L’Aquila, bancario morto per Covid: indennizzo di € 500mila

È deceduto dopo aver contratto il covid e così l’Inail si è vista richiedere dagli eredi un indennizzo-risarcimento di mezzo milione di euro.

Gli eredi di F.G., 56 anni, impiegato bancario aquilano, coniugato, si sono rivolti all’Associazione Giustitalia, che ha ricostruito l’accaduto in una nota che riportiamo integralmente.

L’uomo ha contratto il covid-19 nel mese di marzo 21 sul posto di lavoro, un ufficio bancario nel centro.

Dopo un’attenta istruttoria tramite il “tracciamento” dei contatti, si è appurato che il bancario aveva contratto il covid tramite il contatto con un collega positivo (prima di lui).

L’Associazione Giustitalia (www.associazionegiustitalia.it), che si occupa tra le altre cose di infortuni sul lavoro, ha inoltrato una richiesta indennitaria/risarcitoria per conto degli eredi di un  milione di euro.

L’Associazione evidenzia che :

La circolare n. 22 del 20 maggio 2020, ad integrazione e precisazione delle prime indicazioni fornite con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, ribadisce che l’Inail, ai sensi dell’art. 42, c. 2 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n.27, fornisce tutela infortunistica ai lavoratori che hanno contratto l’infezione SARS-Cov-2 in occasione di lavoro, secondo il consolidato principio giuridico che equipara  la causa virulenta alla causa violenta propria dell’infortunio.
L’indennità per inabilità temporanea assoluta copre anche il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria – sempre che il contagio sia riconducibile all’attività lavorativa – con la conseguente astensione dal lavoro.
Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incidono sull’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono posti a carico della gestione assicurativa, a tariffa immutata, e quindi non comportano maggiori oneri per le imprese.
Con la circolare vengono inoltre meglio precisati i criteri e la metodologia su cui l’Istituto si basa per ammettere a tutela i casi di contagio da nuovo coronavirus avvenuti in occasione di lavoro e vengono altresì chiarite le condizioni per l’eventuale l’avvio dell’azione di regresso, precisando a tal fine che in assenza di una comprovata violazione delle misure di contenimento del rischio di contagio indicate dai provvedimenti governativi e regionali, sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro.
Nella circolare, infine, viene chiarito che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio non ha alcuna correlazione con i profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro nel contagio medesimo,  che è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del d.l. 16 maggio 2020, n.33”.

Una settimana fa siglata dagli eredi una transazione per 500 mila euro.

Fonte: AbruzzoWeb

 

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Cade in pausa caffè, per la Cassazione non è infortunio sul lavoro

Lo ha sancito la sezione Lavoro della Corte, dando torto a una impiegata in servizio presso la procura di Firenze


Non rientra nei caratteri dell’infortunio sul lavoro una caduta durante la pausa caffe all’esterno dell’ufficio. Nessun diritto all’indennizzo. Lo ha sancito la sezione Lavoro della Cassazione, dando torto a un’impiegata – all’epoca dei fatti (luglio 2010) in servizio presso la procura della Repubblica di Firenze – che si era infortunata a un polso cadendo mentre tornava in ufficio da un vicino bar dove aveva preso il caffè con due colleghe.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dall’Inail e, decidendo nel merito, ha respinto le richieste della donna. Il tribunale e la Corte d’appello di Firenze, invece, avevano accolto il ricorso della lavoratrice, osservando che la pausa “era stata autorizzata dal datore di lavoro” e che “era assente il servizio bar all’interno dell’ufficio”. L’Inail, dunque, si era rivolto alla Cassazione, sostenendo che non possono essere ravvisati “nell’esigenza, pur apprezzabile, di prendere un caffè” i caratteri del “necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa”.

