Report Fisac Cgil, inflazione cala ma redditi da lavoro non recuperano

Susy Esposito: “Il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, 11 aprile sciopero”

Inflazione in calo, grazie alla flessione dei prezzi energetici, ma che tende a mantenersi alta nel carrello della spesa. Salari in recupero per effetto della contrattazione ma ancora abbondantemente lontani dal compensare il divario inflattivo. È il quadro delineato dalla nota congiunturale di marzo dell’Ufficio Studi  & Ricerche della Fisac Cgil che si inserisce in un quadro macroeconomico definito “high for longer“, ovvero fatto di tassi di interesse elevati per molto tempo.

In generale, osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, “l’ipotizzato rischio di forte recessione non si è, al momento, palesato nonostante una inflazione in lenta diminuzione e una politica monetaria che continua a essere restrittiva. Ma il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, che grava su dipendenti e pensionati e che incentiva l’evasione mentre intere categorie economiche continuano a non pagare le imposte dovute. Ed è anche per questo che sciopereremo l’11 aprile insieme alla Uil, perché ‘Adesso Basta!’, è ora di una giusta riforma fiscale”.

Inflazione e salari

L’incremento dei salari, spiega la nota congiunturale della Fisac Cgil, “seppur in recupero grazie alla contrattazione, è ancora abbondantemente lontano dal compensare pienamente il divario inflattivo: la decisa decelerazione dell’inflazione nel corso del 2023 ha ridotto la distanza tra la dinamica dei prezzi (Ipca) e le retribuzioni contrattuali a circa tre punti percentuali, meno della metà di quella osservata nel 2022”. Importante rilevare come questo dato, si legge, “sia fortemente influenzato dai rinnovi contrattuali dei settori pubblici, meno da quelli dei settori privati”.

Inoltre, prosegue la nota dell’Ufficio Studi & Ricerche Fisac Cgil, “alla fine del 2023, nei 44 contratti in vigore per la parte economica solo il 47,6% dei dipendenti totali (48% del monte retributivo) risultava coperto mentre ben 6,5 milioni di lavoratori (il 52,6%) attendono il rinnovo dei loro 29 contratti nazionali. Altro dato allarmante, rilevato sempre dall’Istat, è quello per cui il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi del dicembre 2023, in sintesi è andato perduto un ulteriore anno”.

Tassi bancari, depositi e prestiti

Tassi in calo, riporta la Fisac Cgil. L’Euribor a 3 mesi, che a novembre registrava una media del 3,98%, con un picco del 4% di metà mese, si attesta a un livello del 3,90%. Il tasso EurIRS a 10 anni, più sensibile alle dinamiche di lungo periodo, è collocato al 2,63% in discesa rispetto ai livelli di novembre 2023 (pari ad una media superiore al 3%). L’intera curva per durata di questi indicatori si trova oggi abbondantemente sotto la soglia del 3%; l’indicatore trentennale registra, a marzo 2024, valori intorno al 2,3%.

Il calo dei tassi di riferimento però, si rileva nella nota, “non ha ancora determinato una inversione di tendenza: il credito alle famiglie e alle società non finanziarie risulta, a febbraio 2024, ancora in contrazione del 2,7%. Secondo dati rilevati da Crif per il 2023 la domanda di mutui delle famiglie si è ridotta del 17,2% rispetto al 2022 mentre a settembre dello stesso anno i nuovi mutui erogati segnavano il -24% (-5,2% le surroghe)”. Interessante notare “come il 38,8% dei mutui richiesti sia di durata tra i 25/30 anni e che l’età dei richiedenti sia attestata tra i 45 ed i 75 anni per più di un terzo (35,4%) mentre i più giovani ne rappresentino meno del 30%”.

Qualità del credito e sofferenze

Nel primo mese del 2024 risultano in aumento le sofferenze bancarie al netto delle svalutazioni, come rilevato da Abi. L’incremento, pari a 2,2 miliardi di euro (+14,2% rispetto a dicembre 2023) è certamente collegato alle crescenti difficoltà del comparto piccole imprese nel far fronte al costo del credito. “Tuttavia, in termini assoluti, siamo ancora molto lontani – spiega la nota della Fisac Cgil – rispetto al picco di 88,8 miliardi di euro di sofferenze nette raggiunto dal sistema bancario italiano nell’ultimo trimestre 2015”.

Considerazioni

“Viviamo un momento di grandi contraddizioni – osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito -. Alti tassi di interesse fanno aumentare il rischio di un ‘hard landing’, di un atterraggio critico, che presuppone recessione, perdita di posti di lavoro e impoverimento delle famiglie. Eppure queste conseguenze non si sono determinate: siamo in una dimensione di ‘soft landing’ dove però aumentano diseguaglianze e povertà e dove la ricchezza è sempre più polarizzata”.

Il nostro Paese, spiega Esposito, “è completamente immerso in queste contraddizioni, acuite dalle storiche carenze strutturali. Dopo alcuni ed eccezionali anni di crescita, frutto di politiche post pandemia, siamo tornati a valori poco superiori allo zero mentre viene consegnata agli effetti del Pnrr (e dei suoi ritardi ed incognite) una qualche risposta. Le politiche del Governo, che celebra apparenti tassi di occupazione e reddito più elevati, mentre la disoccupazione giovanile continua ad essere la seconda più elevata d’Europa e la precarietà imperversa, ignorano i bisogni della maggioranza di lavoratrici, *lavoratori e *pensionate/i, favorendo viceversa, attraverso il fisco, le fasce più benestanti della popolazione.

Adesso Basta: l’11 aprile sarà sciopero generale, conclude Esposito.

 

Scarica la nota congiunturale a cura dell’Ufficio Studi & Ricerche della Fisac Cgil




Banche, report Fisac Cgil: contratto ABI batte inflazione

Con riduzione orario lavoro settore bancario italiano in Ue solo dietro Francia


Un contratto che batte l’inflazione di 8 punti percentuali, con aumenti retributivi che rilanciano il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori, e che allo stesso tempo riduce l’orario di lavoro a parità di salario: nel confronto europeo solo nel settore bancario francese si lavora meno ore. È in estrema sintesi il quadro che emerge da una elaborazione dell’Ufficio Studi e Ricerche della Fisac Cgil sui due elementi che qualificano il nuovo contratto nazionale del settore del creditizio e finanziario, siglato a Roma lo scorso 24 novembre, tra organizzazioni sindacali, Abi e Intesa Sanpaolo, ovvero aumento retributivo e riduzione dell’orario di lavoro.

