioni e maggiore flessibilità delle leggi sul lavoro, puntando al risanamento dei conti.
La logica è: “Se mi chiedo dei soldi io te li presto, ma siccome voglio essere sicuro di riaverli indietro devi fare tutto quello che dico io”.
Può essere un criterio più o meno discutibile, ma sono regole che esistono da 7 anni e sono state già applicate in occasione degli aiuti a Cipro, Portogallo, Irlanda e Grecia (la nazione che ne è uscita più pesantemente segnata).

Dalla sua creazione il MES ha ricevuto grossi apprezzamenti, essendosi rivelato uno strumento adatto ad affrontare le crisi, vista la sua capacità di prestare denaro a Stati che altrimenti non avrebbero potuto ottenere prestiti.
Ma le critiche non sono mancate.
C’è chi accusa il fondo di pretendere sacrifici troppi pesanti in cambio degli aiuti, deprimendo così le economie degli Stati che dovrebbe sostenere. Ma c’è anche l’accusa opposta, cioè di sostenere chi non lo merita, concedendo denaro con troppa facilità ed incoraggiando così Stati meno seri a spendere oltre i propri mezzi. Come si può facilmente intuire, la prima critica arriva dalle Nazioni più a rischio, la seconda arriva da quelle più solide, che sono anche quelle che contribuiscono in modo più consistente.

 

Cosa prevede la riforma

A questo punto dovrebbe essere chiara l’esistenza di due diverse correnti che chiedono riforme del MES: da una parte quella dei Paesi più indebitati che vogliono alleggerire il peso degli adempimenti richiesti a chi si avvale degli aiuti, dall’altra quella dei Paesi ricchi del Nord Europa, che chiedono un inasprimento.
La riforma, discussa a partire dal 2018, cerca di conciliare entrambe le richieste.

La richiesta dei Paesi meno solidi, finalizzata a consentire la concessione di prestiti agli stati che ne avessero bisogno senza obbligarli a riforme pesanti ed impopolari è stata accolta.
Peccato che sia stata accolta anche l’altra richiesta, quella degli stati più ricchi del Nord, che di fatto la rende inutile. Per ottenere credito sarà infatti sufficiente una lettera d’intenti, ma solo a patto di rispettare i parametri di Maastricht. Considerando che 10 stati su 19 membri dell’eurozona non rispettano questi parametri, e che tra questi figura anche l’Italia, per quanto ci riguarda la situazione resterà invariata rispetto alle attuali normative.

Un risultato concreto ottenuto dai paesi più indebitati (Italia in primis) è il meccanismo del backstop.
Di cosa si tratta? Di un fondo comune costituito tra le banche europee, capace di agire autonomamente quando una banca di un Paese dell’eurozona è in crisi, evitando di utilizzare risorse pubbliche per il salvataggio.
Salvini e la Meloni sostengono che il MES porterà via soldi agli Italiani per salvare le banche tedesche: la verità è che i Tedeschi sono stati i più fieri oppositori di questa riforma, sostenendo che fossero le banche di Paesi in difficoltà come l’Italia ad aver bisogno di questi soldi, e che la Germania si sarebbe trovata a finanziare salvataggi in questi Paesi.
Il MES contribuirà a finanziare il Fondo di risoluzione, potendo stanziare fino a 55 miliardi; le banche diventeranno così più sicure.

Un risultato ottenuto dai “rigoristi” del Nord Europa rappresenta invece un effettivo peggioramento dell’accordo, se considerato dal nostro punto di vista, tanto da spingere sia il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, sia il presidente dell’ABI Antonio Patuanelli ad esprimere preoccupazione.
La nuova norma è finalizzata a rendere più facile la “ristrutturazione” del debito pubblico di un Paese che chiede sostegno al MES. Per effetto di questa modifica, i privati che hanno sottoscritto titoli del debito pubblico (quindi di fatto hanno prestato dei soldi allo Stato), potrebbero, nel momento in cui scatterà il pacchetto di aiuti alla Nazione in difficoltà, vedersi rimborsati i titoli sottoscritti solo parzialmente e non per l’intero valore nominale.

