Bonus Asilo Nido 2020: a chi spetta?

È già possibile beneficiarne dal 1° Gennaio 2020: ecco come è cambiato il bonus asilo nido 2020 e chi ne può beneficiare.


Bonus Asilo Nido 2020: a chi spetta quest’agevolazione quest’anno? Ecco alcuni chiarimenti.

Si ricorda che il bonus asili nido è stato introdotto dalla Legge 232/2016. Consiste in una agevolazione che permette di ricevere un sussidio in caso di:

  • pagamento delle rette dovute per la frequenza di asili nido pubblici o privati;
  • pagamento di altre forme di supporto usufruito presso la propria abitazione a favore di bambini/bambine da zero a tre anni affetti da gravi patologie croniche che impediscono la frequenza dell’asilo nido.

Per il 2020 cosa cambia?

Bonus Asilo Nido 2020: a chi spetta?

La Legge di Bilancio 2020 ha potenziato gli importi della misura per quest’anno.

Il contributo è riservato alle seguenti finalità:

  • pagamento di rette per la frequenza di asili nido pubblici e privati
  • forme di assistenza domiciliare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie croniche.

Il premio viene erogato dall’INPS al genitore, residente in Italia, che sia cittadino italiano o UE o sia in possesso di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o di carte di soggiorno per familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione europea. Oppure di carta di soggiorno permanente per i familiari non aventi la cittadinanza dell’Unione europea o abbia lo status di rifugiato politico o di protezione sussidiaria (circolare INPS 22 maggio 2017, n. 88).

Inoltre, con riferimento al contributo asilo nido, il genitore richiedente deve essere il genitore che sostiene l’onere del pagamento della retta. Mentre relativamente al contributo per forme di assistenza domiciliare, il richiedente deve coabitare con il figlio e avere dimora abituale nello stesso comune.

Nello specifico, viene erogato dall’INPS nei seguenti importi massimi:

  • 3.000 euro per i nuclei familiari con ISEE (minorenni) di valore fino a 25.000 euro;
  • 2.500 euro per i nuclei familiari con modello ISEE (minorenni) di valore compreso da 25.001 e 40.000 euro;
  • 1.500 euro per i nuclei familiari con modello ISEE (minorenni) di valore superiore a 40.000 euro.

Il bonus asilo nido si eroga con cadenza mensile, parametrando l’importo massimo di 1.500 euro su 11 mensilità, per un importo massimo di 136,37 euro direttamente al genitore richiedente che ha sostenuto il pagamento, per ogni retta mensile pagata e documentata.

 

Fonte: www.lentepubblica.it




Quanto costa riscattare la tua laurea? Puoi calcolarlo da solo sul sito INPS

Sul Portale INPS è disponibile il simulatore del riscatto di laurea attraverso il quale è possibile calcolare l’ammontare della somma da versare al fondo pensionistico di appartenenza per riscattare gli anni universitari. Grazie a questo strumento l’utente può valutare se valorizzare o meno il periodo del proprio corso di studi ai fini pensionistici.

Possono simulare l’onere di riscatto, per i periodi che si collocano nel sistema contributivo, sia gli iscritti alla gestione privata che a quella pubblica. Per gli iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti e alle gestioni speciali di artigiani, commercianti, coltivatori diretti e coloni mezzadri, la funzionalità è stata estesa ai periodi collocati nei sistemi retributivo e misto.

Come funziona il simulatore del riscatto di laurea

Per utilizzare il simulatore bisogna accedere al servizio “Riscatto di laurea”, tramite codice PIN, SPID o CNS, e cliccare su “Simulazione calcolo” nel menu a sinistra.

Una volta selezionata la gestione previdenziale per cui si desidera simulare il calcolo, occorre inserire alcuni dati:

  • anno di iscrizione all’università,
  • numero di rate in cui frazionare il pagamento,
  • periodo o periodi da riscattare afferenti lo stesso anno solare.

All’utente viene inoltre richiesto di dichiarare l’esistenza di eventuali periodi di anzianità estera o anteriore al 1° gennaio 1996.

Dopo aver inserito tutti i dati, non resta che cliccare sul pulsante “Calcola l’onere del tuo riscatto di laurea”. Ricordiamo che l’importo è orientativo e potrebbe discostarsi da quello effettivo, comunicato a seguito della presentazione della domanda di riscatto.

