I manager bancari: strapagati a prescindere dai risultati

Le critiche al mega stipendio del futuro Ad di UniCredit non sono un caso. Dall’Italia alla Svizzera, le paghe dei manager ormai slegate dai risultati


Deve ancora entrare in ca­rica, ma il nuovo ammini­stratore delegato di Uni­Credit Andrea Orcel ha già scatenato un putiferio. Le so­cietà di consulenza Glass Lewis e Iss consigliano agli azionisti della banca milanese di bocciare la po­litica di remunerazione nell’as­semblea del 15 aprile per protesta­re contro i 7,5 milioni di paga del nuovo capo azienda. La banca chiede però di modificare anche le politiche sulle liquidazioni, au­mentandone il tetto da 7,2 a 15 mi­lioni (sei volte lo stipendio annua­le).

Dunque il “Ronaldo dei ban­chieri” già prima di scendere in campo s’è accaparrato almeno 22,5 milioni. Il suo predecessore Jean Pierre Mustier nel 2020 ha ricevuto “solo” 900 mila euro più stock option per altri 4,4. Molto meno della mega-liquidazione da 40 milioni pagata nel 2010 ad A­lessandro Profumo. A far discu­tere è il fatto che nel primo anno Orcel sarà pagato senza alcun col­legamento coi risultati aziendali.

Prima dell’arrivo di Orcel, in Italia divario tra stipendi dei vertici e quelli dei dipendenti delle banche era in calo. Secondo la Uilca, il sin­dacato dei bancari della Uil, nel 2007 i ceo delle banche quotate guadagnavano in media 139 volte lo stipendio medio dei dipendenti (28mila euro lordi l’anno), nel 2019 “appena” 44 volte. C’è chi, come Carlo Messina di Intesa San­paolo, dall’entrata in carica a set­tembre 2013 a oggi ha ricevuto ol­tre 23,5 milioni ottenendo però u­tili netti per 21,4 miliardi. Il ceo di Unipol Carlo Cimbri nel 2019 è stato pagato 5,6 milioni, il 26% in più dei 4,47 del 2018, ma a fronte di utili netti cresciuti del 73% da 0,63 a 1,09 miliardi.

Tuttavia non sono mancati manager la cui retribuzio­ne è stata una “variabile indipen­dente” rispetto ai risultati. Victor Massiah, Ad di Ubi dal primo di­cembre 2008 al 3 agosto scorso, ha ricevuto oltre 19,2 milioni mentre la banca nello stesso periodo ne perdeva 952. Nonostante la perdi­ta netta di 57 milioni, nel 2018 la paga di Giuseppe Castagna, ceo di Banco Bpm dal primo gen­naio 2017, è aumentata di 124mila euro a 1,63 milioni.

Marco Morelli, ad di Mps da settembre 2 016 a maggio 2020, per volere della Bce dovette ridursi lo stipendio da ol­tre un milione a 488mila euro ma dal 2017 al 2019 perse 4,2 miliardi. Quisquilie rispetto a quanto avviene nella finanza all’estero. Charles Lowrey, presidente e AD Prudential, nel 2019 è stato pagato circa 16 milioni. Larry Fink, ceo di Blackrock il maggior gestore di fondi mondia­le, nel 2020 di milioni ne ha otte­nuti 25 e 7,9 Mario Greco, ceo del­le assicurazioni Zurich. Il numero uno di Allianz Oliver Bate ha gua­dagnato 5,35 milioni, il ceo di Axa Thomas Buberl e quello di Gene­rali, Philippe Donnet, 3,1 più a­zioni per 2,3. Il capo azienda di Credit Suisse Thomas Gottstein nel 2020 ha ottenuto 7,6 milioni. Il fenomeno parte da lontano.

A Wall Street nel 1965 un ammini­stratore delegato riceveva 20 volte la paga media dei suoi dipendenti. Nel 2000 era a 344 volte, scese a 188 con la crisi finanziaria del 2009 per tornare a 312 nel 2017, quando la retribuzione dei ceo del­le 350 maggiori aziende era in me­dia di 18,9 milioni di dollari. Ma le prime cinque banche Usa (Gol­dman Sachs, Citigroup, JP Mor­gan Chase, Bank of America e Morgan Stanley) pagavano i loro ceo in media 25,3 milioni. Secondo un report della società di head hunting Willis Towers Watson su­gli stipendi dei ceo di 429 società quotate, nel 2019 negli Stati Uniti i capi azienda guadagnavano in me­dia 11,88 milioni, nel Regno Unito 5, in Germania 5,7, in Francia 4,1 e in Giappone appena 1,55. Ma a fare la differenza sono i bonus: nel 2019 negli Usa gli incentivi variabili valevano il 72% della paga totale dei ceo. Quest’anno però Bank of A­merica (Bofa) e Citigroup hanno ridotto i compensi degli ad per il 2020 a causa della pandemia e di errori di gestione. Bofa ha ridotto la paga di Brian Moynihan del 7,5% a 24,5 milioni; Citigroup quella dell’uscente Michael Cor­bat del 21% a 19 milioni.

LA FISAC, il sindacato dei bancari Cgil, ha calcolato che tra il 2008 e il 2019 il personale dell’intero siste­ma bancario italiano è costato 292,2 miliardi, in media 25,1 l’anno, dai 26,6 del 2008 ai 23,5 del 2019. Il da­to comprende stipendi e al­tri costi come oneri di ri­strutturazione e incentivi all’esodo. Nello stesso pe­riodo infatti i bancari sono calati di 46 mila unità, uno su sette, da 328 a 282mila.

Nell’ultimo decennio non è che le azioni delle banche abbiano brillato: l’indice settoriale a Milano è passa­to dai 19mila punti dell’a­prile 2011 agli attuali 8.745. Una frenata analoga ha ri­guardato anche le banche svizzere e quelle di altri Pae­si. Le elvetiche Credit Suisse e Ubs hanno pagato i dipen­denti oltre 297miliardi, più di tutte le banche italiane. A fare la differenza è il peso della finanza: Cs e Ubs pa­gano mega-bonus legati ai risultati, mentre le banche italiane restano dipendenti dalle vendite allo sportello. Quand’era capo del Corporate and Investment ban­king di Ubs, Orcel otteneva premi annuali per decine di milioni, più dello stesso AD Ermotti. Ora in U­niCredit nessuno prenderà più di lui, ma molti temono la sua scure sui costi del personale.

Articolo di Nicola Borzi sul Fatto Quotidiano del 3/4/2021




MPS, Banco BPM, UBI e BPER: nuove aggregazioni in vista?

Quattro banche di media dimensione in Italia sono troppe? Mps, Ubi Banca, BancoBpm e Bper: entro un anno i quattro gruppi bancari diventeranno due, dopo l’auspicato (dalla Vigilanza europea) ma sempre rinviato processo di aggregazione? Due eventi in calendario nelle prossime settimane, sommati al contesto economico sfavorevole in Italia e alle attuali mini-valutazioni di mercato delle quattro banche – che complessivamente valgono in Borsa quasi 9 miliardi di euro ma quotano solo 0,3-0,5 volte il patrimonio netto – inducono a pensare che il riassetto potrebbe davvero partire nella seconda metà dell’anno.

Il primo evento da tenere presente sono le imminenti assemblee dei soci, in cui i manager si troveranno a indicare le prospettive ad azionisti che – almeno per Ubi, BancoBpm e Bper – non sono più i vecchi soci delle cooperative ma gli investitori istituzionali che controllano oltre il 50% del capitale delle nuove società per azioni. Si comincia domani con BancoBpm, per proseguire l’11 aprile con Banca Mps, il 12 aprile con Ubi Banca e chiudere il 17 aprile con Bper. Solo in Ubi Banca sarà rinnovato il cda che così, con un triennio davanti, potrà decidere che ruolo giocare nel riassetto che sta per aprirsi. Il ceo Victor Massiah ha più volte detto che la banca valuta aggregazioni e ora sta arrivato il tempo di fare le scelte. Ma anche i vertici delle altre tre banche, a partire da Mps controllata dallo Stato, non potranno evitare di spiegare in assemblea agli investitori se si punta davvero a uno scenario di aggregazioni. E c’è da credere che proprio a Siena, il ceo di Mps Marco Morelli darà conto agli azionisti di tutte le riflessioni già avviate da parte del cda in materia di alleanze.