Due grandi obiettivi centrati, afferma la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, “la crescita delle retribuzioni e la riduzione dell’orario di lavoro. I salari in Italia devono assolutamente crescere. È la sola via per combattere l’inflazione, ridando alle lavoratrici e ai lavoratori potere d’acquisto, rilanciare la domanda interna, e con essa la crescita, e la produttività stessa. In più abbiamo dato un concreto segnale sul fronte dell’orario di lavoro, riducendolo a parità di salario”.

RETRIBUZIONI

Il rinnovo che interessa i circa 270 mila bancari del settore Abi, sostiene lo studio della Fisac Cgil, batte l’inflazione acquisita nel 2023 e prevista fino a fine 2025. Il portato complessivo, infatti, tra dinamica della crescita salariale da previsioni del contratto (+3,5%) e gli aumenti a regime (+15%), determina un totale di incremento del 18,5%, ovvero un +7,9% rispetto all’inflazione cumulata acquisita e prevista (+10,6%). Il rinnovo di questo contratto, infatti, si innesta in una dinamica di crescita salariale legata a doppio filo con la contrattazione stratificata nel tempo, fatta di scatti di anzianità, regole sugli inquadramenti e ultima tranche del contratto del 2019.

ORARIO DI LAVORO

La riduzione dell’orario di lavoro settimanale, sancita nel rinnovo del contratto, che passa a 37 ore di lavoro, colloca in ambito europeo il settore bancario del nostro paese subito dopo la Francia, dove l’orario di lavoro settimanale è pari a 35,2 ore, e prima di Spagna (37,5) e Germania (38,6). Più in generale l’orario di lavoro del contratto bancario Abi dal primo luglio del prossimo anno, entrata in vigore delle 37 ore, così come previsto dal rinnovo del 23 novembre, sarà del 2% inferiore rispetto alla media di settore. Anche il raffronto con le ore di lavoro settimanali concordate collettivamente in cinque settori selezionati in Europa vede il settore bancario nelle prime posizioni. Il settore della chimica nella media Ue registra 37,8 ore di lavoro settimanali, la Metallurgia 38, la Pa 37,7, il commercio al dettaglio 38,5 e il bancario 37,7.

CONCLUSIONI

Un rinnovo che arriva, riporta lo studio della Fisac Cgil, in uno scenario ancora estremamente positivo per il settore bancario. Nei primi 9 mesi del 2023 i maggiori istituti bancari hanno registrato un incremento degli utili costante, trainati dai ricavi di interessi, pari a circa 16 miliardi, mentre gli utili stimati a fine anno, in assenza di una dinamica delle sofferenze tale da comprometterne il risultati, può attestarsi ad oltre 30 miliardi. “Abbiamo ridato centralità al contratto nazionale, in una fase di grandi cambiamenti ma anche di forte remunerazione del settore – commenta la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito -. Ma è anche un risultato che dimostra quanto sia necessario, a dispetto delle scelte fatte da questo governo, che ci sia una legge sul salario minimo e sulla rappresentanza per ridare centralità al lavoro, riconoscendo il valore delle lavoratrici e dei lavoratori”.

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Inflazione: a ottobre crollerà, ma il governo non ha alcun merito

Fra poche settimane verrà sbandierato come un successo dell’Italia, che andrebbe meglio dell’Europa. Ma anche prima della notizia ufficiale, si può anticiparlo già ora. È praticamente certo che con i dati di ottobre l’inflazione tendenziale italiana crollerà dal 5,2-5,1% di agosto-settembre giù giù, fino in area 2,5%. Non in virtù della politica del governo, ma solo per i numeri del passato e per le regole applicate.

Tale miglioramento repentino è scontato, salvo disastri travolgenti entro fine mese, per un motivo molto semplice, come vedremo. Ma nessuno ne parla, perché i giornalisti del settore sanno solo parafrasare i comunicati dell’Istat. Basta ragionare sui dati, tutti pubblici, dell’indice Foi del costo della vita per le famiglie di operai e impiegati, calcolati dall’Istat. E conoscere la regoletta con cui viene ricavato il dato più usato come misura del fenomeno, cioè l’inflazione tendenziale annua. Lasciamo correre che il termine tendenziale è infelice, perché essa di per sé non indica nessuna tendenza, ma riporta solo un dato relativo al passato.

Fatto sta che per l’inflazione tendenziale si considera la variazione dei prezzi rispetto allo stesso mese dell’anno prima. Così ogni mese si tiene conto del nuovo valore dell’indice Foi, relativo al mese concluso, e si scarica quello di 13 mesi prima. Quindi l’inflazione annua dell’ottobre 2023 dipenderà da quella del mese stesso e non conterà più nulla l’ottobre 2022. Vi fu allora un aumento anomalo per la revoca della riduzione delle accise sui carburanti: togliendole, i prezzi salirono di brutto. Ma qui il discorso non verte sulle cause. Il punto è che per l’ottobre 2022 in Italia la variazione fu altissima: +3,3% rispetto al precedente mese di settembre. Proprio qui sta il busillis.

Finora l’inflazione annua tendenziale italiana è stata tenuta alta da quell’impennata. Ma dopo i prezzi sono aumentati in misura contenuta: in tutto solo l’1,8% nell’arco di dieci mesi, da novembre 2022 a settembre 2023, il che spiega pure le ultime cedole basse dei BTp Italia. Essendo semestrali, anche per esse era ormai archiviata l’impennata del 3,3% dell’ottobre dell’anno scorso.

Diverso è il discorso per l’inflazione dell’eurozona, misurata dall’indice CptFemu. In quello stesso mese salì (solo) dell’1,5%; e dopo è stata sopra quella italiana grosso modo di un 1%. Per cui per l’eurozona ci si può attendere un calo, ma non un crollo. Inoltre un risparmiatore deve tenere conto che l’inflazione non si ripercuote sui BIp-i, Oat-ei ecc. come sui BTp Italia. Di semestre in semestre aumenta o al limite diminuisce il valore nominale, ma ciò incide poco sulle cedole di interessi, che il risparmiatore periodicamente incassa. Ma ciò non toglie che i titoli indicizzati all’inflazione restano fra le alternative d’investimento più prudenti.