Stiamo parlando delle Clausole di Attivazione Collettiva (CACS), della quali Salvini ha dimostrato di non sapere assolutamente nulla, pur utilizzandole come spauracchio per terrorizzare i suo elettori.

Le istituzioni Europee hanno rassicurato i Paesi membri spiegando che la ristrutturazione del debito non sarà automatica e che la riforma nasce per proteggere i governi in caso di default. Il meccanismo prevede la possibilità di ridurre il capitale da rimborsare o gli interessi, oppure posticipare i pagamenti dovuti rispetto alle scadenze.
Le vecchie clausole presupponevano un accordo tra uno Stato alle prese con la ristrutturazione del suo debito e la maggioranza degli investitori. Poiché gli Stati emettono debito in tante emissioni, era finora necessaria una doppia maggioranza: a livello di debito complessivo e in ogni singola emissione.
La riforma del Mes richiede la sola maggioranza a livello complessivo, cioè la single limb. Tutto questo crea una condizione di rischio per i privati.
Come spiegato in precedenza, per accedere agli aiuti del MES bisogna essere in regola con determinati parametri. Gli Stati non in regola potranno beneficiare degli aiuti a patto di impegnarsi ad attuare riforme impopolari per risanare il bilancio. La possibilità di ristrutturare il debito, scaricando sui risparmiatori privati parte del peso, rende più facile l’accesso agli aiuti ma meno sicuro l’investimento in titoli di stato.
Anche senza arrivare ad un provvedimento del genere, la sola esistenza di questa norma potrebbe scoraggiare gli investitori a sottoscrivere titoli dei Paesi più indebitati, costringendoli ad aumentare i tassi per continuare a finanziarsi.

Il MES è un circolo privato?

Questo trattato mette 124 miliardi di Euro degli Italiani nella mani di sette burocrati europei: due tedeschi, due francesi, un olandese un belga e un irlandese che possono discrezionalmente decidere chi aiutare e non aiutare con quei soldi.          MATTEO SALVINI

Cosa c’è di vero in questa affermazione? Niente.

Intanto le somme versate dall’Italia al MES si limitano a poco più di 14 miliardi, pari al 17% del fondo. I 124 miliardi rappresentano il capitale sottoscritto ma non versato. Se davvero si rendesse necessario per l’Italia versare i residui 110 miliardi, questo vorrebbe dire che la Germania ne verserà 160, la Francia 120 e così via.

Chi comanda nel MES?
Il MES è guidato da un “Consiglio dei Governatori” composto dai 19 Ministri delle finanze dell’area dell’euro. Il Consiglio assume all’unanimità tutte le principali decisioni (incluse quelle relative alla concessione di assistenza finanziaria e all’approvazione dei protocolli d’intesa con i paesi che la ricevono).
Le decisioni meno importanti richiedono comunque una maggioranza pari all’85% del numero di quote sottoscritte.
Considerando che l’Italia detiene il 17% delle quote, ha di fatto potere di veto: questo vuol dire che il MES non potrà mai prendere una decisione che non sia condivisa anche dal Governo Italiano.

Già, ma il Governo conosce le proprie decisioni? A questo punto si dovrebbe rispondere che non è sempre così, o almeno non lo è per tutti i Governi, considerando che le attuali modifiche sono state concordate nel 2018 dal Governo Conte 1 e dai vice premier Salvini e Di Maio.

Cioè gli stessi che adesso alzano barricate e raccolgono firme chiedendo di non ratificare le modifiche concordate dal loro Governo.

 

 

 

 

 




L’insostenibile leggerezza del Decreto Sicurezza

Il decreto legge chiamato Sicurezza e immigrazione (d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, approvato dal Senato il 7 novembre 2018 e convertito in legge 20 giorni dopo) è legge dello Stato da più di 12 mesi.
Fu fortemente voluto dall’allora Ministro degli Interni, che, bontà sua, definì il provvedimento un regalo al Paese fatto di «un po’ di regole e un po’ di ordine».

