Cassazione: legittimo il licenziamento del bancario che spia i conti dei clienti Vip

La Suprema corte, sentenza n. 34717 depositata oggi, ha respinto il ricorso di un addetto al servizio clienti allontanato per “accesso abusivo al sistema informatico”


 

È legittimo il licenziamento del ‘bancario’ che si metta a curiosare tra i conti correnti dei Vip in assenza di qualsivoglia autorizzazione. Lo ha stabilito la Sezione Lavoro della Corte di cassazione, sentenza n. 34717 depositata oggi, rigettando il ricorso un addetto al servizio clienti della filiale Unicredit di Foggia.

A seguito di una segnalazione da parte della Outgoing Foreign Payments Office di UBIS (società del gruppo UniCredit), la banca, avuto contezza del comportamento scorretto e dell’assenza di alcuna autorizzazione, aveva contestato al dipendente “l’accesso abusivo o comunque non consentito, al sistema informatico della Banca per controllare decine di schede-cliente di personaggi dello spettacolo carpendone quindi i dati sensibili”. E poi lo aveva licenziato.

Il dipendente era stato poi reintegrato dal Tribunale di Foggia ma la Corte di appello di Bari, rovesciando il verdetto, aveva confermato il licenziamento, condannandolo anche alla restituzione delle eventuali somme percepite a titolo indennitario. Proposto ricorso in Cassazione, aveva sostenuto, tra l’altro, che siccome la banca non aveva in alcun modo protetto i dati contenuti nella “scheda cliente”, egli aveva ritenuto di “non violare i dati sensibili altrui”.

Per la Suprema corte però il motivo non convince: “Il potere di disporre di strumenti informatici volti al compimento delle operazioni finanziarie presso un istituto bancario – si legge nella sentenza – non è di certo sinonimo di accesso indiscriminato a banche dati. Né si può ritenere, nel caso di specie, che sussista un onere di impedire l’accesso a tali dati da parte della banca, che, stante il rapporto fiduciario tra datore e prestatore di lavoro, conceda l’utilizzo di tali strumenti informatici ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita durante la prestazione lavorativa”.

Bocciata dunque definitivamente la tesi del ricorrente che, scrive la Corte, “ancora una volta, tenta di invocare una sorta di esimente per elidere l’illiceità del suo comportamento, imputando paradossalmente alla banca la mancata predisposizione di adeguate protezioni dei dati dei clienti”.

 

Fonte: ntpulsdiritto.ilsole24ore.com




Lo stalking alla collega costituisce giusta causa di licenziamento

Il compimento di atti persecutori ai danni di una collega, pur avvenuto al di fuori dell’ambiente di lavoro, lede il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento.


 

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1890/2020, ha ritenuto che costituisca giusta causa di licenziamento il compimento di molestie ai danni di una collega, anche se avvenute fuori dal luogo di lavoro, considerandole irreparabilmente lesive del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.
Il caso di specie vedeva protagonista un dipendente che, per diversi anni, aveva indirizzato reiterate molestie e minacce ad una collega di lavoro con cui aveva intrattenuto una relazione sentimentale. Tale condotta era infine sfociata in un invio assillante di messaggi minacciosi alla donna, nonché di foto e filmini a contenuto erotico al marito della stessa, fino ad arrivare alla diffusione del suo numero di telefono nei bagni di vari luoghi pubblici con l’invito a contattarla per prestazioni sessuali. Questa situazione aveva portato la donna a temere per la propria incolumità e per quella del marito, oltre ad averle provocato un malessere psico-fisico tale da costringerla a cambiare le proprie abitudini, risultandole intollerabilecontinuare a lavorare nello stesso ambiente dell’uomo. Quest’ultimo, peraltro, veniva condannato in sede penale per il delitto di atti persecutori ex art. 612 bis del c.p., c.d. stalking.

Il datore di lavoro, ritenendo il comportamento descritto irreparabilmente lesivo del rapporto di fiducia che lo legava al dipendente resosi colpevole degli atti descritti, provvedeva al suo licenziamento.

Tribunale e Corte d’Appello rigettavano l’impugnazione proposta dall’uomo contro il suo licenziamento. I giudici, infatti, giudicando la condotta dell’agente sufficientemente provata dall’esito del procedimento penale svoltosi a suo carico, e conclusosi con la sua condanna per il reato di atti persecutori, ritenevano proporzionato il suo licenziamento.

L’uomo, tuttavia, ricorreva in Cassazione, lamentando, in primo luogo, come i giudici di merito non avessero esaminato né la correttezza del comportamento da lui tenuto verso la collega sul posto di lavoro, né la richiesta, avanzata da entrambi, di essere trasferiti in un altro impianto.

Nel ricorso si eccepiva, inoltre, la falsa applicazione degli artt. 62 e 64 del CCNL di settore, nonché dell’art. 2119 del c.c. il quale, in caso di minacce, ingiurie gravi, condotte diffamatorie o calunniose verso altri dipendenti prevede la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da otto a dieci giorni. Secondo il ricorrente, infatti, alla luce di tali disposizioni, il datore avrebbe erroneamente disposto il licenziamento, previsto, invece, dalla legge soltanto qualora si verifichi una violazione dolosa di leggi, regolamenti o doveri “che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio all’azienda o a terzi.”