 

Articolo di Beppe Scienza su “Il Fatto Quotidiano” del 23/10/2023




Rapporto Inps, un operaio vive 5 anni meno di un dirigente, dimissioni volontarie in aumento

Un operaio ha un’aspettativa di vita di 5 anni inferiore a quella di un dirigente. A dirlo è il rapporto annuale dell’Inps, presentato mercoledì 13 settembre alla Camera dei deputati. «Un ex-lavoratore dipendente, con un reddito coniugale nella fascia più bassa della distribuzione, ha un’aspettativa di vita a 67 anni, quasi 5 anni inferiore rispetto a quella di un ex-contribuente al Fondo Inpdai», il Fondo previdenziale dei lavoratori dirigenti, o un ex contribuente volo o telefonici, «con reddito nella fascia più alta della distribuzione. Tali differenze tra le donne sono meno pronunciate, ma comunque rilevanti», spiega l’Istituto nel documento.

«La presenza di differenze così significative è problematica dal punto di vista dell’equità e anche della solidarietà in quanto l’attuale sistema previdenziale applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato, che presuppone speranza di vita indifferenziata», spiega il rapporto. L’aspettativa di vita varia in modo significativo da Nord a Sud: «Un residente in Campania nel primo quinto della distribuzione del reddito ha una speranza di vita di quasi 4 anni inferiore ad una residente in Trentino-Alto Adige con reddito nel quinto più alto».

Dimissioni volontarie in aumento

Nel 2022 l’input complessivo di lavoro, misurato in settimane, è risultato del 4,1% più alto di quello del 2019 mentre il monte dei redditi da lavoro e delle retribuzioni, corrispondente all’imponibile previdenziale, si è avvicinato ai 650 miliardi di euro, con un aumento dell’8% rispetto al 2019. «La temuta grande ondata di licenziamenti post pandemia – ha spiegato la commissaria dell’Inps, Micaela Geleranon si è verificata e la Naspi, così come gli altri ammortizzatori sociali, quali la malattia e la Cassa integrazione guadagni, sono tornati a svolgere un ruolo ordinario di supporto del lavoratore in periodi temporanei di inattività». Gelera segnala l’aumento delle dimissioni volontarie (+26% rispetto al 2019) ma «non è un ritiro dal mercato del lavoro – spiega – bensì un’aumentata mobilità, alla ricerca di migliori condizioni».

Occupazione al 61%

L’occupazione in Italia è al massimo storico, il 61%, evidenzia il rapporto, ma permangono alcune criticità derivanti dall’invecchiamento della popolazione, dal persistente divario territoriale tra Nord e Sud, nonché dalla divaricazione tra lavoro dipendente, in aumento, e lavoro autonomo, in diminuzione. Inoltre, i principali indicatori del mercato del lavoro italiano, seppur migliorati rispetto al passato, rimangono molto al di sotto delle medie dei paesi dell’Unione Europea o di paesi come Francia e Germania.

Pensioni: gli uomini percepiscono il 36% in più delle donne

La spesa per pensioni nel 2022 è stata di 322 miliardi, di questi il 56% è andato agli uomini, che percepiscono assegni del 36% superiori a quelli delle donne, spiega l’Inps. Questo divario è dovuto alle carriere intermittenti delle lavoratrici e alle retribuzioni che per le donne continuano a essere mediamente più basse: 1.932 euro contro 1.416 euro. Nel 2022 le nuove pensioni sono state un milione e mezzo, calo del 3,1%. L’età media di uscita delle donne è superiore a quella degli uomini: 64,7 anni contro 64,2. Nel 2012 era il contrario: 62 anni per gli uomini e 61,3 per le donne.

Gli effetti dell’inflazione su famiglie e pensionati

L’aumento dei prezzi ha inciso sul potere d’acquisto delle famiglie in modo non omogeneo, evidenzia l’Inps, e sulla base dei dati Istat l’inflazione cumulata tra il 2018 e il 2022 sperimentata dalle famiglie del primo quinto della distribuzione della spesa sfiora il 15%, cinque punti percentuali in più dell’inflazione sperimentata dalle famiglie dell’ultimo quinto. Le famiglie più colpite dall’impennata dell’inflazione nel 2022 sono quelle dei pensionati, specialmente quelle appartenenti ai due quinti di spesa più poveri, che perdono tra il 2018 e il 2022 il 10,6% del reddito reale (perdita oltre dieci volte maggiore delle famiglie con solo redditi da lavoro); fortemente colpite risultano anche le famiglie di pensionati dei quinti più ricchi, con una perdita del reddito reale pari al 7,5%.

Fonte: Corriere.it




Emergenza mutui, lavoratori in ginocchio

Aumento dei tassi, alta inflazione, prezzi alle stelle, salari in calo: queste le componenti di una situazione che sta mettendo in crisi le famiglie.


 

La corsa al rialzo dei mutui non si ferma. Lo sanno bene le famiglie alle prese con un prestito per l’acquisto della prima casa: se è a tasso variabile si ritrovano a sborsare 212 euro in media in più al mese rispetto all’anno scorso, con un aumento medio del 44 per cento.

Secondo le rilevazioni di Federconsumatori, che ha fatto i calcoli su un mutuo di 115 mila euro per 25 anni, mentre nel 2021 il tasso andava dallo 0,60 allo 0,98 per cento a seconda della banca di cui si è clienti, nel 2022 è passato all’1,45-2,56 per cento, per arrivare a toccare nel 2023 il 4,67 nella migliore delle ipotesi, e il 6,27 nella peggiore. Tradotto: quest’anno rate più care di minimo 2.300, massimo 2.900 euro.

Cifre insostenibili, soprattutto perché si aggiungono alla crescita generalizzata dei prezzi, dalle bollette agli alimentari. E che sono destinate ad aumentare. Per i prossimi mesi, infatti, non si prevede uno stop. Secondo quanto confermato dalla presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, ci saranno ulteriori incrementi entro fine anno, a luglio e a settembre.

Rialzo imponente e veloce

“Si tratta della manovra di rialzo dei tassi più imponente e veloce della storia dell’istituzione di Francoforte – scrive in una nota l’ufficio studi della Fisac Cgil -. La Bce ha portato il tasso di rifinanziamento principale al 4 per cento dallo 0,5 che si era registrato fino a ottobre 2022”. Entro dicembre, quindi, il tasso di riferimento potrebbe attestarsi al 4,5.