E malgrado il bon ton imponga che «a caval donato non si guardi in bocca», il «regalo» è stato dettagliatamente esaminato, e sono di questi giorni i dati, resi disponibili dallo stesso Viminale, che ne descrivono la ricaduta i termini di efficacia e risultati. Li hanno raccolti in un rapporto reso pubblico qualche giorno fa Openpolis e ActionAid. Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante.

I dubbi, da subito, sull’effettività del decreto

Ci stupiamo? Ma da subito dalla nuova disciplina emergeva una serie di interrogativi e dubbi sull’applicabilità in concreto delle misure adottate.

In particolare, a decreto convertito, su queste pagine Stela Xhunga poneva 4 domande che a suo avviso avrebbe dovuto farsi chi ne era sostenitore. Partiamo da quelle, e vediamo se, a un anno di distanza, quei dubbi erano legittimi.

 

Con quali soldi il Governo intende rimpatriare gli irregolari?

Non vi è dubbio, la politica dei rimpatri è stata fallimentare; in campagna elettorale Matteo Salvini aveva promesso 600mila rimpatri ma i dati del Viminale danno cifre diverse: 3.299 rimpatri portati a termine a luglio 2019, a oggi ne sono stati disposti 27mila ed eseguiti 5.600. Si tratta di cifre più basse rispetto (non solo alle promesse ma anche) a quanto eseguito nei due anni di governo precedenti (7.383 nell’anno 2017 e 7.981 nel 2018).

Come sottolinea Openpolis, di questo passo, «anche nell’ipotesi impossibile di zero arrivi nei prossimi decenni, occorrerà oltre un secolo e oltre 3,5 miliardi di euro (5.800 euro a rimpatrio) per rimpatriarli tutti».

Tre miliardi e mezzo di euro! Per rimpatriarli tutti… Già, tutti. Ma quanti sono?

Immigrati irregolari: la «sicurezza» è il loro numero in aumento

Come emerge dallo studio sopra citato – che, sia detto tra parentesi, risulta una fonte straordinaria di dati – le nuove norme, nate per l’espressa volontà di contrastare la cosiddetta “emergenza migranti”, concorreranno «paradossalmente a crearne un’altra, quella degli irregolari presenti sul nostro territorio».  Si stima infatti che il numero degli irregolari potrà arrivare a 680mila entro il 2019 e superare i 750mila a gennaio del 2021.

È questa la conseguenza più immediata ed evidente dell’abolizione della protezione umanitaria, che diventa così una vera e propria emergenza di cui occorrerà farsi carico da subito. L’abrogazione dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 1 del decreto) si è tradotta infatti nell’aumento immediato della percentuale dei “diniegati” (coloro ai quali viene negato il riconoscimento di una forma di protezione internazionale), che passano dal 67% nel 2018 all’80% nel 2019: in numeri assoluti 80mila persone che rischieranno di essere estromesse dal sistema e destinate ad aggiungersi alla popolazione degli irregolari.

Il permesso per motivi umanitari, che durava fino a 2 anni, portava con sé importanti effetti: consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Che ora vengono meno. E si arriva così a rispondere a un’altra delle domande da noi poste un anno fa.


Che fine faranno gli operatori che lavorano regolarmente nell’accoglienza?

Verranno licenziati.

Il 31 dicembre scadranno infatti i finanziamenti destinati ai progetti di accoglienza del Sistema “diffuso” di protezione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia (gli Sprar, gestiti con i Comuni). Questi sono stati fortemente ridimensionati, e oggi i richiedenti asilo sono affidati ai nuovi Cas (gestiti dalle prefetture) che garantiscono di fatto solo vitto e alloggio, senza alcuna previsione di servizi per l’inserimento economico e sociale (a cominciare, per esempio, dall’insegnamento della lingua italiana).

Cancellati i centri di accoglienza, viene meno anche una lunga lista di figure professionali: si stima che resteranno senza lavoro circa 18 mila persone tra infermieri, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali e insegnanti, quasi tutti giovani e laureati.