La Suprema Corte ha, però, rigettato il ricorso.

Gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come i fatti dei quali il ricorrente ha eccepito il mancato esame, siano, in realtà, stati pienamente esaminati dai giudici di merito.

Quanto, poi, alla doglianza relativa alla falsa applicazione della norma contenuta nel contratto collettivo di settore, i giudici di legittimità hanno espresso il principio di diritto in base al quale “la nozione di giusta causa di licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti (al contrario che per le sanzioni disciplinaricon effetto conservativo) le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

Ed infatti, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettivaai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando nel giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.”

Fonte: www.brocardi.it



Cassazione: giusto licenziare chi usa legge 104 per fare la spesa e andare al mare

Dipendente licenziato da Poste italiane: usava permessi legge 104 per andare a fare la spesa o recarsi al mare in vacanza con la famiglia


La Cassazione ha deciso: è giusto licenziare un lavoratore che utilizza i giorni di permesso con la legge 104 per fare la spesa e recarsi al mare insieme alla propria famiglia. La pronuncia risale a due giorni fa, sabato 26 giugno 2021, e respinge, di fatto, il ricorso presentato da L., dipendente licenziato dalle Poste Italiane.

L’uomo aveva ricevuto il 20 settembre 2007 il provvedimento nel quale si diceva che

il lavoratore, il quale per le giornate del 24 e 25 agosto 2017 aveva usufruito di giorni di permesso ai sensi della legge 104 del 1992 per assistere la madre, si era intrattenuto in attività incompatibili con l’assistenza, essendosi recato presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre, convivente col marito”.

Inoltre, il cambio della residenza della madre presso l’abitazione di L. non era mai stato comunicato a Poste Italiane spa, se non dopo le contestazioni disciplinari.

Nel ricorso, il dipendente delle Poste italiane, L., ha invocato una presunta lesione della privacy in violazione dello Statuto dei lavoratori che vieta“controlli lesivi dei diritti inviolabili” e prevede che i lavoratori debbano essere“informati adeguatamente circa le modalità di esercizio del controllo”.
Tuttavia, tale sottolineatura è stata prontamente rispedita al mittente, in quanto nel caso in disamina “il controllo del lavoratore al di fuori del luogo di lavoro era consentito perché finalizzato ad accertare l’utilizzo illecito del permesso”.

Infatti, l’assenza dal lavoro in base alla 104 “deve porsi in relazione diretta con lo scopo di assistenza al disabile, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere a esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e di buona fede, sia nei confronti del datore che dell’ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari”.

Insomma, a quanto pare la legge parla chiaro.

Fonte: ilsussidiario.net

 

 




Ripartiamo insieme – 26 giugno 2021

“Al presidente del Consiglio, al governo, alle imprese, alle forze politiche, il nostro messaggio è semplice e chiaro: è un errore sbloccare i licenziamenti il primo luglio. E non si tratta solo di numeri. Il problema non è se i licenziamenti saranno pochi o tanti. Il fatto vero è che i problemi non si affrontano con i licenziamenti. Ci sono gli strumenti alternativi ai licenziamenti per evitarli. E se c’è la volontà politica l’accordo si può raggiungere in poco tempo, come abbiamo già fatto nel caso dei Protocolli sulla sicurezza”.

Lo ha detto oggi (26 giugno) a Torino, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini concludendo la manifestazione di Cgil, Cisl, Uil.
“Oggi era ora di prenderci la piazza e dire che il Paese cambia solo se cambia insieme al lavoro e per sostenere il lavoro. Non siamo disponibili ad accettare un peggioramento ne oggi ne mai, lo sappiano le forze politiche e le imprese. Siamo all’inizio di questa mobilitazione, vogliamo portare a casa il risultato ma se non ci ascoltano non ci fermiamo qui e uniti andremo avanti finché non lo avremo ottenuto”. “Oggi chiediamo la proroga del blocco e che il governo faccia questo atto di attenzione verso il mondo del lavoro – aveva detto il segretario generale ai giornalisti prima del comizio – è il momento di unire, non di dividere e non è il momento di ulteriori fratture sociali”.

Il governo si assuma la responsabiltà
Il segretario generale ha spiegato che non c’è da inventarsi niente. C’è già un provvedimento che permette di utilizzare la cassa integrazione senza costi per le aziende. La sfida al governo e alla politica è dunque quella di assumersi la responsabilità di una scelta così come si è fatto appunto in piena pandemia per i Protocolli per la sicurezza, che con i sindacati sono stati varati in 18 ore. Per quanto riguarda la cassa integrazione Landini ha anche ricordato che non è lo Stato a pagarla (quindi tutti i cittadini), ma le imprese e i lavoratori stessi. E’ dunque una questione di volontà politica.
Mi auguro – ha detto il segretario generale durante il suo comizio – che il governo ci ascolti perché queste manifestazioni di oggi non sono state indette solo per evitare lo sblocco dei licenziamenti, ma per cambiare il Paese. E noi vogliamo cambiarlo più del governo e delle imprese. Non vogliamo tornare alla situazione che c’era prima della pandemia”.