L’obiettivo della Bce è domare l’inflazione, che in tutti i Paesi della zona euro ha visto un’impennata straordinaria a fine 2022: in Italia ha toccato quota più 12,3 per cento, la media dell’anno è stata 8,1. Nonostante queste manovre, però, l’inflazione è rimasta molto alta dappertutto (tranne che in Spagna), comunque superiore al target che ha fissato la Bce, che è intorno al 2 per cento.

Politica troppo tradizionale

È la classica politica da banca centrale: in momenti di alta inflazione, si alzano anche i tassi. Questo avviene in assenza di una più profonda comprensione delle cause di fondo che sono alla base del fenomeno, scrive Fisac Cgil, e adottando le raccomandazioni stantie sul contenimento delle rivendicazioni salariali per evitare la cosiddetta spirale salari-inflazione.

Ma la realtà è molto più complessa. Nei primi nove mesi del 2022 l’inflazione si è innalzata a causa della crescita del costo dell’energia, in particolare del gas, dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Tra settembre 2022 e luglio 2023 le quotazioni dell’energia sono crollate, ma l’inflazione è scesa solo in parte (le previsione a fine 2023 parlano di un più 5,5 – 6,5 per cento). Il motivo? L’incremento dei profitti delle grandi aziende (lo conferma il Fondo monetario internazionale), e il fatto che i prezzi crescono, appunto, mentre i salari restano fermi al palo, anzi calano.

“La Bce ha gestito questo cambio di politica monetaria in maniera troppo repentina e troppo tradizionale – afferma Cristian Perniciano, che si occupa di politiche fiscali per la Cgil nazionale -: ha posto restrizioni al credito e quindi alla domanda. Il metodo adottato non va bene per questo tipo di incremento dell’inflazione. Il ragionamento è stato: abbassando la domanda si abbassa anche l’inflazione. Ma questo vale se l’inflazione è da domanda, come negli Usa. La nostra invece è dovuta all’incremento dei beni importati, gli energetici”.

Lavoratori colpiti più volte

Ricapitolando: a causa dell’inflazione crescono i prezzi di tutti i beni, dagli alimentari all’abbigliamento, dai carburanti alle bollette. Come risposta la Bce aumenta i tassi, e così aumentano anche i prestiti e i mutui a tasso variabile. Quindi le tasche dei cittadini-lavoratori vengono colpite due volte.

Ma almeno, verrebbe da dire, se si sono alzati i tassi di prestiti e mutui, si saranno alzate anche le remunerazioni dei depositi, con un vantaggio per chi ha soldi in banca. E invece no: il tasso di interesse applicato a maggio 2022 era 0,31, un anno dopo, 0,68 per cento. Va peggio ai conti correnti: si è passati da valori negativi allo 0,32 per cento. Questo accade anche perché le banche non hanno bisogno di liquidità. A guadagnarci, quindi, sono solo le banche.

Nel frattempo le famiglie e in particolare i lavoratori dipendenti hanno visto ridursi il salario reale: secondo l’Ocse, l’Italia è il Paese dove si è registrato il più forte calo tra le economia industrializzare. Meno 7,3 per cento nel primo trimestre del 2023, contro il meno 3,3 della Germania, meno 1,8 della Francia, meno 0,7 degli Stati Uniti.

Rinnovare i contratti

La ricetta è il rinnovo dei contratti: sono oltre 30 quelli in attesa, relativi a circa 7 milioni di dipendenti, oltre il 55 per cento del totale. “Per contrastare l’inflazione da profitti – afferma la segretaria generale di Fisac Cgil Susy Esposito – serve con urgenza rinnovare i contratti nazionali, con aumenti che siano in grado di compensare i gap inflattivi, oltre alla redistribuzione della maggior produttività settoriale. E serve agire parallelamente sul controllo dei prezzi, con un più stringente ruolo delle authority sulle tariffe e con la tassazione degli extra profitti registrati in questo periodo”.

Famiglie in emergenza

“Quella dei mutui si sta configurando come una vera e propria emergenza – rincara Michele Carrus, presidente di Federconsumatori -, sono sempre di più le famiglie in difficoltà con il pagamento delle rate che si rivolgono ai nostri sportelli per chiedere supporto. In questo senso, è ancora inadeguata l’opzione messa in campo dal governo, che permette di rinegoziare il mutuo a un tasso fisso, ma solo a determinate condizioni: la prima è quella di non risultare morosi. Soluzione che tra l’altro non tutti gli istituti di credito sono disposti ad applicare”.

Le proposte

“Il problema è che oggi le banche non la concedono la surroga, perché non sono obbligate – afferma Perniciano -. Le misure proposte dall’Abi sono soft e vengono lasciate alla discrezionalità degli istituti di credito. Il mutuo è un prodotto finanziario complesso e sofisticato e oggi ancora di più prima di sottoscriverlo servono attenzione e consulenza”.

Secondo l’associazione dei consumatori è necessario prevedere un ampliamento del fondo di solidarietà Gasparrini per i mutui sulla prima casa, concedendo l’accesso anche a chi è in mora da oltre 90 giorni, consentire la rinegoziazione del mutuo con rate sostenibili, per esempio differendo il pagamento di una quota degli interessi aggiuntivi maturati, aggiungendo rate in coda al piano di ammortamento, consentire la rinegoziazione o la surroga a tasso fisso (quella prevista in legge di Bilancio) anche ai morosi e ampliare la soglia Isee e il limite massimo del mutuo per fruire di questa opzione.

 

Fonte: www.collettiva.it




I furbetti dell’inflazione: così le banche hanno quasi raddoppiato i profitti grazie ai nostri soldi

Liquidità a costo zero grazie ai nostri conti corrente e maggiori rendimenti dovuti a inflazione e aumento del costo del denaro: è boom di extraprofitti, nel settore bancario, non redistribuiti quasi mai tra i risparmiatori. 