Come è stato scritto: «Una bomba sociale, che supererebbe anche il buco occupazionale che potrebbe crearsi con la chiusura dell’ex Ilva» di cui tanto si parla in questi giorni.

 

Fonte: Peopleforplanet.it




Cosa sta succedendo in Italia?

Un’analisi lucida, documentata e precisa. E proprio per questo spaventosa.

 

10 cose che abbiamo imparato dall’assassinio del carabiniere a Roma.

1) Quando si tratta di divulgare una notizia dell’ultima ora, i media tradizionali non mettono grande attenzione nella redazione dei titoli e dei contenuti. Informazioni approssimative e non verificate sono gridate nei titoli al pari di notizie certe e documentate. La natura delle fonti è spiegata malamente, quando non del tutto ignota e ignorata. Versioni sbagliate sono corrette a stento, non con rettifiche ufficiali ma semplicemente modificando ex post parti del testo.

 

 

 

Dai media più noti, l’inesattezza si riversa a cascata su tutti gli altri mezzi di informazione con una rapidità incontrastabile. Poiché è nelle prime ore che il pubblico dedica alla notizia la massima attenzione, nessuna rettifica successiva potrà penetrare altrettanto in profondità nell’opinione pubblica, che rischia di assorbire la falsa informazione in modo permanente. Tale disinformazione “a valanga” non è inevitabile ma è frutto di scelte precise da parte degli operatori dell’informazione.

 

2) I leader della maggioranza e i loro spin doctor sfruttano senza esitazione qualsiasi fatto di cronaca potenzialmente utile a rafforzare la narrazione securitaria, autoritaria e razzista, incuranti delle vittime, della verità e delle conseguenze. A tale scopo, non si fanno scrupolo di utilizzare informazioni provvisorie e non verificate, quando non palesemente false. Nel farlo, possono facilmente invocare di aver tratto tali informazioni dai media tradizionali, attribuendo a questi ultimi la responsabilità della disinformazione.

 

Tuttavia, gli stessi leader gialloverdi contribuiscono a orientare i media verso la disinformazione (basti pensare alla Rai sovranista).

 

3) Senza scomodare i leader della maggioranza, esiste un enorme sottobosco di influencer grandi e piccoli (giornalisti, politici in cerca di poltrone, falsi esperti che sgomitano nei blog e nei salotti televisivi, accademici falliti) che si adopera per alimentare la narrazione autoritaria della propaganda gialloverde. Una ciclopica macchina del fango che vive di vita propria e non ha nemmeno bisogno di essere attivata dai suoi beneficiari.

 

 

La rete trabocca di interventi che incitano all’odio, alla discriminazione e alla sospensione di pezzi dello stato di diritto da parte di personaggi più o meno “famosi” che ammiccano ai potenti. Non solo la propaganda trova nella cronaca nera una riserva infinita di argomenti, ma è anche sostenuta da un esercito di “volontari” a costo zero.

 

4) A tale “offerta” di propaganda e disinformazione, corrisponde una “domanda” altrettanto attiva. Il pubblico si beve ormai qualsiasi cosa, non solo perché non ha i mezzi per distinguere il falso dal vero. Il popolo è assetato di sangue e ha bisogno di conferme a sostegno dei suoi orientamenti cognitivi. Gli immigrati sono criminali, gli studiosi sono al soldo delle multinazionali, chi professa buoni sentimenti è un ipocrita che persegue loschi obiettivi, chi salva vite in mare è pagato dalla lobby ebraica e i mali italiani sono colpa di oscure potenze straniere. La propaganda fa facile presa sugli italiani perché gli italiani hanno un disperato bisogno di essa. Per molti, questa narrazione distopica alimenta una speranza malata: quella che, liberandoci dal giogo dei poteri forti che ci opprimono, conosceremo un boom economico senza precedenti, in cui le risorse cadranno dal cielo senza fare distinzioni tra chi merita e chi no.