Estendere l’accordo sugli appalti
Il sindacato e il mondo del lavoro non solo hanno contribuito ad affrontare la crisi, ma hanno sempre fatto la loro parte. “Tutte le volte che ci hanno chiamato – ha detto Landini – abbiamo sempre trovato soluzioni intelligenti. L’ultimo caso è la cancellazione della logica del massimo ribasso negli appalti pubblici. E se pensiamo ai 300 miliardi di investimento per i prossimi anni ci capisce l’importanza della questione.
“L’accordo firmato impone la responsabilità delle aziende appaltatrici e subappaltatrici. Noi oggi rilanciamo: quella legge non deve valere solo per i contratti pubblici. Ma per tutti gli appalti anche nel settore privato. Basta piangere dopo che succedono le cose”.
Il segretario generale ha commentato anche la decisione del governo annunciata dal ministro Orlando di firmare il decreto ministeriale, che era previsto dal Dl Semplificazioni del 2020, per introdurre il Documento unico di regolarità contributiva che attesta la congruità dell’incidenza della manodopera nei settori dei lavori edili pubblici e privati. E’ una buona notizia, ha detto Landini, ma bisognerà estendere le norme a tutti i settori.

Il dramma vero è la competizione tra lavoratori
A proposito dei drammi che accadono nei luoghi di lavoro, Landini è tornato a parlare della morte a Novara del sindacalista Adil:
“Quando una persona si batte per difendere i diritti e perde la vita non è accettabile. E la cosa più grave che deve far riflettere tutti riguarda la guerra tra lavoratori che si è innescata. A causare la morte del sindacalista è stato infatti un altro lavoratore dipendente: due famiglie nel dramma. Ma purtroppo gli esempi di questa guerra tra simili in onore del profitto sono tanti. Anche ieri sono morti altri lavoratori. Anche la strage della funivia. Quando nella testa delle persone scatta l’idea che il tuo tempo di vita e lavoro è legato al correre, al profitto, gli altri diventano concorrenti. Una società così è malata. Se si è determinata questa situazione è perché i governi (destra e sinistra) hanno fatto leggi balorde che hanno aumentato la precarietà e ridotti i diritti”.

Tutte le riforme che servono subito
Il segretario generale ha voluto ricordare la lista delle riforme da realizzare subito insieme agli investimenti. “Abbiamo bisogno di nuovi ammortizzatori sociali universali, di politiche attive e politiche industriali. In Germania i centri per l’impiego tedeschi funzionano. Da noi sono mandati avanti da pochi precari e bisogna finirla con la logica dei navigator, lavoratori precari che dovrebbero trovare lavoro per altri lavoratori precari. E’ necessario quindi prorogare il blocco dei licenziamenti per avere tempo di varare la riforma degli ammortizzatori sociali. Ma non è la sola riforma che serve. Serve la riforma fiscale, quella della sanità e della scuola”.

Lo Stato deve tornare a fare politica industriale
“La politica industriale è il grande assente. L’esempio è il caso dell’Embraco. Fare politica industriale vuol dire anche un intervento pubblico in economia. Bisogna smetterla di dare soldi a tutti. Dal 2015 al 2020 incentivi a pioggia alle imprese, non vincolate per 80 miliardi in cinque anni. Solo in Italia 180 miliardi per la pandemia. Per il lavoro circa 40 miliardi. Non è sbagliato salvare le imprese, ma è venuto il momento di collegare investimenti e sviluppo. Embraco, Whirpool di Napoli… il settore elettrodomestici aumenta i profitti., Allora perché non si investe? Si era pensato per Embraco a un ingresso pubblico. Whirlpool ha aumentato le vendite e poi vogliono chiudere a Napoli. Torino è stata la capitale dell’auto. E ora che nel settore della mobilità cambia tutto e bisogna ripensare le fonti fossili entro il 2050, quando non ci saranno più i motori attuali, noi cosa facciamo? Lasciamo fare solo alle imprese o investiamo? Dobbiamo produrre noi. Nei prossimi anni i soldi li usiamo per comprare quelli fatti in Cina o fuori dall’Italia? O ci organizziamo per produrli noi? E non è questione di sovranismo. Noi possiamo farlo meglio degli altri e insegnare la sostenibilità sociale e ambientale. Dove produciamo i pannelli? Le nostre società vanno a fare investimenti all’estero. Una cosa così non si capisce. Chi ci vieta di fare un piano strategico? E’ questo che dobbiamo imparare dalla crisi. E’ venuto il momento di cambiare”.