In aumento le simulazioni dei riscatti di laurea

Da marzo sono aumentate le simulazioni dei riscatti di laurea da parte degli utenti. Secondo le statistiche (riferite alla sola gestione privata) il picco si è registrato ad aprile. A maggio si è verificato un calo rispetto al mese precedente, ma i valori sono rimasti superiori rispetto a quelli di marzo e soprattutto di febbraio. Le simulazioni più numerose riguardano il regime contributivo.

 

Fonte: www.lentepubblica.it

 

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BNL: Assegno Funerario INPS. Cos’è, come fare, a chi inviare domanda.

Si ricorda a tutti i colleghi che si pensionano, specialmente i molti che prossimamente lasceranno il servizio con la campagna uscite “quota 100 e opz. donna”, che se assunti entro il 24.07.1992 possono mantenere il diritto al cosiddetto “assegno funerario INPS”.
La domanda deve essere presentata dall’ex dipendente all’INPS direttamente (o per il tramite dell’Associazione Nazionale Pensionati BNL) entro un mese dalla cessazione dal servizio (pena perdita del diritto)

La domanda può essere presentata tramite CAF/Patronato o rivolgendosi al servizio di contact center dell’Inps.

Può essere altresì inoltrata in modalità telematica, secondo le indicazioni contenute nella Circolare INPS n. 42 del 2013, tramite codice PIN personale. La facoltà di presentare domanda è estesa sia ai dipendenti che cessano dal servizio per dimissioni, sia a coloro che aderiscono al Fondo di Solidarietà ABI. L’onere relativo alla prosecuzione volontaria che, in costanza di rapporto di lavoro è obbligatoriamente versato dall’Azienda, deve essere assunto a totale carico dell’ex dipendente ed è pari allo 0,12% dell’importo annuo lordo del trattamento pensionistico complessivo. Ai pensionati la quota annuale viene trattenuta annualmente sul rateo di pensione del mese di settembre; gli esodati invece devono provvedere annualmente a versare tale quota entro il 30/09 tramite F24.

Per i colleghi che volessero assistenza c’è a disposizione l’Associazione Pensionati BNL rintracciabile via mail: [email protected] oppure ai numeri 06 / 47032460 e 02 / 80249612 (lun.mer.ven mattina)

Il cosiddetto “assegno funerario”, la cui esatta denominazione è “assicurazione sociale vita” è un trattamento assistenziale gestito dall’inps (ex inpdap e enpdep) e comporta per l’azienda il versamento di un contributo complessivo pari allo 0,12% della retribuzione imponibile Inps (di cui 0,027% trattenuto al dipendente). Riguarda i soli dipendenti assunti prima della trasformazione di Bnl da ente di credito di diritto pubblico in società per azioni, avvenuta il 24/07/1992, quindi interessa tutti i dipendenti in servizio a tale data, obbligatoriamente iscritti presso l’Inps anche a tale categoria di prestazione.

A fronte del suddetto contributo, l’inps eroga:

  • in caso di morte dell’iscritto con persone di famiglia a carico, 1 mensilità lorda della retribuzione imponibile inps del deceduto per ogni persona a carico con un minimo di 2 mensilità a favore degli eredi. Il coniuge/unito civilmente, anche se separato o divorziato purché non passato a nuove nozze (o unione civile), è considerato sempre a carico anche se svolge attività lavorativa;
  • in caso di morte dell’iscritto senza persone di famiglia a carico, 1 mensilità lorda della retribuzione imponibile inps del deceduto a favore di altro familiare o della persona che ha sostenuto le spese funerarie;
  • in caso di morte del coniuge/unito civilmente, a favore del dipendente 1 mensilità lorda della sua retribuzione imponibile inps;
  • in caso di morte di altro componente della famiglia a carico dell’iscritto, a favore del dipendente mezza mensilità lorda della sua retribuzione imponibile inps.

I destinatari della prestazione sono quindi:

  • il dipendente;
  • il coniuge/unito civilmente superstite;
  • in mancanza del coniuge/unito civilmente, in parti uguali i figli a carico e, ove minorenni, il loro legale rappresentante;
  • in mancanza del coniuge/unito civilmente e dei figli, spetta ai genitori e, in mancanza di questi, ai fratelli a carico;
  • chi ha sostenuto le spese funerarie nel caso in cui l’iscritto non abbia familiari a carico al momento del decesso.