 

5) Per tale motivo esiste una vasta quota della popolazione che, anche dopo che la falsa notizia è stata smentita dall’evidenza, decide di credervi comunque. L’impatto della falsa notizia è irreversibile, per loro. Fate un giro sui social per vedere quante persone credono che l’arresto degli studenti americani sia un’operazione dei servizi segreti per nascondere la vera nazionalità dell’assassino, con lo scopo di evitare tumulti di piazza (o sostenere il piano di sostituzione etnica ordito dalla lobby ebraica, secondo le versioni).

 

Non è che l’inizio. La sete di sangue e la necessità politica di alimentare tale sete (la domanda e l’offerta di propaganda autoritaria, in altre parole) sono destinate a salire di livello. La rete oggi pullula di persone che invocano la pena di morte, sapientemente aizzate da un leader che chiede “lavori forzati” e ricorda che “negli Stati Uniti chi uccide rischia la pena di morte. Non dico di arrivare a tanto ma…”.

 

6) La narrazione autoritaria e razzista del governo non ha una connotazione esclusivamente “distruttiva” come sembra. Non si limita a indicare nemici immaginari su cui indirizzare l’odio del popolo per catalizzare consenso. Implicitamente, suggerisce che una volta sconfitti tali nemici (l’Europa, i poteri forti, gli immigrati, la lobby ebraica, gli studiosi, eccetera), il popolo avrà il suo riscatto dalla crisi che tuttora l’attanaglia e godrà di un benessere senza precedenti.

Il governo propone quindi una visione del futuro che, seppur confusa e priva di fondamento, instilla anche una qualche dose di speranza nei suoi tifosi spaventati. Credere, obbedire, combattere per ottenere, in un futuro non meglio definito, la ricompensa. Le analogie coi regimi autoritari del passato sono ogni giorno più evidenti. L’unico modo per scardinare tale narrazione nell’immaginario del pubblico è contrapporgli una visione alternativa del futuro che sia altrettanto allettante, oltre che compatibile con la democrazia. Tuttavia, l’opposizione è annichilita e lascia che sia la propaganda a dettare l’agenda.

 

7) Non possiamo più ignorare il fatto che una frazione delle forze dell’ordine sembra disponibile ad alimentare la propaganda autoritaria. Le questure fanno filtrare materiali riservati che non dovrebbero giungere al pubblico. La foto segnaletica di Carola Rackete. Lo studente americano bendato e ammanettato: spunti preziosi per la propaganda, che infatti Salvini ha utilizzato senza scrupoli nei suoi post, a supporto della narrazione securitaria e autoritaria.

 

Ma non solo: alcune frange delle forze dell’ordine contribuiscono a diffondere in rete anche le false notizie. Come ha documentato Simone Fontana , la falsa notizia della cattura di quattro nordafricani è stata pubblicata da un collega della vittima e diffusa da un agente della Guardia di Finanza, che ha esposto le foto dei presunti colpevoli sulla sua pagina Facebook incitando al linciaggio. La bufala è stata cancellata troppo tardi, quando i volti dei 4 innocenti erano diventati ormai virali sollevando l’ennesima ondata di indignazione contro gli immigrati.

 

8) Né possiamo ignorare che una parte delle forze dell’ordine mostri una insofferenza crescente per le garanzie democratiche e manifesti (non solo sui social, ma anche in alcune dichiarazioni ufficiali) una adesione talvolta sfacciata alla causa autoritaria. La rimozione sistematica degli striscioni dissenzienti, il sequestro dei telefoni degli autori dei “selfie di protesta”, le minacce ai manifestanti, il pestaggio del cronista di Repubblica, il capo della Polizia che legge “come un segno di attenzione nei nostri confronti” la mania del ministro di travestirsi da poliziotto, il leader del sindacato autonomo che rivela l’esistenza di “un connubio indissolubile tra Lega e Polizia”.

Questo circuito fatto di media approssimativi e talvolta deliberatamente complici, leader autoritari e senza scrupoli, una parte (non ci è dato di sapere quanto numerosa) di forze dell’ordine compiacenti, e un popolo largamente obnubilato dalla propaganda e sempre più assetato di sangue è quanto di più pericoloso per la democrazia.