Bombardieri (Uil): “State giocando col fuoco”
Nelle altre due piazze delle manifestazioni hanno parlato i segretari generali della Cisl e della Uil. “Eccoci qui, ancora in piazza, per rivendicare il blocco dei licenziamenti. Li avvisiamo: state giocando con il fuoco”, ha detto il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, intervenendo a Bari alla manifestazione unitaria per chiedere la proroga del blocco dei licenziamenti fino al 31 ottobre. “Negli altri paesi Ue hanno utilizzato i fondi pubblici per bloccare i licenziamenti”, sottolinea il leader della Uil. “I soldi per la cassa Covid vengono dal programma Sure che abbiamo pagato noi. Non le aziende”, “Se ci volete convincere che prorogare di qualche mese il blocco dei licenziamenti è sbagliato, non ci riuscirete. Spiegatelo a chi rischia di perdere il posto di lavoro”, aggiunge il leader della Uil. “L’unica strada – sottolinea – è il blocco per tutti e se non cambiate idea i lavoratori se lo ricorderanno”. Fino ad oggi, rileva, “sono stati persi un milione di posti di lavoro”  .
“I giovani non trovano sbocchi, chiediamo scelte industriali – ha detto Bombardieri – E chiediamo risposte sull’Ilva di Taranto e sulle scelte industriali. Anche su Whirlpool, non molliamo. Chiediamo qualche dichiarazione in meno e qualche fatto in più”. Per il leader della Uil serve “usare le risorse per garantire copertura a lavoratori in caso di crisi, le aziende devono pagare in base al principio assicurativo”.

Sbarra (Cisl): Il governo torni sui suoi passi
“Il governo deve ritornare sui propri passi rispetto al blocco dei licenziamenti ed estenderlo almeno al 31 ottobre, un blocco generalizzato e deve confermare le Casse Covid lungo tutto il periodo di proroga. E parallelamente avviare riforme e investimenti per una transizione sostenibile. Si riformino gli ammortizzatori sociali, rendendoli universali”. Lo ha detto il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra alla manifestazione unitaria di Cgil Cisl e Uil, dal palco di Firenze.
“Oggi diamo un impulso in più a questo cammino di lotta e di responsabilità. Diciamo al governo e alla politica di occuparsi dei problemi concreti delle lavoratrici e dei lavoratori, delle famiglie e dei pensionati, dei bisogni e delle aspettative delle persone in carne e ossa”. “Diciamo al governo che deve cambiare atteggiamento su alcune questioni fondamentali, rispetto alle quali non ha dimostrato la stessa attenzione che nei mesi scorsi ha contraddistinto altri passaggi importanti. Penso alla firma, a marzo, del Patto per la Pubblica Amministrazione. Penso al rinnovo, il 6 aprile, dei protocolli sulla salute e la sicurezza e all’intesa sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro. Penso al Patto sulla scuola del 20 maggio”. “Quando c’e’ da mettersi attorno a un tavolo per animare una nuova politica di concertazione – ha aggiunto Sbarra – concreta e pragmatica, il sindacato c’è e ci sarà”.

 

Da collettiva.it 




Consulta boccia legge Fornero del 2012: va reintegrato il lavoratore licenziato senza giustificato motivo

La Corte ha ritenuto che sia irragionevole la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in quest’ultima ipotesi è previsto l’obbligo della reintegra mentre nell’altra, in base alla riforma, è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta se reintegrare o stabilire un’indennità. Nel 2015 il Jobs Act ha escluso per tutti il diritto a riavere il posto in caso di licenziamento illegittimo.


La questione era stata sollevata dal Tribunale di Ravenna. In attesa del deposito della sentenza, l’ufficio stampa della Corte costituzionale ha fatto sapere che la questione è stata dichiarata fondata con riferimento all’articolo 3 della Costituzione in base al quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La Corte ha ritenuto che sia irragionevole – in caso di insussistenza del fatto – la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in quest’ultima ipotesi è previsto l’obbligo della reintegra mentre nell’altra, in base alla riforma, è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di un’indennità. Le motivazioni della sentenza saranno depositate nelle prossime settimane.

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it



Licenziato perché troppo bravo

Storia di un dirigente di Equitalia Giustizia messo da parte perché ha denunciato un errore dell’ente per cui i responsabili delle violenze alla Diaz, durante di G8 di Genova, non hanno mai versato le spese legali ai ragazzi pestati. Lo Stato invece ha pagato due volte. Intanto si avvicina la prescrizione e la Procura di Roma indaga.


I superpoliziotti condannati per le violenze alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto durante il G8 di Genova non hanno mai pagato le spese legali alle parti civili, cioè ai ragazzi pestati. E forse non le pagheranno mai. Chi da due anni denuncia questa stortura, invece, è stato licenziato. É quanto emerge da una complessa vicenda che coinvolge Equitalia giustizia (l’ente che per conto del ministero della Giustizia è tenuto a riscuotere le spese di giustizia per le condanne passate in giudicato), il suo ex responsabile legale, il ministero dell’Interno, il Tribunale del lavoro di Roma e, ora, anche la Procura della Repubblica.

Errori e impugnazioni
Tutto ha avuto inizio il 5 luglio del 2012, quando la Cassazione confermò le condanne per i 25 accusati coinvolti a vario titolo nelle violenze e nelle torture perpetrate a Genova durante il G8 del 2001. Sono i fatti che Amnesty International definì come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Oltre a scontare la pena, però, i condannati avevano l’obbligo di ripagare anche le spese legali alle parti civili. Soldi che nel frattempo sono stati anticipati dal ministero della Giustizia, come da legge. Il ministero ha poi affidato a Equitalia giustizia il compito di riprenderseli. E qui nascono i problemi. Perché nelle cartelle esattoriali emesse c’era un “errore di quantificazione”, che ha permesso ai condannati di impugnarle, quindi di ottenerne l’annullamento o la sospensione. E non pagare nulla di quanto dovuto.