Il secondo evento scatenante del riassetto sta proprio a Siena. O meglio, a Roma. Il Governo ha l’obbligo da giugno in poi, e comunque entro dicembre di quest’anno, di codificare in un documento da inviare alla commissione Ue le modalità con cui intende procedere all’uscita dal capitale del Monte entro la scadenza del 2021. L’ipotesi della diluizione della quota attraverso l’aggregazione di Mps con un’altra banca è la soluzione più probabile e destinata a far scattare la scintilla del riassetto. Si farà avanti di nuovo Ubi? O BancoBpm? O la Bper a trazione Unipol? Tutte le principali banche d’affari stanno cercando di posizionarsi in vista del «gioco delle coppie» bancario che sta per aprirsi. Siamo ancora nella fase preparatoria, quella in cui «tutti parlano con tutti», ma anche tra i vertici delle banche coinvolte, da quanto trapela, sarebbero già partiti i primi sondaggi esplorativi.

Gli ostacoli alle fusioni, come sempre, sono la governance e la sede dell’headquarter. Ma i timori per la redditività futura, oltreché per gli ingenti investimenti da sostenere per un vero passaggio al digital banking, stanno imponendo una revisione dell’agenda. Soprattutto alla luce dello scenario macroeconomico che si va delineando per l’Italia, con le inevitabili ricadute per i bilanci bancari. Il margine di interesse è destinato a restare sotto pressione: l’atteso rialzo dei tassi non ci sarà e la domanda di credito, complice un’economia quantomeno stagnante, è destinata a frenare. L’attenzione al mix tra evoluzione dei Risk weighted asset (Rwa) e l’assorbimento di capitale porterà, anche a seguito dell’addendum Bce, a concentrare i prestiti alla clientela con il miglior merito di credito, più «tranquilla» ma meno remunerativa per le banche.

Se questo è lo scenario per gli impieghi nel biennio 2019-2020, anche sul lato del funding c’è poco da essere ottimisti. Il rischio Italia si fa sentire e le (poche) banche che negli ultimi sei mesi si sono affacciate sul mercato per collocare bond Tier2 hanno dovuto pagare tassi quasi doppi rispetto a un anno fa. A fine 2018 la Bce varerà la nuova Tltro, che servirà a gestire in modo ordinato le scadenze dei bond bancari. Ma non c’è dubbio che, tenendo anche conto delle emissioni Mrel da effettuare nei prossimi anni, il costo medio della raccolta è destinato ad aumentare. Difficile invece che la liquidità in arrivò dalla Tltro possa essere dirottata, come è stato fatto nelle precedenti occasioni, nell’acquisto di BTp stanti le pressioni della Vigilanza a diversificare l’esposizione ai debiti sovrani.

Quello che si va prefigurando non è uno scenario di tempesta, a meno di una vera e propria recessione che farebbe riesplodere anche il nodo degli Npl, ma è certamente pregiudizievole della redditività futura. E tale da far considerare i vantaggi dalle sinergie di costo che si otterrebbero in caso di aggregazione.

 

Fonte: ilsole24ore.com




MPS: tutta colpa di chi esce in orario

Apprendiamo dalla Stampa di una dichiarazione dell’Amministratore Delegato Dott. Morelli che attribuirebbe la responsabilità per la difficile situazione aziendale al rispetto da parte dei Lavoratori dell’orario di uscita, contrattualmente previsto dal CCNL di Settore.

Quanto riportato nell’articolo sopra richiamato, oltre che una evidente caduta di stile, ci sembra in netta controtendenza rispetto alle scelte aziendali sulle mancate autorizzazioni del lavoro straordinario. Tale affermazione sarebbe, inoltre, un segnale di grossa incoerenza riguardo all’attenzione sui costi del personale e alle dichiarazioni fatte dallo stesso AD rispetto alla qualità, alla professionalità ed al senso di appartenenza dei Lavoratori del Gruppo Montepaschi, i quali troppo spesso si sono trovati invece a dover gestire situazioni in cui le preposte Funzioni aziendali si sono sfilate lasciandoli soli e senza una guida.

Chiediamo, quindi, all’Azienda di rettificare prontamente quanto riportato dagli Organi di Stampa, affinché sia mantenuto un adeguato livello di Relazioni Industriali e che il lavoro svolto fino ad oggi non sia vanificato da dichiarazioni che non sono necessarie, soprattutto visti gli impegni che ci attendono nei prossimi mesi.

Ribadiamo infine che, nonostante il contesto, è solo grazie all’impegno costante ed alla dedizione giornaliera di tutti i Lavoratori se il Gruppo MPS ha potuto superare le recenti complessità.

Siena, 8 marzo 2018

LE SEGRETERIE