 

9) A Roma esiste un problema di ordine pubblico che non suscita il minimo interesse nelle persone che dovrebbero affrontarlo, cioè la sindaca Raggi e il ministro dell’interno, né nell’opposizione (che a Roma è particolarmente inesistente). Se il territorio è abbandonato dalle istituzioni e impantanato in uno sfacelo civico capillare e profondo, la criminalità prospera a ogni livello. Si va dai quartieri controllati dai clan a Ostia e Roma Est alle strade del centro pattugliate da spacciatori e truffatori di piccolo taglio. Tutti democraticamente accomunati dall’invasione della spazzatura.

 

10) Mentre alimenta la sete di sangue dei tifosi e rafforza la coesione del popolo contro nemici immaginari, la propaganda distrae dalle notizie scomode, come i finanziamenti russi alla Lega, e dalle vere emergenze che dovremmo affrontare. Il dibattito è polarizzato da storie prive di fondamento, come il Pd “partito di Bibbiano” e la caccia a fantomatici criminali nordafricani, o da pantomime ridicole che non dovrebbero interessare a nessuno (per esempio il “mandato zero” dei grillini). Discorsi che non incidono in alcun modo sul benessere del paese reale. Solo una èlite minuscola, e villipesa dai più, si è resa conto che l’Italia rischia concretamente di uscire dall’euro e per la prima volta dal dopoguerra si sta allontanando dal consesso delle democrazie occidentali.

La realtà e la storia ci presenteranno il conto e sarà salatissimo, ma a pagarlo non saranno le persone che ci hanno portato in questo disastro.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

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La Flat tax è dannosa e viola la Carta senza la lotta all’evasione

Ma davvero la flat tax è una cattiva idea perché a proporla è la Lega?

Cominciamo col dire che il cosiddetto “contratto di governo” prevede una “flat tax caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse, con un sistema di deduzioni per garantire la progressività dell’imposta, in armonia con i principi costituzionali”. Il sistema dovrebbe articolarsi secondo “due aliquote fisse al 15% e al 20% per persone fisiche, partite Iva, imprese e famiglie”, facendo salva una no tax area per i bassi redditi e una deduzione fissa per le famiglie.

Due aliquote e non una sola, che davvero contrasterebbe con la Costituzione, secondo cui “il sistema tributario è informato a criteri di progressività” e “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53). Se bastino due aliquote (e in particolare al 15% e al 20%) a soddisfare il criterio progressivo, la Costituzione non lo dice, ma specifica che la finalità della tassazione è coprire le spese pubbliche, intendendo ovviamente per tali, in primissima istanza, quelle intese a soddisfare i diritti costituzionali dei cittadini (per esempio la scuola pubblica statale, la sanità pubblica, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, la ricerca scientifica e la promozione della cultura).

Tali diritti fondamentali, incluso il diritto al lavoro (art. 4), sono essenziali per realizzare il fine supremo della Carta, la “pari dignità sociale” dei cittadini, cioè la loro uguaglianza sostanziale (art. 3). Concorrere alle spese pubbliche pagando le tasse è pertanto uno dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” prescritti dall’articolo 2.

Noi italiani paghiamo troppe tasse? Un recentissimo rapporto Ocse consente un agevole confronto con altri Paesi. Se ne può trarre una tabella di massima, eloquente anche se limitata a Francia, Germania e Usa (vedi figura).

Come si vede, c’è molta varietà: gli scaglioni di reddito tassabile sono sei negli Usa, cinque in Italia, quattro in Francia, tre in Germania. Il reddito minimo de-tassato (no tax area) è più basso in Italia, e inoltre da noi è più alta l’aliquota sui redditi più bassi: 23% contro il 12% degli Usa e il 14% di Francia e Germania. Molto diversa è la soglia di reddito considerata più alta: in Italia basta superare i 75.000 euro per raggiungere l’aliquota più alta (43%), in Francia e Germania l’aliquota massima è 45% per i redditi oltre i 156.000 euro (Francia) o i 260.000 euro (Germania). Per non dire degli Usa, dove solo i redditi superiori a 500.000 raggiungono l’aliquota massima, relativamente modesta (37 %).