L’errore commesso da Equitalia giustizia, secondo quanto emerge dalle pronunce dei giudici e dalle verifiche normative successive, è tecnico: l’ente ha calcolato gli importi in via solidale invece che pro-quota, come prevede il Codice di procedura penale (art. 535), riformato dalla legge 69 del 2009. A confermare questa tesi, ci sono anche una nota del ministero della Giustizia del luglio 2009 e una circolare dello stesso ministero del 2015. Le cartelle emesse nel 2017, quindi, l’anno dopo cominciano a essere impugnate una dopo l’altra. A partire da quelle recapitate all’ex dirigente dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali) Giovanni Luperi, che nel 2010 era stato condannato a tre anni e otto mesi di reclusione. Il 9 ottobre 2018, il giudice Stefania Salmoria del Tribunale ordinario di Firenze annulla le sue tre cartelle. E Luperi non paga nulla.

Effetto domino
Equitalia giustizia, però, che ci fosse un problema lo sapeva già dal 16 gennaio 2017. Lo testimonia una comunicazione inviata in quella data agli uffici di viale Tor Marancia dal ministero della Giustizia, l’ente creditore. Nel testo, tra l’altro, si legge: “Sicuramente Equitalia, essendo suo campo di competenza, potrà fornire i chiarimenti necessari”. E si fa anche riferimento alla futura, possibile prescrizione: “In mancanza di una norma specifica, il termine di prescrizione del diritto a riscuotere le spese processuali è quello ordinario”, “vale a dire 10 anni dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile”.

“Quelle del processo Luperi, però, non sono le uniche cartelle impugnate dai condannati per il G8. Da allora fino al marzo 2019, erano ben 41, cui fecero seguito 25 provvedimenti giurisdizionali – raccontava l’avvocato Francesco Cento, dirigente di Equitalia giustizia dal 2008, che all’epoca di questi fatti era proprio a capo dell’Ufficio legale e contenzioso -. Di queste, 6 sono annullamenti, 11 sospensive cautelari che anticipano la decisione” e prima o poi verranno portate in decisione. I restanti 8 giudizi “sono invece stati definiti per ‘cessata materia del contendere’, in ragione dell’avvenuto pagamento delle cartelle impugnate”. Le cartelle sono state infatti notificate anche al ministero dell’Interno, che ha pagato quanto già sborsato da quello della Giustizia. “Si è generato così un cortocircuito per cui lo Stato rimborsa se stesso”. Anche queste pronunce sono state impugnate dai condannati, “in modo tale che il ministero dell’Interno non possa rivalersi sui condannati stessi neanche in futuro. Per i soli fatti della Diaz l’importo del mancato rimborso è di oltre un milione di euro. Ma dal marzo 2019 ad oggi è plausibile che le pronunce siano cresciute, comprendendo altri ‘filoni’ della sentenza della Corte d’Appello di Genova. Il danno per lo Stato, quindi, potrebbe lievitare, fino ad arrivare a diversi milioni di euro”.

Campanelli d’allarme
Un errore grave, dunque. Ma a cui era possibile porre rimedio sin da subito. L’ufficio legale allora guidato dall’avvocato Cento, già il 18 ottobre 2018, lo fece notare alla sua azienda con una comunicazione nella quale le deliberazioni che riguardavano Luperi venivano definite “sentenze pilota”, cioè in grado di creare un pericoloso precedente. Così come poi è successo. “Ho segnalato i rischi che correva l’azienda anche direttamente al cda, perché mi veniva richiesto quale responsabile dell’Ufficio legale e contenzioso. Il ruolo m’imponeva anche di valutare le evidenze risultanti dell’analisi del contenzioso e definire e indicare proposte di intervento. É una procedura standard. Chiedevo quindi di annullare le cartelle e riquantificarle. Anche perché non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo o rischi di sorta per il credito. Quella situazione avvantaggiava unicamente i condannati, e andava a svantaggio dello Stato”.

Seguivano fitte comunicazioni, tutte protocollate, tra l’ufficio legale e gli altri dipartimenti di Equitalia giustizia, in cui veniva citata anche l’Avvocatura dello Stato. La questione però, non trovò uno sbocco, nemmeno nei due anni successivi. Anni in cui Cento venne invece sottoposto da Equitalia giustizia ad “un ulteriore audit (ispezione dell’azienda ndr), il quarto in tre anni”, per verificare eventuali errori commessi durante lo svolgimento della sua attività. “Nei 10 anni precedenti avevo subito un solo audit di processo, per migliorare alcune procedure”, ci racconta.