Con la sua ordinanza, la Corte ha sancito che ”è da escludere l’indennizzabilità dell’infortunio subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dall’ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè”, poiché “la lavoratrice – si legge nel documento – allontanandosi dall’ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si è volontariamente esposta a un rischio non necessariamente connesso all’attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa e incidente”. Inoltre “del tutto irrilevante è la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi o, comunque, una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l’area oggettiva di operatività della nozione di ‘occasione di lavoro’”. Infatti, conclude la Corte, “non può essere ricondotta a ‘occasione di lavoro’ l’attività, non intrinsecamente lavorativa e non coincidente per modalità di tempo e di luogo con le prestazioni dovute, che non sia richiesta dalle modalità di esecuzione imposte dal datore di lavoro o in ogni caso da circostanze di tempo e di luogo che prescindano dalla volontà di scelta del lavoratore”.

 

Fonte: www.huffingtonpost.it

 




Covid e infortunio sul lavoro: Inail verso il no al risarcimento per chi rifiuta il vaccino

La segnalazione è arrivata da Genova. All’ospedale San Martino quindici infermieri, che si erano rifiutati di fare il vaccino, ora sono positivi al Covid. Che fare? Il direttore generale della struttura, Salvatore Giuffrida, si è rivolto all’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Chiedendo se quei quindici infermieri «devono essere considerati in malattia o dovranno essere considerati inidonei alla loro attività professionale». L’istruttoria dell’Inail sul parere è ancora agli inizi. Ma su un punto l’orientamento sembra già consolidato. E cioè che in questo caso il contagio non può essere considerato infortunio sul lavoro. Sembra un aspetto tecnico, ma non lo è.

Categorie a rischio

Fino a gennaio i casi di Covid di origine professionale segnalati all’Inail sono stati 147 mila. Circa il 5% del totale. Mentre le morti denunciate per contagio sul posto di lavoro sono state 461. Per questi casi, se alla fine la denuncia si dimostra fondata, sono previsti gli indennizzi per infortunio sul lavoro. Anche in caso di morte a favore degli eredi. Ma fino alla fine dell’anno scorso i vaccini non c’erano, visto che le prime (simboliche) somministrazioni sono arrivate il 27 dicembre. E sono proprio i dati Inail a certificare che il settore della sanità è stato quello più colpito per i contagi sul lavoro. Non solo. Proprio dai tecnici della salute, categoria nella quale rientrano gli infermieri, è arrivato il 39,2% delle denunce. Numeri che confermano come il lavoro di infermiere sia tra quelli più esposti al rischio. Per questo la campagna di vaccinazione è cominciata da loro. Ma chi rinuncia al vaccino, scelta legittima visto che non c’è obbligo, può poi farsi riconoscere la positività come infortunio sul lavoro?

La privacy

L’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano è oggi componente del consiglio d’amministrazione dell’Inail. Premette di parlare a titolo personale, ma non ha dubbi: «La soluzione migliore — spiega — sarebbe una legge sull’obbligo di vaccinazione, almeno per alcune categorie». Ma questa scelta, presa in considerazione dal precedente governo, è stata scartata per timore che fosse controproducente. «A mio giudizio — dice ancora Damiano — è logico che chi decide di non vaccinarsi e svolge una mansione a rischio poi non possa chiedere il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro. Anzi, dovrebbe essere messo nelle condizioni di non essere un pericolo per sé e per gli altri, evitando il licenziamento, ma svolgendo mansioni che non hanno contatto con il pubblico». Solo che qui la situazione si complica. Come spiega l’avvocato Salvatore Di Pardo, che sta seguendo alcuni casi di questo tipo, il Garante per la privacy ha confermato pochi giorni fa che il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti se si sono vaccinati oppure no. E non può chiederlo nemmeno al medico.

Il settore sanitario, però, fa storia a sé. Lo stesso Garante ricorda che, in attesa di una legge che «valuti se porre la vaccinazione come requisito per lo svolgimento di determinate professioni», ci sono regole specifiche per i settori in cui c’è «esposizione diretta agli agenti biologici», come la sanità. Qui solo il «medico competente può trattare i dati relativi alla vaccinazione dei dipendenti e tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica». Un rompicapo che sarà il tema dei prossimi mesi.