Per fare un solo, sommario esempio pratico, un reddito di 60.000 euro annui è tassato assai diversamente nei vari Paesi, più o meno così: l’esborso sarebbe di 19.300 euro in Italia; 13.600 in Francia; 9.800 in Germania; e 8.000 dollari negli Usa.

Se poi si tiene conto delle detrazioni da familiari a carico (assai maggiori, per esempio, in Francia), questa differenza è ancor più marcata. Come mai, allora, il fisco francese incassa molto più di quello italiano? Semplice: perché l’evasione in Francia è sempre inferiore al 15% sul gettito fiscale complessivo, mentre in Italia veleggia intorno al 30%.

È vero, una forte diminuzione delle imposte avrebbe effetti positivi come l’accresciuta capacità di spesa e d’investimento. Ma per compensare il diminuito gettito fiscale non ci sono che due strade: o ridurre drasticamente la spesa pubblica, e dunque privare i cittadini di servizi e diritti (dalla scuola alla sanità), oppure combattere duramente e subito l’evasione fiscale, come del resto proclamava il “contratto di governo” parlando, anche se un po’ confusamente, di “recupero dell’elusione, dell’evasione e del fenomeno del mancato pagamento delle imposte”.

Secondo il recentissimo rapporto di Tax Research LPP(Gran Bretagna), l’evasione fiscale in Italia sarebbe fra 124,5 e 132,1 miliardi di euro l’anno, portando il nostro Paese al primo posto in Europa e fra i primi al mondo. Così è da decenni, e nessun governo, di nessun colore politico, ha provato a porvi rimedio. Perciò di flat tax non si dovrebbe parlare nemmeno per scherzo, se non dopo aver lanciato serie ed efficaci misure per il recupero delle tasse dovute e non pagate. Perciò la campagna che il Fatto sta conducendo per la lotta all’evasione fiscale è meritevole e necessaria. Sostenere, come alcuni fanno, che la flat tax porterebbe per propria virtù alla fine dell’evasione è stolto e irresponsabile: un tal risultato è altamente improbabile e richiederebbe comunque anni e anni di fortissima riduzione della spesa pubblica (o aumenti di altre imposte), con gravissime conseguenze politiche e sociali.

La Lega di Salvini eccelle negli slogan, ma non sa fermarsi a pensare. Anche la flat tax è uno slogan ripetuto ossessivamente, come se davvero si potesse fare senza affrontare con decisione il bivio fra il crollo della spesa pubblica, e dunque dei diritti, e la lotta all’evasione. Ma agitare slogan anziché proporre ragionamenti e progetti è un’abitudine condivisa, su altri fronti, anche dal M5S.

Giustissimo, ad esempio, sarebbe (sarà ?) fermare le “grandi opere” inutili: ma di fronte all’argomento-principe dei pro-Tav, dar lavoro alle persone e alle imprese, perché non lanciare una strategia alternativa? Perché non argomentare, in concreto, che si devono dedicare risorse, manodopera, capitali e saperi alla primissima Grande Opera di cui l’Italia ha bisogno, la messa in sicurezza del territorio, il più fragile d’Europa per sismicità, franosità, carenza di manutenzione e di cura delle coste, dei corsi d’acqua, delle valli?

In un’Italia più simile a quella che vorremmo, una sana alleanza di governo potrebbe cercare una strada analizzando i dati e progettando il futuro. Sì a una revisione delle aliquote, purché calibrata sul recupero dell’evasione fiscale. No alle grandi opere inutili, purché sostituite dalla Grande Opera di salvataggio del suolo italiano. Speranze vane? È probabile: perché forse quel che cementa il litigiosissimo matrimonio d’interesse degli alleati di governo non è il loro “contratto” ma lo scontro fra opposti slogan lanciati spesso alla cieca. Non la condivisione di ragionamenti e di progetti, ma un perpetuo sbandieramento di parole.

 

Articolo di Salvatore Settis sul Fatto Quotidiano del 4/7/2019