Il tempo intanto passa, e sulle cartelle esattoriali dei condannati per i fatti del G8 di Genova continua ad aleggiare lo spettro della prescrizione. La storia, tra l’altro, arriva anche sulla stampa, con un articolo dell’edizione genovese della Repubblica e sul Fatto quotidianoE da lì in Parlamento, con un’interrogazione in Senato ai ministri della Giustizia, dell’Economia e dell’Interno (atto n. 4-01202, del 5 febbraio 2019). A questa interrogazione seguirà poi l’atto di sindacato ispettivo del Senato (n. 4-03289 del 29 aprile 2020), a firma degli stessi senatori. Nel quale si legge: “Le giustificazioni addotte da Equitalia giustizia e trasmesse ai ministeri destinatari (…), al di là dell’artificiosa ricostruzione della vicenda dal punto di vista tecnico, contengono l’indicazione di dati radicalmente sbagliati e valutazioni errate”L’ente, insomma, negherebbe che ci sia stato un errore.

Abbiamo contattato Equitalia giustizia per avere un commento. L’azienda risponde di aver “fornito, per quanto di competenza, le proprie osservazioni al ministero della Giustizia, dalle quali risulta il corretto e legittimo operato della società, in conformità formale e sostanziale con il dispositivo delle sottostanti sentenze”. E poi ci informa che “eventuali ulteriori richieste dovranno essere indirizzate preferibilmente all’ufficio stampa del Ministero”.

Licenziamento e reintegra
L’avvocato Cento, intanto, insiste nella sua battaglia: “Visto che non riuscivo a trovare una soluzione all’interno dell’azienda, ho segnalato il tutto all’Autorità nazionale anti-corruzione (5 dicembre 2019), alla Procura della Repubblica di Roma (30 gennaio 2020) e alla procura regionale della Corte dei conti (2 marzo 2020)”. E da quel momento le cose iniziano a precipitare: “In un convulso susseguirsi di riunioni e comunicazioni, senza mai chiamarmi a riferire al cda, sono stato licenziato, a causa di un nome di troppo in una lista di avvocati pubblicata sul sito dell’azienda. Era il 7 aprile, in pieno lockdown nazionale, il giorno della tumulazione di mia madre”.

Dopo qualche tempo, il 16 luglio, Cento presenta ricorso al giudice del lavoro di Roma, che il 9 ottobre lo reintegra, annulla il licenziamento e condanna Equitalia giustizia al risarcimento del danno che gli ha arrecato. Nella sentenza del giudice Donatella Casari, tra le altre cose, si legge: “Appare evidente come le indicate denunce alle autorità di controllo operate dal Cento fossero idonee ad infastidire i vertici aziendali e ciò a prescindere dalla fondatezza o meno dell’addebito”. E ancora: “Emerge evidente come tale tipo di segnalazione possa essere inviso a chi di tali manchevolezze, a torto o a ragione, viene accusato”. “Il giudice, insomma, ha qualificato il licenziamento come ritorsivo – prede atto Cento -, perché le segnalazioni infastidivano l’azienda”, indipendentemente dalla loro fondatezza.

Prescrizioni e indagini
Nel merito delle denunce e dei fatti che correlano, seppure in via indiretta, Equitalia giustizia ai fatti di Genova è invece entrata la Procura di Roma. Come emerge dai documenti pubblicati sul sito dell’ente, il 28 luglio scorso la Guardia di finanza ha fatto il suo ingresso negli uffici di Roma, in Viale Tor Marancia. Da quanto risulta, la Procura ha infatti cominciato a indagare, tra l’altro, per omissione di atti d’ufficio. Il pm titolare del fascicolo è Rosalia Affinito e su suo mandato i finanzieri hanno richiesto proprio la documentazione relativa alle cartelle esattoriali emesse per i crediti di giustizia relativi al G8. Il giudice vuole vederci chiaro. E capire se ci siano stati ritardi o altri motivi per cui non siano state emesse nuove cartelle. Il tutto in vista della prescrizione, che arriverà nel luglio 2022.

I tempi, in realtà, sono molto stretti. “Di solito l’Agenzia delle entrate ha fino a 9 mesi di tempo per la cartellazione dalla trasmissione del ruolo. In questo caso bisogna annullare tutte le cartelle, chiudere i contenziosi pendenti, rimborsare il ministero dell’Interno, riaprire le partite di credito e riquantificare, poi riscrivere al ruolo e notificare le cartelle giuste. Ci vorrà, salvo percorsi privilegiati, almeno un anno e mezzo”. Se non si risolve il problema entro gennaio, insomma, c’è il rischio molto concreto che i soggetti coinvolti e condannati non paghino mai quanto dovuto. E che per lo Stato il danno milionario resti tale.

Intanto l’avvocato Cento, reintegrato al lavoro, è ora in smart working: “Non ho messo più piede in azienda dal 7 aprile. Non mi hanno nemmeno attivato gli strumenti per connettermi alle mail di struttura, quindi non ho rapporti ufficiali con i miei stimati collaboratori. In sostanza, mi tengono giustamente a casa, ma impossibilitato a svolgere il mio lavoro”. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la giustizia, per senso dello Stato e per la tutela della sua immagine – conclude -, specie in un momento di difficoltà sociali ed economiche come questo”.