La circolare Inps n.104/2014 che regolamenta la materia stabilisce che devono considerarsi a carico e beneficiari:

  • coniuge/unito civilmente, anche se separato o divorziato, purché non passato a nuove nozze (o unione civile);
  • figli, affiliati e figliastri, celibi o nubili, minorenni o permanentemente inabili al lavoro;
  • figli maggiorenni fino al 21° anno di età se studenti di scuola media superiore e gli studenti universitari per il corso legale di studi e, comunque, non oltre il 26° anno di età;
  • fratelli e sorelle, celibi o nubili, minorenni o permanentemente inabili al lavoro;
  • genitori conviventi, inabili al lavoro ovvero con età superiore a quella pensionabile, che non posseggono redditi superiori al limite previsto ai fini del riconoscimento del diritto agli assegni familiari. Nel caso di esistenza in vita di entrambi i genitori, si tiene in considerazione il reddito di ambedue.

Modalità di erogazione

Entro dieci mesi dal verificarsi dell’evento luttuoso il dipendente o altro beneficiario deve presentare domanda di liquidazione della prestazione.
La domanda all’inps per l’erogazione dell’importo deve essere inoltrata direttamente dal richiedente in via telematica o avvalendosi di un caf/patronato.

Roma, 10/06/2019

 

Segreterie di Coordinamento Nazionale Gruppo BNL

FABI           FIRST/CISL           FISAC/CGIL           UILCA           UNISIN




34 miliardi spariti: il Tfr “espropriato” dallo Stato

“Vorrei l’ultima relazione sull’uso delle somme del Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto istituito dalla legge 296/2006 (commi 755 ss.). Potreste cortesemente inviarmela?”.

La domanda dev’essere stata posta all’interlocutore sbagliato. Il ministero del Tesoro, infatti non si ritiene competente in materia: “La richiesta va fatta all’Inps e al Ministero del Lavoro”, è l’asciutta risposta di un portavoce.

Peccato che neanche al dicastero guidato da Luigi Di Maio ne sappiano nulla.
“I dati da lei richiesti sono in possesso dell’Inps”, rispondono.
Bingo? No, all’istituto di previdenza presieduto da Pasquale Tridico suggeriscono “di rivolgersi per competenza al ministero dell’Economia e delle Finanze in relazione a quanto previsto dalla legge 296/2006”.

Conclusione: nessuno sa che fine abbiano fatto i quasi 35 miliardi di euro che l’Inps ha girato allo Stato dal 2007 al 2017 attingendoli dal Fondo di Tesoreria. Quello dove le imprese private con oltre 50 dipendenti sono obbligate a versare le quote di Tfr dei lavoratori che non hanno scelto di depositare il proprio trattamento di fine rapporto in fondi pensione.

Il flusso medio al lordo delle prestazioni erogate, per intenderci, è di oltre 5 miliardi l’anno. Denaro che aveva dei precisi vincoli di investimento. Sia qualitativi che quantitativi. E i ministeri interessati, così come l’Inps sono già stati messi in guardia dalla Corte dei Conti che, in una dettagliata relazione del marzo 2011, aveva espresso severi giudizi e grandi timori sui rischi di un uso sconsiderato di queste grosse quantità di soldi, parlando tra il resto di “prelievo forzoso” ai danni delle imprese private, di “tassa occulta” e di rischio di squilibri per i conti dello Stato a carico delle generazioni future e a danno dei lavoratori veri proprietari dei soldi.

Nelle intenzioni del legislatore, lo Stato avrebbe dovuto utilizzare i Tfr depositati per stimolare crescita e occupazione, finanziando infrastrutture attraverso fondi per favorire la crescita o aziende pubbliche come Anas e Ferrovie dello Stato, con precisi tetti di spesa per ogni voce. Ma cosa sia poi successo, non si sa.
Nonostante la legge prevedesse anche l’obbligo, per il ministero del Tesoro e quello del Lavoro, di presentare al Parlamento una relazione dettagliata sulla consistenza e l’utilizzo del Fondo entro il 30 settembre di ogni anno. Gli ultimi ad affrontare la questione in modo analitico sono stati appunto i magistrati contabili, che nel 2011 hanno dedicato un’intera deliberazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato proprio all’utilizzo del Tfr depositato dalle imprese presso l’Inps.

 

L’alt dei giudici contabili: “È un prelievo forzoso”

“La Corte sottolinea il pericolo derivante dall’utilizzazione del fondo per mere finalità di provvista finanziaria: detta pratica potrebbe pregiudicare i futuri equilibri di bilancio e creare problemi di equità intergenerazionale a danno dei futuri contribuenti e percettori dei servizi”, si legge nel documento, che paventa “il concreto rischio di far ricadere sulle future generazioni il possibile sbilanciamento economico del sistema, che non potrà essere colmato, se non attraverso l’inasprimento delle aliquote contributive o del prelievo fiscale”. L’anno prima, la magistratura contabile aveva rilevato come tra il 2007 e il 2009 il Ministero dell’Interno avesse utilizzato il denaro raccolto per finanziare la spesa corrente, pagando con il Tfr dei lavoratori gli oneri di ammortamenti dei mutui per i comuni dissestati, la gratuità dei libri di testo e la spesa per i lavoratori socialmente utili dei Comuni di Napoli e Palermo e della Provincia di Napoli. Voci che “non corrispondevano alle finalità delle norme in tema di utilizzazione del Tfr”.
Dall’incidente con il Viminale, poi chiuso, a questioni di rilevanza ancora maggiore, il passo è stato breve. Nella sua ricognizione la Corte dei Conti è infatti giunta presto al nocciolo: “L’Amministrazione statale non sta predisponendo alcun meccanismo di reintegrazione del fondo Tfr gestito dall’Inps, in relazione alle somme già prelevate per il triennio 2007-2009 e per quelle dell’anno in corso. Anzi, il contestato meccanismo risulta confermato almeno fino allo scadere del decennio dalla sua introduzione: a fronte delle somme ad oggi prelevate, pari a 15,86 miliardi di euro, sono previsti introiti di analoga natura fino a raggiungere, a tale scadenza, i 30 miliardi complessivi”.

 

Giulio Tremonti spende, poi cambia la norma

In pratica il dicastero all’epoca guidato da Giulio Tremonti riteneva di poter continuare, almeno fino al 2017, a finanziare i conti pubblici attingendo a fondo perduto dal denaro dei lavoratori depositato temporaneamente presso l’Inps, senza prevedere dei meccanismi di restituzione nel tempo, meno che mai con gli interessi. Anzi, in seguito alle rimostranze della magistratura contabile circa l’uso dei fondi non a norma, è stata la norma ad essere modificata, non l’usanza, con la possibilità di utilizzare il Tfr depositato presso l’Inps anche per sostenere l’equilibrio della gestione sanitaria. Da qui la pesante accusa dei magistrati contabili secondo i quali un “simile prelievo, senza il correlato onere di ricostituzione del fondo, costituisce una operazione di natura espropriativa senza indennizzo o comunque di prelievo fiscale indiretto nei confronti delle categorie interessate a versamenti finalizzati a scopi ben diversi dal sostegno alla finanza pubblica”. Per di più basato su “dati statistici elementari”. Che al contrario, se confermati, dovrebbero “servire a garantire le categorie interessate, attraverso un migliore rendimento di quello attualmente fissato dalla legge. Non vi è nessuna norma in grado di giustificare una utilizzazione delle somme prelevate diversa dalle finalità per le quali datori di lavoro e prestatori le conferiscono”.
In altre parole, è il ragionamento, visto che il denaro non è dello Stato ma dei lavoratori o delle aziende, i suoi frutti dovrebbero andare ai lavoratori e alle aziende, non allo Stato. Che per di più se ne serve senza preoccuparsi di doverlo restituire. Purtroppo poi, “il trend economico-finanziario affermato non appare comunque attendibile e sussistono buone ragioni per prevedere esiti molto diversi rispetto a tale previsione”.

 

Nessuna rendicontazione: l’opacità della politica

Il conto rischia di essere ancora più salato: “La carenza dei dati istruttori e la sottovalutazione di importanti fattori di criticità è idonea a creare squilibri nel tempo, dei quali potrebbero fare le spese i futuri contribuenti e percettori delle prestazioni”, tuonava la Corte. I magistrati quindi fin dal 2011 contestavano “l’assenza di analitica individuazione delle partite di spesa finalizzate con il Tfr”, completando “il criticato percorso di prelievo e utilizzazione della risorsa a scopo di riequilibrio del bilancio statale”, con un “deficit di trasparenza nell’utilizzazione delle risorse”.
Non solo. “Si può fin d’ora precisare che alle suddette problematiche, sollevate da questa Corte sulla base di incontrovertibili elementi obiettivi, non è stata data adeguata risposta, anzi le risultanze della presente indagine hanno posto in luce questioni e disfunzioni ancor più complesse di quelle precedentemente accertate”. Mentre “allo stato degli atti si deve ragionevolmente dedurre che a partire dal 2010 questi fondi serviranno semplicemente a finanziare il bilancio confondendosi con le altre entrate correnti dello Stato”.

Viste le risposte ricevute, impossibile verificare come sia andata davvero. Quel che è certo è che l’Inps ha continuato a girare allo Stato gli accantonamenti per il Tfr non utilizzati per coprire le prestazioni, per un totale che a fine 2016 superava i 30 miliardi stimati dal Tesoro di Tremonti. Delle relazioni però non c’è traccia come sottolinea il professor Francesco Vallacqua, docente di Economia e gestione delle Assicurazioni vita e dei fondi pensione presso l’Università Bocconi di Milano. “Vorrei un’analitica descrizione di dove sono andati a finire ogni anno i circa 5 miliardi di euro che dovevano servire per finanziare le infrastrutture come previsto dalla legge 296/06 – spiega a Il Fatto Quotidiano – Mi andrebbe bene anche se, legittimamente, qualcuno istituzionalmente indicasse che c’erano esigenze più contingenti di spesa corrente e che i soldi sono stati utilizzati per altro. Però aboliamo quella legge che dice che vanno da un’altra parte, altrimenti rimane una norma non rispettata. Intanto sarebbe interessante leggere le relazioni dei vari ministri del Lavoro sul tema”. Peccato che al ministero non ne sappiano niente.

 

Articolo di Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani su “Il Fatto Quotidiano” del 10/6/2019




Pensioni, con quota 100 l’assegno si riduce dal 5 al 21 per cento

La pensione subito con “quota 100” per un operaio 62enne con uno stipendio netto di circa 1.600 euro può costare fino al 21% di assegno Inps. Una “decurtazione” che scende all’8% se l’uscita anticipata dal mercato del lavoro con la nuova anzianità è solo di un 1 anno e tre mesi anziché di 5 anni e tre mesi rispetto ai requisiti di vecchiaia. La rinuncia all’assegno pieno oscilla invece tra l’11% e il 5% per l’impiegato 64enne con una retribuzione da 2mila euro netti che sceglie di lasciare l’ufficio dai tre anni a un anno e tre mesi prima.

In attesa della versione finale del disegno di legge di Bilancio che il governo dovrebbe trasmettere alle Camere entro fine mese, ecco i primi calcoli che i “quotisti” possono fare prima di decidere se cogliere o meno l’opzione anti-Fornero. Le stime sono state fornite in esclusiva al Sole 24Ore da Tabula, la società di ricerca di Stefano Patriarca, ex consigliere economico a palazzo Chigi per i Governi Renzi e Gentiloni.
Con un anticipo di tre anni e tre mesi un operaio in possesso di 40 anni di contributi vedrebbe ridursi il proprio assegno mediamente del 14%, mentre un impiegato con gli stessi anni di versamenti e un anticipo di tre anni perderebbe il 9 per cento. L’anzianità della tuta blu costerebbe allo Stato 69.900 euro per tutto il periodo di anticipo rispetto alla vecchiaia. Una “tassa implicita” che salirebbe a quasi 100mila euro con anticipo di 5 anni e tre mesi, quindi “quota 100” precisa, mentre scenderebbe a 32.500 euro con un solo anno e tre mesi di anticipo.

La manovra consente il pensionamento da 62 anni con 38 di contribuzione, e cioè a un’età e con un livello di versamenti che rende la pensione superiore a quanto motivato dai contributi» spiega Patriarca.
Ecco in cifra quanto vale il nuovo “privilegio”: per chi si trova nel cosiddetto sistema misto (cioè con 18 anni di contributi versati prima della riforma del 1995) e che l’anno prossimo maturerà 62 anni di età e 38 anni di versamenti, l’uscita scatterebbe con due anni in meno rispetto all’età di equilibrio contributivo (64 anni, da confrontare con i 67 anni e tre mesi della vecchiaia e soli 20 anni di contributi).

Chi invece è ancora agganciato al sistema di calcolo retributivo (più di 18 anni di versamenti al dicembre ’95) e ha cumulato 41 o 42 anni di contribuzione può beneficiare di un vantaggio che oscilla dai tre anni e cinque mesi ai quattro anni e quattro mesi rispetto alla vecchiaia a 64 anni e tre mesi e 63 e tre mesi. Come spiega Patriarca, con anzianità contributive superiori ai 41 anni, «per produrre pensioni correlate al livello di contributi pagati, occorrerebbero – sottolinea – età di pensionamento maggiori a 65-66 anni e non certo di 62, o addirittura più basse, come si realizzerebbe portando il limite per l’uscita a prescidere dall’età a 41 anni di contributi». Si tratta dell’obiettivo finale di superamento della riforma Fornero indicato da Matteo Salvini e previsto dal programma del governo gialloverde.

Tornando alle “penalizzazioni” sull’assegno, vale ricordare che con “quota 100” la pensione viene incassata fino a cinque anni in più e «nel complesso della vita la riduzione si annulla – fa notare Patriarca – anche se rimane in ogni caso il dato della minore pensione mensile che sotto certi livelli potrebbe comprometterne l’adeguatezza». A determinare la riduzione dell’assegno sono almeno tre fattori: il diverso coefficiente di trasformazione a 62 anni, i cinque anni di minori contributi e l’effetto rivalutazione sul montante, ipotizzando una crescita costante sia del Pil sia dello stipendio del lavoratore.
L’ Inps aveva dato una quantificazione analoga della riduzione legata all’anticipo: fino a 500 euro in meno al mese nel caso di un pensionando della Pa (montante a calcolo retributivo fino al 2011 e contributivo negli anni successivi) che esce con uno stipendio annuo di 40mila euro: con cinque anni di minori versamenti anziché prendere una pensione di 36.500 euro annui si fermerebbe a circa 30mila.

Le conclusioni di Patriarca mettono sullo stesso piano le “pensioni d’oro” che la maggioranza ha preso di mira e le nuove anzianità. Con queste nuove misure «non solo determinano uno squilibrio finanziario statico che si colma con più debito pubblico, ma si determinano le condizioni per un aumento dello squilibrio dinamico e un aggravamento del problema delle pensioni non giustificate dai contributi pagati che non è certo o solo di quelle d’oro».

 

Fonte: www.ilsole24ore.it. Da questo link è possibile consultare le tabelle predisposte da “Il Sole 24 Ore” , pubblicate alla fine dell’articolo




INPS: medici premiati se tagliano prestazioni e invalidità

Incentivi sotto forma di integrazioni del salario ai medici INPS che tagliano le prestazioni dell’Istituto: è l'”aberrante” effetto che si palesa a seguito della determinazione presidenziale n. 24 del 13/03/2018, ovvero il c.d. “Piano della Performance 20182020” (quindi già in vigore), con cui l’INPS ha individuato per i suoi dipendenti gli obiettivi da raggiungere per accedere ad alcune forme integrative/aggiuntive di salario.

 

MEDICI INPS: PIÙ TAGLI LE PRESTAZIONI, PIÙ GUADAGNI

Quanto più si revocano le prestazioni di invalidità civile e quanto più vengono annullate le prestazioni dirette per malattia che l’ente fornisce, tanto più guadagneranno i medici a fine anno“.
Sarebbe questo, in estrema sintesi, il messaggio che l’Istituto avrebbe inviato ai propri medici, ha sottolineato Vittorio Agnoletto in un post sul suo blog, ospitato da ilfattoquotidiano.it.

In pratica, a pagina 61 dell’allegato tecnico alla menzionata determinazione presidenziale firmata dal presidente INPS Tito Boeri, al paragrafo “Obiettivi produttivi ed economico finanziari dei professionisti e medici” sono ricompresi, come si legge al comma 3.1.1., “i seguenti obiettivi per il cui raggiungimento professionisti legali e medici svolgono un ruolo decisivo”.

Si tratta, per i medici in servizio presso l’INPS di:

  • Vmc (visite mediche di controllo);
  • Annullamento prestazioni dirette malattia;
  • Revoche prestazioni invalidità civile;
  • Azioni surrogatorie.

 

INCENTIVI PER LA REVOCA DELLE PRESTAZIONI: LE CONSEGUENZE

Una simile previsione potrebbe comportare conseguenze facilmente immaginabili: ad esempio, stante gli obiettivi posti al medico per ottenere incentivi o premi, il cittadino che si vede revocare o negare un beneficio (ad esempio l’invalidità civile) potrebbe legittimamente dubitare che il dottore abbia agito secondo “scienza e coscienza” come dovrebbe fare secondo il giuramento professionale, e ipotizzare, invece, che questi abbia inteso perseguire un interesse economico personale.

Alla sfiducia dei cittadini nei confronti dell’amministrazione pubblica, si contrappone anche quella dei dottori che, invece, agiscono secondo il proprio dovere professionale: anche questi si vedrebbero penalizzati nel vedersi riconoscere premi decisamente inferiori rispetto ai colleghi che agiscono per i propri interessi per ottenere guadagni accessori.

D’altronde, i circa 900 i medici che operano presso l’INPS da esterni, quindi con partita IVA, e che costituiscono la maggioranza di coloro che compongono le Commissioni e sul cui operato il dirigente medico strutturato esprime un parere a fine anno, sono consci che le loro decisioni contribuiranno a determinare il premio economico del loro diretto superiore.

 

LE POLEMICHE CONTRO GLI INCENTIVI AI MEDICI INPS

L’allarme è stato lanciato in prima battuta da ANMI (Associazione nazionale medici Inps) che nel comunicato n. 12 dello scorso 18 settembre 2018, ha contestato questi obiettivi, ritenendo che “alcuni siano incompatibili con le norme deontologiche (revoca di prestazioni di invalidità civile) e altri non ricompresi nell’ambito delle attività svolte dal medico dipendente (VMC annullamento delle prestazioni dirette di malattia) o correlati all’occorrenza di eventi traumatici che prescindono del tutto dall’impegno professionale del medico INPS (surroghe)”.

Sulla vicenda, sempre tramite le pagine del Fatto Quotidiano, è intervenuto anche il presidente della FNOMCeO, Filippo Anelli: “Non siamo i medici dello Stato ma del cittadino. Questo incentivo, se confermato, è un’aberrazione per la professione medica e segna il tradimento di principi costituzionali. Chiunque debba valutare, sappia che siamo contrari”.

Dopo l’intervento dell’Ordine dei Medici e delle associazioni a tutela dei disabili, anche lo stesso ministro della Salute Giulia Grillo ha chiesto all’INPS di chiarire questa metodologia, anche a suo parere “contraria alla deontologia della professione medica”.

Secca la replica del Presidente dell’INPS, Tito Boeri, che parla di una questione “fondata sul nulla” e sostiene che si tratterebbe di un incentivo “introdotto in virtù di una sentenza del Consiglio di Stato che prevede l’introduzione di un sistema incentivante” volto alla “riduzione del debito pubblico e al risparmio”.

Inoltre, ha soggiunto Boeri, “Sono obiettivi aggregati dell’istituto a livello regionale, il singolo medico non ha effetti revocando invalidità. Il medico risponde sulla deontologia alla giustizia civile e penale, oltre che alla propria coscienza”.

 

SINDACATI CONTRO INPS: “RIVEDERE IL PIANO, LEDE I PRINCIPI A CUI L’ATTIVITA’ MEDICA DEVE ISPIRARSI”

Tuttavia, questo intervento non ha affatto placato le polemiceh: contro la delibera che ha fissato tra i criteri di valutazione per la retribuzione di risultato dei medici la riduzione delle prestazioni di malattia le revoche dell’invalidità civile, sono insorti nei giorni scorsi anche i sindacati.

Nel documento a firma congiunta, le tre sigle confederali FP CGIL, CISL FB e UILPA hanno bollato l’erogazione di simili premi di risultato ai medici come lesiva dei principi di libertà e di indipendenza della professione medica”.

Inoltre, le associazioni hanno sottolineato il rischio dell’incentivarsi di “comportamenti contrari a quei principi di rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona cui l’attività professionale medica deve costantemente ispirarsi”. Da qui la netta richiesta di rivisitare immediatamente l’Allegato Tecnico al Piano Performance.

Secondo USB (Unione Sindacale di Base), invece, i premi di risultato legati agli obiettivi di contenimento della spesa sono il frutto di “una politica odiosa attuata sulle spalle della parte più debole del paese” e, pertanto, ha richiesto l’immediata cancellazione degli obiettivi produttivi ed economici dei medici INPS elencati nel Piano della Performance.

 

Fonte: www.studiocataldi.it