Un incendio con un estintore sempre meno efficiente. Si può riassumere così l’aumento dei prezzi che la BCE prova ormai, da oltre un anno, ad attenuare tramite l’aumento dei tassi di interesse. E l’inflazione, parola che ormai avevamo relegato ai ricordi del secolo scorso, è ormai entrata a far parte prepotentemente delle nostre vite. Ce ne rendiamo conto quando andiamo al supermercato o proviamo a sottoscrivere un mutuo o un finanziamento. O quando sospiriamo davanti al conto di un ristorante o di una bolletta, magari arretrata.

Ma per qualcuno l’aumento dei prezzi è stato finora un affare. E se a lungo si è parlato degli extra-profitti dei colossi dell’energia, l’evidenza è che gli utili delle banche, l’anno scorso, sono letteralmente volati. Come? Facendo affari con i nostri risparmi e remunerandoci infinitamente meno di quanto incassato.

I mega-profitti delle banche italiane

A fare luce sui mega-profitti delle banche italiane ci ha pensato ultimamente uno studio della Fisac-Cgil che ha preso in considerazione i sette maggiori gruppi bancari italiani nel corso del 2022. Il loro utili si sono attestati su 13,3 miliardi di euro: l’aumento rispetto al 2021 è del +60,5%. Lo studio evidenzia come questa crescita sia trainata essenzialmente dall’aumento dei margini di interesse (che comprendono i nostri finanziamenti e i nostri mutui) e dai risultati finanziari degli investimenti effettuati. Il tutto mentre i costi rimangono tutto sommato stabili.

La congiuntura determinata da inflazione e costo del denaro ha generato per le banche forti utili. Abbiamo calcolato, solo guardando ai primi cinque grandi gruppi, che, considerando le operazioni di buyback (riacquisti di azioni proprie ndr), dopo il cambio di politica della Bce post pandemia, la remunerazione totale per gli azionisti, sia diretta che indiretta, è risulta essere pari ad oltre 10,5 miliardi di euro. Per l’intero settore parliamo di più del doppio. Si tratta di una ricchezza che va assolutamente redistribuita, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori del sistema bancario, e messa a disposizione per gli investimenti a sostegno del sistema paese” sottolinea Susy Esposito, segretaria di Fisac Cgil.

Come si vede gran parte degli utili (circa il 24,5%) sono stati divisi poi con gli azionisti in forma di dividendi: anche in questo caso la remunerazione è stata alta (+46,5%) rispetto al 2021. Quelli che non vedono un euro (o ne vedono molto pochi) sono ovviamente i correntisti e i dipendenti. Se infatti gli utili sono previsti in crescita anche nei prossimi anni, la stessa cosa non si può dire per quello che riguarda i lavoratori del settore.

Il settore bancario è infatti uno di quelli più sottoposto a dinamiche di automazione e digitalizzazione. Tradotto: i dipendenti si sono già ridotti e, tra prepensionamenti e piani di ristrutturazione, tenderanno a assottigliarsi sempre più. E  se gli utili non finiscono nelle tasche dei lavoratori e dei correntisti, finiscono indubbiamente nelle tasche dei manager: un CEO guadagna oggi in media come 86 lavoratori del settore. I due top manager di Intesa San Paolo e Unicredit guadagnano qualcosa come 7 milioni e mezzo di euro l’anno.

Ma al di là di tutto questo, la vera domanda è: perché l’inflazione ha favorito i profitti bancari? E cosa c’entrano i nostri risparmi?

Come nascono gli extraprofitti delle banche e cosa c’entra l’inflazione

Il presupposto è che la maggior parte della ricchezza degli italiani è ancora accumulata nel patrimonio immobiliare e nei conti correnti. Nei primi mesi del 2022, i soldi depositati dagli italiani nei conti correnti sfioravano i 1159 miliardi di euro. Parliamo di soldi raccolti dalle banche a costo zero che non fruttano praticamente nulla ai correntisti. E che, in un momento di rialzo dell’inflazione e dei tassi diventano uno strumento importantissimo di profitto.

“L’aumento degli utili delle banche è legato all’aumento dei tassi di interesse: da un lato i prestiti per le imprese e le famiglie sono diventati più onerosi, dall’altro lato una parte importante della raccolta bancaria non ha registrato aumenti significativi – osserva Paolo Canofari, professore Associato in Politica Economica presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali dell’Università Politecnica delle Marche – È inutile osservare che nessuno di fatto va a contrattare nuove condizioni sui conti deposito o conti corrente. Di fatto gran parte della raccolta è rimasta a costo zero a fronte di rendimenti crescenti. Le banche lucrerebbero di meno se gli aumenti andassero di pari passo al costo della raccolta, ma quest’ultimo è aumentato di pochissimo. Del resto i titoli bancari stanno andando da tempo molto bene: è un simbolo della loro attrattività dal punto di vista dei profitti”.

Per rendersi conto di cosa stiamo parlando è sufficiente dare uno sguardo al grafico sotto. Il tasso di interesse dei conti corrente nominali è praticamente negativo se si considerano le spese di gestione. La remunerazione dei conti deposito aumenta, ma si mantiene su cifre abbastanza basse rispetto a quelli applicati sui finanziamenti.

Come si vede chiaramente il tasso di interesse medio chiesto per i finanziamenti (come i mutui o l’acquisto di un’auto) è nettamente superiore a quello offerto come rendimento sui conti deposito. Parliamo di un prodotto finanziario dove mettere da parte somme di denaro (vincolate o meno) con margini di redditività superiore a un comune conto corrente, ma soggetto a un numero di operazioni molto più limitato. Del resto, se è evidente che le banche offrono una serie di prodotti finanziari a rendimenti maggiori, sono ancora oggi i conti correnti e i conti deposito le destinazioni principali dove gli italiani depositano i loro risparmi.

E, al di là degli investimenti più rischiosi e dei finanziamenti, le banche possono utilizzare i soldi dei correntisti in molte operazioni a rischio zero. Potrebbero, in casi limite ad esempio, depositare in maniera “safe” i propri depositi presso la banca centrale, senza rischiare nulla. Il deposit facility rate della BCE ha raggiunto, al momento, il 3,5% di interessi. Ma le opzioni sono molto variegate.

“Le banche possono acquisire anche titoli di stato, per esempio italiani, e avere nel decennale un business del 4/ 5%. Più la Bce alza i tassi più i nuovi titoli diventano redditizi. Parliamo sempre di operazioni a redditività non elevata, ma che possono comunque fruttare se lo confrontiamo con la raccolta a costo zero proveniente dai correntisti” osserva Paolo Canofari.