 

Fonte: www.collettiva.it




Posso denunciare il capo che minaccia di licenziarmi?

È possibile denunciare il datore di lavoro che minaccia il proprio dipendente di licenziamento o di metterlo in cassa integrazione solo per obbligarlo a straordinari o per imporgli di accettare uno stipendio più basso di quello indicato in busta paga. O, ancora, come ritorsione a seguito di diverbi avvenuti in azienda.

Il reato che commette il capo può essere quello di estorsione o di minaccia.

Riguardo al reato di minaccia, questo scatta tutte le volte in cui il sottoposto viene intimorito e, di certo, la relazione di sudditanza sia psicologica che gerarchica insita in un ambiente lavorativo porta il lavoratore ad accettare tacitamente ciò che gli viene chiesto dall’alto. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza. Il datore viene così condannato, a seguito di un processo penale, al risarcimento del danno in favore del suo sottoposto.

Minacciare il dipendente di licenziamento costituisce un abuso di potere, da parte del datore di lavoro, nei confronti del dipendente; non importa che quest’ultimo, in caso di licenziamento illegittimo, possa impugnare la decisione dei vertici dell’azienda e chiedere la reintegra: il percorso giudiziale è pur sempre un calvario e, quindi, si concretizza in un male ingiusto, imposto per degli scopi illeciti come quelli volti a ottenere una riduzione del costo della busta paga o una prestazione lavorativa extra.

La Cassazione ricorda che nel caso di minaccia «l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico (…)»; è «sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire» considerato il potere concreto che il datore ha di incidere negativamente sulle condizioni lavorative del sottoposto; ed è «irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».

Sempre la Cassazione ha detto con un’ulteriore sentenza che integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione di debolezza dei dipendenti a causa del difficile contesto occupazionale, prima della conclusione del contratto di lavoro e durante lo svolgimento del rapporto di lavoro stesso, impone al lavoratore di accettare condizioni di lavoro deteriori a fronte della minaccia di mancata assunzione o di licenziamento(nella specie, le condizioni imposte riguardavano, in particolare, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni in bianco, la corresponsione di una retribuzione inferiore a quella risultante dalla busta paga, nonché il prolungamento non dichiarato dell’orario di lavoro).

Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della crisi occupazione e della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di retribuzioni deteriori e non adeguate alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate.

Fonte: www.laleggepertutti.it




Il Job’s Act ha fatto diminuire le nascite in Italia

Nascono pochi bambini in Italia. E ne nascono ancora meno da quando è arrivato il Jobs Act. Per dirla meglio: da quando – nel 2015 – è stato cancellato l’articolo 18, e gli imprenditori possono più facilmente licenziare una dipendente.
Lo dicono i numeri.

A valutare come la riforma renziana del mercato del lavoro abbia influito sulla natalità è uno studio condotto da Maria De Paola e Vincenzo Scoppa, ordinari di Economia presso l’Università della Calabria, insieme con Roberto Nisticò, ricercatore di Economia Politica all’Università di Napoli Federico II e all’Institute of Labor Economics (Iza) di Bonn. Il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo 2015 ed è efficace solo sui rapporti di lavoro avviati dopo quel giorno.

La principale novità consiste nell’aver abolito la norma dello Statuto del lavoratori che prevedeva il diritto a essere reintegrato per chi fosse stato licenziato senza giusta causa da un datore con almeno 15 dipendenti (sotto questa soglia, invece, l’articolo 18 non si applicava già prima del Jobs Act). La riforma ha sostituito questa tutela forte con un indennizzo in denaro.

Mandare a casa un addetto è diventato molto meno costoso pure per le aziende più grandi, insomma, e i nuovi lavoratori – nel frattempo assunti con il contratto ora chiamato “a tutele crescenti” – si sentono meno sicuri di chi è stato reclutato prima del 7 marzo 2015. Questo ha influito sulle scelte di maternità delle donne: gli studiosi hanno suddiviso il campione tra lavoratrici assunte prima e dopo il Jobs Act e poi hanno distinto quelle impiegate in imprese sotto i 15 addetti – alle quali le nuove norme non hanno cambiato nulla – e quelle sopra quella soglia, direttamente colpite dalla legge.

Tra quelle entrate prima della riforma, risultava aver preso il congedo di maternità il 3,4% nelle aziende più piccole e il 4,2% in quelle più grandi. Tra i due gruppi c’era una differenza netta: le più protette erano più propense ad avere figli. Tra quelle arrivate dopo, invece, non c’è alcuna differenza: entrambi i gruppi registrano un 2 per cento. Insomma, una volta allineate (al ribasso) le tutele, si è allineata anche la scarsa propensione a diventare madri.
Gli autori dello studio hanno anche chiarito che non tutte sono state colpite allo stesso modo dalla riforma. Visto che negli stessi anni sono stati incentivati i contratti a tempo indeterminato, per chi è stato stabilizzato potrebbe esserci stata una conseguenza inversa (cioè si sono decise a fare figli). Ma in generale i numeri parlano di un effetto negativo.
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it



Permessi L.104: legittimo il licenziamento per chi li usa per riposarsi

Se da un lato non è possibile sfruttare i permessi della legge 104 (quelli riconosciuti a chi assiste un familiare disabile) per andare al mare, fare vacanza o il ponte dalle ferie, non si può neanche restare a casa in panciolle. Viene licenziato il dipendente che usa i permessi 104 per riposarsi. A dirlo è stata la Cassazione (sentenza n. 18411/19).