 

Fonte: Il Corriere della Sera




L’Inail riconosce i primi infortuni di lavoro da contagio Covid. Primo OK per 5 ferrovieri

Sono decine le istanze presentate anche da dipendenti di supermercati e negozi di abbigliamento. Trenta domande dalla Scala. La Cgil: “E’ una tutela per chi si è infettato mentre prestava servizio”



Ferrovieri, addetti alla manutenzione del mezzi pubblici, impiegati di supermercati e negozi d’abbigliamento. Al netto degli operatori sanitari, sono queste le principali categorie di lavoratori che, contratto il coronavirus, hanno chiesto il riconoscimento dell’infortunio all’Inail. A decine si sono già rivolti alla Camera del lavoro metropolitana di Milano. Cinque ferrovieri – tre di Trenord, due di Trenitalia – hanno già ottenuto il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro. A uno di loro, in particolare, sono stati corrisposti 17 mila euro per le complicanze vascolari e i danni permanenti causati dalla polmonite bilaterale interstiziale. Ulteriori 40 ferrovieri sono in attesa che venga loro riconosciuto l’infortunio su lavoro.

La stessa istanza è stata presentata da altri lavoratori che hanno contratto il Covid-19. Si sono già rivolti alla Camera del lavoro metropolitana di Milano 25 operai che si occupano della manutenzione dei mezzi pubblici e che sono costretti a operare in gruppo, 15 commessi dei supermercati e una decina di impiegati dei negozi di abbigliamento che inevitabilmente sono a contatto con i clienti.

E poi, sempre in attesa del riconoscimento dell’infortunio sul lavoro, sono circa trenta lavoratori della Scala (fra coristi e tecnici) anche loro colpiti dal coronavirus. Per i dieci anni successivi alla data del contagio, se dovessero insorgere danni fisici riconducibili al Covid-19, si potrà richiedere la tutela all’Inail.

A nostro parere, queste sono solo le prime istanze presentate – afferma Laura Chiappani della Camera del Lavoro metropolitana di Milano– Le richieste aumenteranno anche perché numerosi lavoratori sono stati costretti a prestare servizio quando i rischi di contrarre il virus erano altissimi”.

 

Fonte: La Repubblica Milano




Covid-19, INAIL equipara i contagi sul lavoro agli infortuni

Una nuova circolare Inail fornisce indicazioni sulla tutela per tutti i lavoratori assicurati con l’Istituto che hanno contratto l’infezione da nuovo Coronavirus

Le infezioni da nuovo Coronavirus avvenute nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa sono tutelate a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. A precisarlo è la circolare n. 13 del 3 aprile, con cui l’Istituto fornisce indicazioni in merito alle tutele garantite ai propri assicurati.

“Tutti i casi accertati di infezione sul lavoro – spiega il presidente dell’Inail, Franco Bettonifaranno scattare la piena tutela dell’Istituto, come per gli altri infortuni o malattie, già a partire dal periodo di quarantena. Ci siamo già attivati, inoltre, per codificare il Covid-19 come nuova malattia-infortunio, per una corretta rilevazione dei casi a fini statistico-epidemiologici”.

“Questa emergenza – aggiunge Bettoni – ha riportato in primo piano anche la necessità di garantire le stesse tutele ai milioni di lavoratori che non sono assicurati con l’Inail e non possono quindi accedere a rendite e indennizzi in caso di contagio. La recente estensione ai rider è solo il primo passo di un ampliamento della platea dei nostri assicurati, che dovrà includere le professioni che si collocano a metà strada tra subordinazione e autonomia, che oggi sono molto più vulnerabili di fronte alla minaccia del virus”.

L’ambito della tutela Inail riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico, considerata l’alta probabilità che questi lavoratori vengano a contatto con il virus.

Lo stesso principio si applica anche ad altre categorie che operano in costante contatto con l’utenza, come i lavoratori impiegati in front-office e alla cassa, gli addetti alle vendite/banconisti, il personale non sanitario degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, e gli operatori del trasporto infermi.

La tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti più difficoltosa. In tali casi la circolare spiega che si dovrà fare ricorso agli elementi epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali, al fine di garantire la piena tutela.

Il termine iniziale della tutela decorre dal primo giorno di astensione dal lavoro, attestato dalla certificazione medica per avvenuto contagio, ovvero dal primo giorno di astensione dal lavoro coincidente con l’inizio della quarantena, sempre per contagio da nuovo Coronavirus.

Il medico certificatore deve predisporre e trasmettere telematicamente all’Inail il certificato medico d’infortunio. Permane inoltre l’obbligo di denuncia/comunicazione di infortunio per il datore di lavoro, quando viene a conoscenza del contagio occorso al lavoratore.

In caso di decesso, ai familiari spetta anche la prestazione economica una tantum del Fondo delle vittime di gravi infortuni sul lavoro, prevista anche per i lavoratori non assicurati con l’Inail.

Sono tutelati dall’Istituto, inoltre, anche i casi di contagio da nuovo Coronavirus avvenuti nel percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, che si configurano come infortuni in itinere. Poiché il rischio di contagio è molto più probabile a bordo di mezzi pubblici affollati, per tutti i lavoratori addetti allo svolgimento di prestazioni da rendere in presenza è considerato necessitato l’uso del mezzo privato, in deroga alla normativa vigente e fino al termine dell’emergenza epidemiologica.

La circolare fornisce chiarimenti anche sulla sospensione dei termini di prescrizione e decadenza per le richieste delle prestazioni Inail nel periodo compreso tra il 23 febbraio e il primo giugno 2020, disposta dal decreto Cura Italia dello scorso 17 marzo.

La sospensione dei termini si applica anche alle richieste di rendita in caso di morte in conseguenza di infortunio e alle domande di revisione delle rendite per inabilità permanente, per infortunio e/o malattia professionale.




Cassazione: lo stress da troppo lavoro va indennizzato

Le malattie contratte a causa dello stress lavorativo vanno indennizzate dall’Inail a prescindere dal fatto che le stesse siano o meno correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle.

L’ordinanza numero 5066/2018 della sezione lavoro della Corte di cassazione ci ricorda infatti che, con riferimento al rischio tutelato di cui all’articolo 1 del TU n. 1124/1965, rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione ma anche il rischio specifico improprio, non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma con essa collegato (attività prodromiche e di prevenzione, attività sindacali, pause fisiologiche e così via).

LA CAUSA DI LAVORO

Ma non solo. Come riconosciuto dalla stessa Corte di cassazione già con la sentenza numero 5577/1998 (e confermato poi dall’articolo 10, comma 4, della legge numero 38/2000), l’obbligo dell’assicurazione contro le malattie professionali vige per tutte le malattie, anche diverse da quelle indicate nelle tabelle allegate al testo unico o da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno contemplato dalle medesime tabelle. L’unica cosa che conta, infatti, è che delle malattie sia provata la causa di lavoro.

Di conseguenza, la possibilità per il lavoratore di provare l’origine professionale di qualsiasi malattia comporta necessariamente la scomparsa dei criteri selettivi del rischio professionale, “non potendosi sostenere che la tabellazione sia venuta meno solo per la malattia e sia invece sopravvissuta ai fini dell’identificazione del rischio tipico”.

DISTURBI DELL’ADATTAMENTO

In definitiva quindi, nell’ambito del sistema del Testo Unico, possono essere indennizzate tutte le malattie fisiche o psichiche riconducibili al rischio del lavoro, riguardante sia la lavorazione, sia l’organizzazione del lavoro, sia le modalità con le quali il lavoro stesso si esplica. Ciò vuol dire che l’Inail deve pagare, come nel caso deciso con la sentenza in commento, anche i gravi disturbi dell’adattamento con ansia e depressione contratti a causa dello stress lavorativo dovuto a un numero elevatissimo di ore di lavoro straordinario.

 

Fonte: studiocataldi.it