Il caso della Sylicon Valley Bank e chi prova a “rompere le righe”

Quindi l’inflazione e il rialzo dei tassi è sempre buono per il sistema bancario? Non sempre, come la vicenda della Silycon Valley Bank ci ha dimostrato. Una crisi legata essenzialmente al fatto che, oltre alle difficoltà di tutto il settore tecnologico del post-pandemia, la banca aveva investito in obbligazioni e titoli di stato che si sono svalutati con l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Fed.

Il punto è stato quello di non diversificare gli investimenti e in questo contesto, la consueta “prudenza”, attribuita al sistema bancario italiano potrebbe rivelarsi un punto di forza come osserva Paolo Canofari: “È sostanzialmente un problema di diversificazione degli investimenti, è chiaro che se nella ‘pancia’ hai solo titoli il rischio è più elevato. Le banche italiane non corrono, a mio avviso, questo rischio”. Ma la gallina dalle uova d’oro costituita dagli alti tassi non può durare all’infinito: “In generale l’aumento dei tassi può generare sul lungo periodo instabilità finanziaria. Non sappiamo per quanto la BCE aumenterà i tassi, ma non potrà certo all’infinito. Se un domani le imprese o i risparmiatori non riuscissero a pagare più i finanziamenti si innescherebbe una spirale recessiva che colpirebbe anche gli istituti di credito. Sul lungo termine, sia l’inflazione, sia l’aumento del costo del denaro, non conviene a nessuno” conclude Canofari.

Per il momento però conviene ancora, e come spesso accade, conviene alla fascia più ricca del Paese: “La remunerazione dei depositi non sta andando sicuramente di pari passo con l’andamento dell’inflazione – osserva Susy Esposito, segretaria generale di Fisac Cgil – d’altronde la stessa raccolta si sta restringendo, anche in ragione di questo disallineamento. La verità è che le persone stanno perdendo potere di acquisto, mentre le banche stanno generando attivi perché c’è quella parte di patrimonio di ricchezze concentrate che si difende dall’inflazione. Essendo il nostro un paese diseguale, i ricchi e i ricchissimi garantiscono utili alle banche attraverso la gestione del loro patrimonio”

E il punto è che sembra esserci una sorta di cartello tra le grandi banche italiane per la concessione di tassi di interesse, mutui e finanziamenti: una dinamica evidenziata da uno studio di Unimpresa. E a provare a sparigliare le carte ci sono le nuove banche on-line. Un segmento momentaneamente marginale, ma destinato a crescere rapidamente, anche grazie a una redistribuzione degli utili più equa e un rendimento maggiore dei tassi di interesse.

Del resto basta confrontare le migliori offerte sui conti deposito on-line per trovarci di fronte a una platea di istituti giovani che operano quasi esclusivamente nel digitale come: Illimity bank, Cherry Bank, Banca Progetto, Banca Aidexa e molti altri. In molti di questi casi i rendimenti si attestano sul 4% annuo con una remunerazione per i correntisti maggiormente adeguata ai profitti. Segno che il digitale potrebbe portare dei sostanziali cambiamenti anche in uno dei settori, da sempre, più restio alla concorrenza e al cambiamento.

 

Fonte: Today.it




Fisac Unicredit: FAQ su erogazione straordinaria welfare €800 – scad. 27/12/2022

  1. A chi è destinato il bonus inflazione di 800 euro?
    Secondo quanto stabilito nel Verbale di riunione tra azienda ed OO.SS. del 1° dicembre 2022, l’erogazione straordinaria welfare una tantum di 800 euro è prevista in favore di tutti i dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato/apprendistato (esclusi i dirigenti) in servizio alla data del 1° dicembre 2022
  2. Il bonus inflazione viene proporzionato alla durata dell’orario di lavoro osservato per il personale a tempo parziale?
    No. Il bonus non viene proporzionato alla durata dell’orario di lavoro ed è quindi pari a 800 euro anche per il personale a tempo parziale
  3. Nel caso di inizio del rapporto di lavoro durante l’anno 2022 il bonus inflazione viene proporzionato ai mesi di servizio prestati nel 2022
    No. Il bonus non viene proporzionato ai mesi di servizio prestati nel 2022 ed è quindi pari a 800 euro in caso di inizio del rapporto di lavoro durante il 2022.
  4. Il bonus è soggetto a limiti di reddito?
    No. Il bonus non è soggetto a limiti di reddito.
  5. I dipendenti che cessano dal servizio nel 2023 per ingresso nella Sezione Straordinaria del Fondo di Solidarietà o per pensionamento diretto percepiscono il bonus inflazione?
    Si. Per coloro che cessano dal servizio nel 2023 e che non potranno utilizzare il c/welfare al momento della sua riapertura, gli eventuali residui non utilizzati entro il 27/12/2022 verranno accreditati automaticamente nella posizione individuale del Fondo Pensione. Ricordiamo che la posizione previdenziale a capitalizzazione individuale deve essere aperta ed in grado di ricevere questa tipologia di versamenti. Tali somme concorreranno al limite annuale di € 5.164,57 di deducibilità dal proprio imponibile fiscale, unitamente ai versamenti volontari, alle contribuzioni effettuate per familiari, al reintegro delle anticipazioni ed al contributo aziendale (quest’ultimo limitatamente alle posizioni a capitalizzazione individuale).
  6. I dipendenti che sono nella Sezione Ordinaria del Fondo di Solidarietà percepiscono il bonus inflazione?
    Si, i dipendenti al 1° dicembre che usufruiscono delle prestazioni della Sezione Ordinaria del Fondo di Solidarietà hanno diritto al bonus inflazione. Al contrario, coloro che sono al Fondo di Solidarietà Sezione Straordinaria, non essendo più in servizio non hanno diritto a questo bonus.
  7. I dipendenti Lungo Assenti come possono usufruire del bonus?
    Lungo assenti: in caso non abbiano la possibilità di accedere alla piattaforma del Conto Welfare, possono contattare l’Help Desk dedicato, scrivendo alla casella e-mail [email protected] oppure chiamare il numero 02/33485005 attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle 13:00 per la gestione delle richieste. I colleghi con accesso alla piattaforma potranno invece aprire un ticket direttamente dal Conto Welfare o utilizzare il canale telefonico.
  8. Quando scade la possibilità di utilizzare il bonus inflazione di 800 euro?
    La scadenza è fissata al 27/12/2022 per i soli servizi di rimborso di bollette relative ad utenze domestiche (luce, gas, acqua) del 2022, dei buoni spesa e dei buoni carburante
  9. Si possono utilizzare eventuali importi residui relativi a VAP e bonus conferiti nel 2022 e già presenti nel conto Welfare?
    Si. Gli importi residui, già conferiti nel corso del 2022, potranno essere utilizzati fino al 27/12/2022, solo dopo aver utilizzato interamente il bonus inflazione di 800 euro e per i soli servizi di rimborso bollette, buoni spesa e buoni carburante.
  10. Cosa accade alle eventuali somme residue derivanti dal bonus inflazione di 800 euro e da VAP e bonus alla data del 27/12/2022?
    Le eventuali somme residue potranno essere utilizzate dal momento della riapertura del conto welfare e fino al 27/11/2023.
  11. Di quali bollette si potrà richiedere il rimborso?
    Si potrà richiedere il rimborso delle bollette relative alle fatture pagate nel 2022 dal dipendente per i consumi di utenze di luce, gas e acqua di competenza del 2022, anche se intestate ai familiari. Per familiari si intendono: coniuge, figli/e, fratelli, sorelle, generi e nuore, genitore, suocere/i (escluso il convivente more uxorio). Qualora l’utenza sia intestata al condominio deve essere riportata la quota a carico del dipendente (o familiare) come attestata dall’Amministratore e deve fare riferimento a spese consuntivate.
  12. Come si può ottenere il rimborso delle bollette?
    Per ottenere il rimborso è sufficiente inserire un’unica richiesta, comprendente anche più bollette, allegando il documento di autodichiarazione disponibile sul sito del conto welfare. Per le bollette della luce bisogna escludere la quota del canone RAI. Nel modulo di richiesta rimborso bollette, per i pagamenti non in contanti è necessario allegare due file sia nel campo “Giustificativo” sia in quello di “Attestato di pagamento”, pertanto occorre caricare due volte il modulo di autodichiarazione. Tale necessità non si presenta nel caso di pagamento in contanti: in tal caso sarà attivo solo lo spazio “Giustificativo” e quindi l’autodichiarazione andrà allegata una sola volta.
  13. Cosa accade in caso di errato inserimento della richiesta di rimborso delle bollette?
    In caso di errato inserimento della richiesta di rimborso bollette, la pratica viene messa in stato “da integrare”. Il dipendente riceverà successivamente una mail di alert con la motivazione del blocco ed avrà 2 giorni di tempo per integrare la pratica.
  14. Per quali buoni spesa si può utilizzare il bonus inflazione di 800 euro?
    Il bonus si può utilizzare online o nei punti vendita per molteplici settori merceologici: alimentari, tempo libero, abbigliamento, elettronica, infanzia, arredamento ed altri ancora, riferiti ad aziende come ad es. Amazon, Ikea, Decathlon e Mediaworld.
  15. Come funziona l’utilizzo del bonus inflazione per i buoni carburante?
    Fino ad un importo max di € 200,00 è possibile, per l’anno 2022, richiedere buoni carburante che non impattano sul tetto massimo di €3.000 previsto per i fringe benefit aziendali. Eventuali ulteriori richieste di buoni benzina oltre i 200 euro, possono essere effettuate tramite voucher ma concorrono al limite di € 3.000.
  16. Come funziona la regolamentazione fiscale dei fringe benefits?
    Bisogna ricordare che i due servizi di Rimborso delle Bollette e acquisto dei buoni spesa, cumulativamente, non possono superare l’importo complessivo di € 3.000 totali, che corrisponde al limite del fringe benefit 2022. In presenza di altri benefit (ad es. alloggio, auto aziendale, sovvenzione al personale o mutuo a tasso agevolato), se il valore complessivamente percepito nell’anno (comprensivo dei buoni spesa e del rimborso delle bollette) dovesse superare il limite di esenzione fiscale di € 3.000, l’intero importo dei buoni spesa e del rimborso delle bollette sarà soggetto a imposte e contributi previdenziali.



L’inflazione si “mangia” i nostri risparmi: il report della CGIA Mestre

L’inflazione si “mangia” i nostri risparmi, una stangata da almeno 92 miliardi di euro: i conti, realizzati dall’Ufficio studi della CGIA Mestre, partono dall’ipotesi che le famiglie italiane abbiano mantenuto nel proprio istituto di credito gli stessi risparmi che avevano a inizio anno.

Pertanto, a causa della crescita dell’inflazione stimata per il 2022 all’8 per cento, la dimensione economica reale del deposito bancario ha subito una drastica decurtazione.

Il report della CGIA Mestre su inflazione e risparmi

A pagare il conto più salato sono le famiglie residenti nelle grandi città, dove il caro vita si fa sentire maggiormente. Certo, una piccolissima parte di questa perdita di potere di acquisto sicuramente verrà   compensata dall’aumento degli interessi sui depositi. A seguito dell’incremento dei tassi decisi in questi ultimi mesi dalla Bce, infatti, le banche, nella seconda parte dell’anno, stanno riconoscendo ai propri correntisti degli interessi positivi. Tuttavia, il conto da “pagare” è pesantissimo e colpisce maggiormente le famiglie meno abbienti.

A Roma, Milano, Torino e Napoli le famiglie più penalizzate

A livello territoriale le province più penalizzate sono quelle più popolate e tendenzialmente anche con i livelli di ricchezza più elevati: a Roma, infatti,  l’inflazione “erode” 7,42 miliardi di euro di risparmi familiari, a Milano 7,39, a Torino 3,85, a Napoli 3,33, a Brescia 2,24 e a Bologna 1,97. Tra le meno esposte, infine, scorgiamo la provincia di Enna con 156 milioni di euro, Isernia con 153 e Crotone con 123.

Le casse dello Stato, invece, “sorridono”

Certo, a causa dell’aumento dell’inflazione, anche lo Stato centrale e le sue articolazioni periferiche subiranno una impennata sul fronte delle uscite.  Nel frattempo, però, l’incremento del gettito riscosso è stato molto importante. Nei primi 8 mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, le entrate tributarie erariali sono aumentate di 40,69 miliardi di euro. Questo score così positivo è riconducibile a tre fattori: agli effetti del “decreto Rilancio” e del “decreto Agosto”, – che tra il 2020 e il 2021 avevano disposto proroghe, sospensioni, etc. – e, in particolar modo, agli incrementi dei prezzi al consumo che hanno spinto all’insù il gettito dell’Iva.

Il report completo

Potete consultare e scaricare qui di seguito il documento completo.

 

Fonte: lentepubblica.it

 




I dividendi crescono 20 volte più dei salari (e fanno salire i prezzi)

Giù il potere d’acquisto del lavoro, vince la rendita. In Europa pure la Bce dice: gli utili spingono l’inflazione


Casomai a qualcuno fosse venuto in mente che forse, magari, anche la rendita finanziaria stesse pagando la crisi dei prezzi, ecco no, non sta andando così.

Quelli che vedete sono dati elaborati dalla European Trade Union Confederation (Etuc), la confederazione dei sindacati europei, che mostra come i dividendi staccati nella sola Unione europea nel secondo trimestre 2022 siano cresciuti rispetto al 2021 a una velocità sette volte maggiore rispetto agli stipendi.

In Italia va pure peggio: le cedole per gli azionisti sono salite di uno spettacoloso 72,2%, venti volte più dei salari, previsti in aumento del 3,7% anno su anno, per una volta in linea con la media europea (3,8%). Ovviamente, visto che l’inflazione ormai flirta con la doppia cifra un po’ in tutto il continente, ne consegue che i salari stanno perdendo un’enormità di potere d’acquisto, chi estrae profitti dalle aziende quotate invece sta battendo la dinamica dei prezzi di tre volte almeno (e di otto volte e mezza in Italia).

Qualcuno potrebbe pensare: dati inaffidabili, sono i sindacati che ci marciano. Non è così, nel senso che l’inflazione e la dinamica salariale attesa sono dati ufficiali dell’Ue, l’analisi sui dividendi è ripresa dal “Global Dividend Index” del colosso angloamericano di asset management Janus Henderson, che certo non è contrario all’aumento dei dividendi. E che dice l’aggiornamento di agosto di questo Global Index? Che nel secondo trimestre 2022 le 1.200 aziende quotate più grandi al mondo hanno distribuito cedole per la bellezza di 544,8 miliardi di dollari, l’11,3% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno prima; che il 94% del campione ha aumentato o confermato i dividendi precedenti; che l’Europa è stata una delle chiavi di questo aumento globale col suo 28,7% di crescita; infine che sono stati non sorprendentemente i settori Oil&Gas, materie prime e finanziario a staccare gli assegni più grossi.

E l’Italia? “Più della metà del +72,2% dei dividendi italiani è venuta dal settore bancario”, scrive Janus Henderson, ma anche la Atlantia dei Benetton è tornata a “dividendi vicini ai livelli pre-pandemia”, per non parlare dell’Eni. Riassunto: “I dividendi italiani sono in corsa per un anno record” (nonostante il dollaro forte).

Può sembrare solo l’ennesima prova di un sistema basato su crescenti disuguaglianze, ma non è solo questo: nel folle periodo seguito alle riaperture post-Covid, i profitti delle aziende sono stati un fattore anche per la crescita globale dell’inflazione. Non è una teoria da pazzoidi, tanto che l’ha sostenuta la stessa Bce: “Molte aziende sono state in grado di espandere i propri profitti unitari in un contesto di eccesso di domanda globale nonostante l’aumento dei prezzi dell’energia” e “in media, i profitti hanno recentemente contribuito in modo chiave all’inflazione interna totale, al di sopra del loro contributo storico”, ha detto a fine maggio Isabel Schnabel, economista e membro tedesco del board della Banca centrale europea.

È ora di mettere fine a questa truffa”, è il commento dell’irlandese Esther Lynch, vicesegretaria dell’Etuc: “Ai lavoratori viene detto che non è il momento per un aumento di stipendio, intanto gli azionisti stappano champagne. È un doppio insulto perché le aziende che non riescono a dare ai lavoratori un dignitoso aumento salariale, e quindi li condannano a perdere potere d’acquisto, stanno anche facendo salire l’inflazione”. Una situazione semplicemente “inaccettabile”, dice il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri: “Quando più di un anno fa la Uil ha iniziato a chiedere la tassazione degli extraprofitti qualcuno ci ha insultato. Oggi è evidente a tutti che è questo uno dei principali strumenti per arginare la deriva economica e i danni sociali che siamo costretti a subire. Bisogna agire subito e con assoluta determinazione”.

Come forse è scontato, non tutti sono d’accordo. Ieri al meeting di Cernobbio il presidente di Intesa SanPaolo Gian Maria Gros-Pietro s’è detto invece preoccupato della “spirale prezzi-salari”, cioè che una eccessiva crescita degli stipendi possa far salire i prezzi in una sorta di circolo vizioso. Gli azionisti di Intesa hanno maturato 1,6 miliardi di dividendi solo nel primo semestre 2022.

 

Articolo di Marco Palombi su Il Fatto Quotidiano del 3 settembre 2022




Landini, con inflazione a 8,4% basta chiacchiere. Servono interventi urgenti

Con l’inflazione che, secondo le stime preliminari dell’Istat, balza ad agosto all’8,4% su base annua, le chiacchiere non servono. Così non si regge. Il decreto aiuti bis mette risorse inadeguate per i lavoratori e i pensionati: c’è bisogno subito di un intervento urgente per tutelare salari e pensioni già impoveriti”. Lo afferma il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini.

A questo quadro – aggiunge il leader della Cgil – vanno aggiunti gli effetti economici e sociali della crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina, che stanno già adesso determinando enormi difficoltà per il sistema produttivo e quindi per il lavoro e l’occupazione, oltre che per le persone”.

È un momento straordinario – conclude Landini – e bisogna rispondere con strumenti straordinari, esattamente come abbiamo fatto durante la pandemia e come chiediamo da mesi al Governo. Le risorse ci sono e vanno ridistribuite, a partire dagli extraprofitti. Far prevalere la logica del profitto a scapito delle persone, sarebbe una doppia ingiustizia oltre che uno schiaffo a chi si trova in difficoltà. Tutelare e proteggere l’occupazione e i redditi non è una scelta ma una necessità”.