La pronuncia sdogana un altro importante principio: fa bene il datore di lavoro a usare gli investigatori privati per smascherare il lavoratore infedele. Gli 007 possono infatti pedinarlo, appostarsi sotto casa e controllarne le mosse purché non invadano la privacy del suo domicilio.

L’interpretazione non è nuova. Originale è però la vicenda. Se, infatti, negli altri episodi di licenziamento per abusi della legge 104, il dipendente si è sempre fatto sorprendere dagli investigatori fuori di casa, intento a svolgere commissioni personali, shopping, attività sportive o, in alcuni casi, in un night club, in questa vicenda il soggetto era rimasto sul divano a riposarsi piuttosto che andare a casa della zia disabile, della quale doveva prendersi cura. Stanco dopo una settimana di lavoro e, probabilmente, anche per l’assistenza prestata alla familiare con l’handicap, il dipendente aveva deciso di dedicare qualche ora in più al sonno e alla tv. Comportamento però ritenuto illegittimo dalla Cassazione secondo cui si può licenziare in tronco, per giusta causa, il dipendente che sfrutta i permessi 104 per riposarsi.

Decisiva è stata la testimonianza degli investigatori appostatisi sotto le abitazioni dell’incolpato e della parente. E tale condotta, non c’è che dire, mina ai fondamenti del rapporto di lavoro basato sulla fiducia. Pesa il disvalore etico e sociale della condotta che compromette in modo irrimediabile il rapporto di fiducia con il datore.

Il dipendente non può quindi usare i permessi per finalità diverse rispetto a quelle previste dalla legge. E se anche per i permessi retribuiti previsti dalla legge 104 non è necessario passare tutte le 24 ore con il familiare bisognoso, buona parte della giornata deve essere comune rivolta a tale scopo.

Ultimo aspetto da non sottovalutare: per la Cassazione bastano anche due soli episodi per giustificare il licenziamento immediato. L’uomo aveva abusato dei permessi per ben due giorni, non muovendosi da casa fra le 6,30 e le 21, senza invece andare ad aiutare la zia anziana.

Insomma, nei giorni di permesso 104 bisogna uscire di casa, ma non per divertirsi con gli amici. Chi non presta assistenza al disabile perde il posto.

 

Fonte: www.laleggepertutti.it

 




Lavoro dipendente e rispetto delle regole

Abbiamo visto come nel rapporto di lavoro dipendente è l’imprenditore che stabilisce le regole della prestazione lavorativa.

La conseguenza ovvia è che il mancato rispetto di queste regole può comportare l’applicazione di sanzioni disciplinari anche severe (fino al licenziamento) e rispetto alle quali non è opponibile – né in sede di procedura disciplinare, né in sede di eventuale ricorso alla magistratura del lavoro – la mancanza di conoscenza delle regole medesime.

Una conseguenza altrettanto ovvia è che la deliberata violazione delle regole interne e tanto più delle disposizioni legislative e amministrative rilevanti per la normale attività lavorativa, espone alla possibilità delle medesime sanzioni. In aggiunta a ciò, in taluni casi la legge prevede anche responsabilità penali individuali.

A questo proposito è necessario avere ben presente che:

  • l’”invito”, la “pressione” o anche l’autorizzazione certificabile del proprio responsabile ad operare in violazione di regolamenti interni (e tanto più di leggi e regolamenti amministrativi) NON esime in alcun modo dalle responsabilità individuali del lavoratore;
  • l’”invito”, la “pressione” o anche la l’autorizzazione rilasciata in qualità di responsabile ad operare in violazione di regolamenti interni (e tanto più di leggi e regolamenti amministrativi) costituisce una grave violazione dei compiti in capo al responsabile medesimo; tutto ciò deve essere prontamente segnalato al sindacato ogni qual volta si dovesse verificare; il sindacato interverrà per porvi prontamente termine;
  • le pressioni indebite, eccessive, e/o in violazione di deontologia, regolamenti e leggi, se segnalate sono sanzionabili nei confronti di chi le pone in atto; invece in nessun caso sono opponibili ex post come scusanti di comportamenti lavorativi non coerenti con leggi e regolamenti amministrativi; questo né in sede di procedura disciplinare, né in sede di eventuale ricorso alla magistratura del lavoro.

Quindi, è assolutamente necessario che il lavoratore prenda contatto con il sindacato in ogni caso in cui abbia dubbi sull’operatività che sta svolgendo, o ritenga di subire pressioni indirizzate alla violazione o anche al semplice “aggiramento” di leggi e regolamenti.

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Alberto Massaia – Corinna Mangogna
Dipartimento Giuridico Fisac/Cgil

 

 

Articolo ad integrazione della nostra guida alle responsabilità disciplinari e patrimoniali: