Trova il colpevole. Caro benzina, bassi salari, affitti e mutui: colpa dei migranti!

I sogni son desideri, cantava la Cenerentola di Walt Disney, ed è probabile che lo canti anche Giorgia Meloni, e poi ognuno ha i sogni che si merita e che si coltiva, ovvio. Così si suppone che nelle fantasie della presidentessa del Consiglio ci siano desideri intensi e frementi. Tipo questo: vai a fare benzina, la paghi sopra i 2 euro al litro, e mentre il contatore del distributore gira più veloce del tassametro di un taxi tu pensi: ah, maledetta Ue che non sgancia i soldi a un dittatore africano per fermare l’invasione di immigrati! Complotto!

Sogno un po’ improbabile, ma si sa, l’attività onirica non si controlla benissimo, è un po’ come Salvini, fa il cazzo che le pare. Un altro sogno è che uno va al supermercato e trova che tutto costa il dieci-quindici per cento in più dell’anno scorso. Quando trova qualcosa che costa uguale, sciambola!, si accorge che la confezione non è più da mezzo chilo, ma da trecentocinquanta grammi. Insomma, avrebbe tutti i motivi del mondo per sentirsi derubato, truffato, vilipeso, e allora pensa: ah, dannazione, la sostituzione etnica! Oppure: basta! Torniamo al sei in condotta!

Il trucchetto di Meloni con l’uso politico dei migranti è un po’ come la teoria del dolore prevalente: ti do un calcio nelle palle, così smetti di lamentarti per il mal di denti. Funziona per un quarto d’ora, e poi non funziona più, ti restano due dolori, anzi tre, se aggiungi la voce “mutuo/affitto”, anzi quattro, se aggiungi la voce “salario di merda”. Tutte cose di cui è piuttosto difficile accusare un disperato in ciabatte che sbarca a Lampedusa dopo tre anni di botte, fughe e torture.

In più, c’è l’ardita arrampicata sui vetri insaponati e l’ipercollaudata teoria fascio-vittimista del complotto. È la Ue che ci manda le barche di neri! No, peggio, è la Ue di concerto con il Pd! Dove quel che sorprende è la schizofrenia della narrazione, per cui il famoso Pd sarebbe ora un totale incapace imbelle in stato confusionale, e un attimo dopo, oplà, un diabolico tessitore di complotti pluto-demo-comunitari per mandarci qui il disperato di cui sopra. Disperato, tra l’altro, a cui non insegneremo l’italiano, né un mestiere, né i rudimenti della nostra gloriosa cultura nazionale, no. Lo metteremo per diciotto mesi in strutture realizzate dall’esercito “in località a bassissima densità abitativa facilmente perimetrabili e sorvegliabili” (in italiano: campi di concentramento), consegnandolo quindi alla marginalità perenne.

Il tutto mentre la legge-cardine su cui ancora oggi (2023) si basano le politiche italiane dell’immigrazione si chiama Bossi-Fini (2002), è cioè intitolata a due antichi leader in disuso, scritta più di vent’anni fa. È come tentare la conquista dello spazio con le macchine a vapore, o dire che l’intelligenza artificiale è regolata dalla legge Cavour-Giolitti. Ma nessuno ha mai voluto metterci mano seriamente perché, alla fine, tirare fuori dal cappello un’emergenza periodica e improvvisa serve a tutti. Il Minniti degli accordi con le tribù libiche non è diverso in nulla dalla Meloni che sbandiera “lo storico accordo” con la Tunisia, promettendo a un dittatore fondi che non dipendono da lei, insomma, esercitando la nobile arte del venditore di tappeti che i tappeti da vendere, però, non ce li ha. In tutto questo, a pagare di più sarà il disperato sbarcato dopo la sua odissea mediterranea, ieri carne per trafficanti, oggi buono per i giochetti politici di un governo che non ne azzecca una nemmeno per sbaglio.

 

Articolo di Alessandro Robecchi su “Il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2023




L’invasione che non c’è

Quello dei disperati che fuggono da zone del mondo nelle quali è diventato quasi impossibile vivere, alla ricerca di una speranza per loro e la loro famiglia, è un tema complicato, per il quale non esistono soluzioni semplici.

Per le destre è da sempre un cavallo di battaglia, da utilizzare per fini elettorali alimentando le paure. Tra gli scenari apocalittici evocati, quello dell‘invasione, o addirittura di un progetto di sostituzione etnica.

La realtà dei numeri ci parla di una situazione molto diversa, in cui non c’è nessuna invasione, ma la presenza di stranieri in Italia è stabile da quasi 10 anni: segno che, per chi arriva, il nostro è un punto di transito, ma l’ambizione è raggiungere altre nazioni europee.
E questo nonostante avremmo un gran bisogno di invertire il calo costante della popolazione in Italia.

Il grafico è un’elaborazione dell’Istituto degli Studi di Politica Internazionale su dati Istat.




Nessuno lascia la propria casa. A meno che…

Casa

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri
solo quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo.
Lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

Nessuno lascia casa sua
a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia.

Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.

Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali
a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.

Nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato.

Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto.

Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora
vogliono distruggere il nostro.

Le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?

Forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda

A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante.

Nessuno lascia casa sua
se non quando essa diventa una voce sudaticcia
che ti mormora nell’orecchio
vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Warsan Shire

Poetessa britannica di origine somala, nata in Kenya nel 1988. Vive a Londra dove i suoi genitori si sono rifugiati per scappare alla guerra civile in Somalia negli anni ottanta.
Avevamo già pubblicato questa poesia ad ottobre 2019. Purtroppo non cessa di essere attuale.



Italia senza futuro: il declino demografico è inarrestabile

Alessandro Rosina è uno dei più apprezzati demografi italiani. Insegna alla Cattolica di Milano e non si capacita di come esista una percezione alterata di quel che stia divenendo l’Italia. Già oggi un Paese della terza età e domani un mega villaggio vacanza dove soggiornare d’estate
Tra 15 anni mancherà il 30% di forza lavoro: ci serve l’immigrazione”


Forse non ci siamo capiti ed è venuta l’ora di spiegarlo bene. L’Italia si è già fatta assai più piccina, e ci aspetta un declino demografico irreversibile. Non possiamo fare altro che imitare la Germania.

Professor Rosina, la Germania cosa ha fatto?

Ha attratto da ogni altro luogo il capitale umano per sopperire al deficit di natalità fino a giungere ultimamente al saldo demografico positivo di + 500mila.

Qui da noi, professore, il nuovo governo ha tra i primi impegni quello di bloccare i migranti. Siamo troppi, stiamo già stretti tra di noi, non possiamo riceverne altri. Questa la considerazione da cui si parte.

Senza di loro non c’è futuro, senza di loro la crisi occupazionale sarà gravissima. Tra quindici anni mancherà il trenta per cento della forza lavoro. Lo sa qualcuno?

Ma possibile che la classe dirigente non abbia in mano i numeri di questa catastrofe demografica?

Intuisco che al governo c’è la generazione dei boomers, coloro che sono stati al centro della produzione nazionale e che non hanno mai conosciuto i vuoti odierni. La crisi economica del 2009 ha poi terremotato la società che, per paura, ha sbarrato porte e finestre. Però la realtà è opposta a come si immagina.

Spieghiamola questa realtà.

Primo grande guaio: per tenere il livello della crescita demografica stabile e – diciamo così – autosufficiente avremmo dovuto garantire nel tempo un rapporto di due nati per ogni donna. Invece il rapporto tra figli e genitori è fermo ormai da anni a 1,25. Poco più di uno per coppia. In questo modo il declino tracciato è risultato inarrestabile. Secondo guaio: gli over 65 negli anni settanta erano sette milioni, oggi sono già quattordici milioni. Nel 2050 saranno diciannove milioni. Questo il Paese dei vecchi.

E il Paese dei giovani?

Terzo grande guaio: gli under 35 erano circa trenta milioni a fine anni settanta, ora sono meno di venti milioni e tra ventotto anni la cifra sarà di sedici milioni.

Questo significa?

Il senso catastrofico del rimpicciolimento indica il quarto grandissimo guaio: tra poco più di un decennio senza una immissione robusta di forza lavoro dall’esterno il livello di occupazione si ridurrà fino al trenta per cento. Significa che la produzione, e dunque la ricchezza nazionale, subirebbe un arretramento formidabile. L’unica possibilità per salvarci è appunto quella di integrare braccia e menti, acquisirle dall’estero.

Altro che bloccare i barconi!

Temo che la politica non riesca a gestire l’integrazione e pensa di risolvere il problema chiudendo gli accessi. Ma così muore l’economia italiana.

Lei ha denunciato l’ipocrisia di una classe dirigente anziana che si lagna dicendo che questo non è un Paese per giovani.

Non devono essere gli anziani a piangere falsamente per i giovani che mancano, a mostrare ipocritamente le lacrimucce e decidere quale futuro far avere ai giovani (che per inciso rappresentano nella popolazione la percentuale più bassa rispetto al resto d’Europa) ma devono accettare finalmente di lasciare nelle mani delle giovani generazioni le leve del potere. Stop.

Oggi è un fuggi fuggi di ragazzi.

Noi perdiamo i bravissimi, i talentuosi e anche i meno bravi ma con una gran voglia di fare. Restano qui invece i Neet.

I Neet?

Acronimo (not in education, employement or training) che individua chi, tra gli under 35, ha smesso di studiare ma non ha iniziato a lavorare. In Italia sono circa tre milioni.

Giovani sfaccendati?

Giovani che non trovano una connessione tra scuole e lavoro. Risultano in difficoltà, restano ai margini dell’attività lavorativa.

È una vera sciagura democratica questa, non solo demografica.

È un dramma, e il fatto che non se ne valuti appieno la dimensione della crisi fa cascare le braccia.

Coloro che dovrebbero allertarsi non badano al futuro, si preoccupano dell’oggi. In fondo sono dei mediocri.

È una tragedia.

 

Intervista di Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano del 31/10/2022




Perché i migranti scappano da casa loro?

La povertà in Nigeria, il terrorismo in Mali, le guerre che lacerano il paese nel Sudan. E ancora, i migranti «invisibili» dalla Tunisia e la repressione in Afghanistan. Dietro alla fuga di milioni di cittadini ci sono motivi che ignoriamo. O non riusciamo ancora a capire


Veniva dal Mali, aveva 14 anni e la speranza, sotto forma di una pagella scolastica, cucita nella giacca. Veniva dal Mali ed è morto nel Mediterraneo il 18 aprile 2015. A raccontare la storia di questo piccolo naufrago è stata Cristina Cattaneo, medico legale che negli ultimi anni si è occupata di riconoscere i corpi dei migranti annegati in mare.

Ci sono domande che ci facciamo poco. Ad esempio perchè quel ragazzino venisse dal Mali. Perché sui barconi che arrivano (sempre meno per la verità) non ci siano mai ragazzini (o uomini o donne) della Namibia, del Rwanda, del Botswana o anche della poverissima Sierra Leone. Ma ci sono spesso cittadini del Sudan, della Nigeria, dell’Eritrea, del Mali. Se ci facessimo queste domande scopriremmo che dai paesi in cui convivono pacificamente gruppi etnici e religiosi diversi (come in Sierra Leone) dove c’è un’economia vivace e governi stabili e poco corrotti (come in Bostwana) e nessuna crisi idrica o ambientale (come in Rwanda) nessuno vuole andarsene.

Nessuno lascia casa se sta bene a casa sua. Nessun quattordicenne si mette nella giacca una pagella e affronta il deserto, le carceri libiche, il rischio concreto di affogare se sta bene a casa sua. Allora perché alcuni scappano? Il continente africano è composto da 54 paesi. Molti non li sentiamo mai nominare perchè da quei paesi nessuno arriva sotto casa nostra. Altri paesi attraversano crisi profonde umanitarie, politiche, economiche, climatiche o nella sfera dei diritti umani. Ed è da questi e per queste ragioni che si creano i flussi migratori.

Le mille contraddizioni della Nigeria
Se c’è un paese da cui cominciare per indagare i contesti di partenza dei migranti questo è certamente la Nigeria. Con i suoi 190 milioni di abitanti è il paese più popoloso del continente africano e il settimo nel mondo. È un paese giovanissimo: il 40% della popolazione ha meno di 14 anni e, con un tasso di crescita del 2,6% annuo, dovrebbe raggiungere entro il 2050 i 250 milioni di abitanti, poco meno della metà degli abitanti del continente europeo. Sul piano economico la Nigeria è un paese di forti contraddizioni. È povero e allo stesso tempo in crescita economica, seppur con alti e bassi, garantita soprattutto dalla presenza di giacimenti di petrolio. Dalla Nigeria sono arrivate 36 mila persone nel 2016 e 18 mila nel 2017. I nigeriani sono la nazionalità di sub-sahariani più numerosa in Italia (i residenti erano 93.915 al 1 gennaio 2017).

Perché i nigeriani emigrano? Il primo profilo di migranti nigeriani è composto da giovani delle zone rurali con scarsa formazione e poca possibilità di impiego.
Il secondo profilo è costituito da ragazzi, spesso minori, che si trovano in gravi situazioni familiari e pensano che l‘Europa sia il solo orizzonte di sopravvivenza possibile.
Il terzo profilo è quello composto dagli abitanti delle regioni del delta del fiume Niger. Si tratta di regioni ricchissime in petrolio, ma la cui estrazione ha conseguenze devastanti per l’ecosistema e per le popolazioni che vivono principalmente di agricoltura e pesca. In questo caso parliamo di rifugiati ambientali, costretti all’esilio a causa della devastazione subita dal territorio in cui risiedevano. La pratica delle espropriazioni forzate da parte delle compagnie petrolifere in accordo con lo Stato aumenta la povertà e l’emarginazione sociale.
Il quarto profilo è composto da ragazze giovani, a volte minorenni, destinate alla tratta per la prostituzione. Molte delle storie di queste ragazze sono simili. Desiderose di raggiungere l’Europa con la speranza di una vita migliore, fanno affidamento a dei passeur con la promessa di un lavoro come colf o come cameriera. Contraggono un debito dai 30 ai 50 mila euro che dovrebbero teoricamente pagare con una parte dei soldi guadagnati con il lavoro promesso e una volta portate in Italia sono costrette a prostituirsi. Se si rifiutano mettono in pericolo la famiglia rimasta in Nigeria, che rischia di subire minacce da parte dei membri della mafia nigeriana, molto attiva in questa vera e propria tratta di esseri umani. Il quinto profilo è quello di coloro che scappano da Boko Haram, un gruppo terroristico jihadista attivo dal 2002 ma le cui azioni violente sono aumentate negli ultimi cinque anni, cioè da quando l’attuale leader Abubakar Shekau ha preso le redini del gruppo, sconfinando anche nei paesi vicini come Camerun, Niger e Ciad. Tra il 2009 e il 2017 le azioni terroristiche di Boko Haram hanno causato 51 mila morti di cui 32 mila civili e 2,5 milioni di sfollati.

Somalia, Eritrea, Gambia, in fuga da dittatura e fanatismo
In cima alla lista dei paesi africani da cui i migranti provengono c’è stata per anni anche la Somalia. Prima il regime di Siad Barre, poi la guerra civile, infine l’estremismo che è passato dalle Corti islamiche agli Al Shabaab, hanno fatto si che una grande fetta della classe media del paese sia fuggita all’estero. La diaspora somala è tra le più nutrite al mondo. Poichè la Somalia è un’ex colonia italiana per molti somali è parso naturale venire in Italia. A proposito di ex colonie per anni in Italia sono arrivati anche molti cittadini eritrei. Sono stati loro, fra il 2015 e il 2018, ad affollare i barconi.

Scappano da un dittatore, Isaias Afewerki, al potere da quasi vent’anni, che obbliga i suoi cittadini ad un servizio militare a vita, che ha soppresso la libertà di stampa e di pensiero. Non tanto diversa è stata fino a due anni fa la situazione del Gambia dove Yahya Jammeh ha governato per 22 anni dopo essere arrivato al potere con un colpo di Stato e aver represso ogni dissenso con veri e propri squadroni della morte. Per questo il Gambia, il più piccolo paese africano con solo due milioni di abitanti, è stato negli anni scorsi in testa nelle classifiche dei paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Europa.

Repubblica Centrafricana e Sudan, quando la guerra spacca a metà il paese
Ci sono paesi poi, come la Repubblica Centrafricana, che continuano a essere dilaniati da una guerra civile che sembra non voler finire mai. Ex colonia francese, da sempre uno dei territori più poveri del pianeta, dal 2012 la repubblica Centrafricana è di nuovo in preda all’ennesima guerra civile tra la coalizione di governo cristiana anti-balaka e le forze ribelli a maggioranza musulmana Sèlèka.Lo stupro è usato come arma di guerra, i massacri sono all’ordine del giorno e la gente continua a scappare. In questo paese un bambino su 24 muore nel primo mese di vita, due terzi della popolazione è senza accesso ad acqua potabile e la metà è in stato di insicurezza alimentare. Nel primo semestre 2018 gli sfollati erano 1,2 milione. Tutti numeri che diventano in fretta migranti.

Un altro paese africano di cui ci interessiamo poco, ma la cui situazione ci dovrebbe invece essere cara perché molti giovani africani arrivano in Italia da quell’area è il Sudan. Nel 2018 un migrante su tre di quelli che sono sbarcati sulle nostre coste proviene da questa terra. Nord e sud Sudan sono arrivati a uno scontro durato oltre vent’anni dal 1983 al 2005 che ha causato più di due milioni di morti e quattro milioni di dispersi. Alla fine il Sud Sudan è diventato un paese indipendente nel 2011. Ma nonostante questo per entrambi i paesi non c’è pace e di conseguenza molti abitanti del Sudan e del Sud Sudan emigrano.

Il Mali è il nono paese di provenienza (Viminale, dati immigrazione 2018) dei migranti provenienti in Italia. La povertà, l’instabilità politica, la diffusione del terrorismo islamico e le crisi ambientali sono le cause di migrazione. Nel nord del paese tra il 2013 ed il 2014 le forze fedeli ad Al Qaeda nel Sahel hanno costituito un piccolo emirato durato pochi mesi, ma che ancora oggi non manca di mostrare profonde cicatrici soprattutto per ciò che concerne la stabilità e la sicurezza. Come se non bastasse il Mali è uno dei paesi più poveri al mondo. Occupa il quintultimo posto nella classifica mondiale dello sviluppo umano stilata dalle Nazioni Unite, e la maggior parte della popolazione – il 77% – vive con meno di due dollari al giorno.

Il “colpo di grazia” della crisi ambientale
Diverse crisi ambientali hanno aggravato ancora di più le condizioni del territorio che per il 35% è di natura desertica. Nel 2011, una crisi alimentare ha causato nuove migrazioni che si sono orientate così, verso il Mediterraneo. Il collasso della Libia di Gheddafi, è stato un altro motivo che ha spinto i maliani verso l’Europa. Forse anche il quattordicenne con la pagella nella giacca, chissà. Situazione simile in Ciad, ex colonia francese, paese molto povero dove è in corso una crisi umanitaria senza precedenti che porta a migrazioni infinite. La malnutrizione acuta, endemica nella regione, colpisce non solo le province rurali della fascia del Sahel ma ora è cronica e ha raggiunto proporzioni allarmanti tra i bambini sotto i cinque anni a N’Djamena, capitale del Ciad, città di circa 1,5 milioni di abitanti.

Bisogna anche dire che la nazionalità africana che arriva di più in Italia oggi è quella dei tunisini, per lo più con sbarchi fantasma. Dei 4.953 migranti arrivati nel 2019 la maggior parte sono tunisini. Secondo Flavio Di Giacomo dell’Oim, la ripresa dell’emigrazione tunisina è dovuta principalmente al peggioramento della situazione economica nel paese nordafricano. Il tasso di disoccupazione nazionale in Tunisia è al 15%, e arriva addirittura al 25% nelle aree rurali del Paese. Quella giovanile è al 40% e quella dei laureati è al 31%. La povertà e la fame rimangono opprimenti in molte aree del territorio e migliaia di persone non hanno mai smesso di protestare nelle piazze, sfociando talvolta anche in manifestazioni violente. A fuggire dalla Tunisia è quindi un’intera generazione frustrata e senza prospettive. Malgrado l’incremento di arrivi, sono poche le richieste di asilo concesse ai tunisini giunti nel nostro Paese proprio data la loro natura di migranti economici. Con la Tunisia è inoltre in vigore un accordo di rimpatrio per i migranti che arrivano in Italia. E così si infrange per i tunisini il sogno italiano.

I paesi di provenienza non-africani: Pakistan e Bangladesh
Ci sono poi due nazionalità, non africane, che sono sempre più presenti negli sbarchi e fra gli arrivi via terra: Pakistan e Bangladesh.
Il Pakistan è il secondo paese per provenienza in Italia nel 2019 dopo la Tunisia (dati Viminale). Nel 2018 secondo Eurostat la principale nazionalità dei richiedenti protezione internazionale in Italia è stata quella pakistana (15 per cento del totale), seguita da quella nigeriana (10 per cento) e da quella bangladese (8 per cento). Anche qui bisognerebbe cercare di capire perché partono. I migranti che arrivano dal Bangladesh per lo più fuggono dalla povertà. Molti dei bangladesi che stanno arrivando sulle coste italiane negli ultimi mesi lavoravano nelle imprese di costruzione, negli alberghi e nella ristorazione in Libia. Prima della caduta di Muammar Gheddafi la Libia era un paese d’elezione per i bangladesi che volevano lavorare qualche anno all’estero per mettere da parte un po’ di soldi.

Tuttavia negli ultimi mesi la situazione sta peggiorando per questo gruppo di immigrati: i gruppi criminali li rapiscono, li rinchiudono in luoghi isolati dove li picchiano e li torturano. Quindi scappano in Italia.
La situazione in Pakistan è piuttosto complicata. È un paese musulmano moderno, che fa parte delle Nazioni Unite e del Commonwealth, è una potenza nucleare a tutti gli effetti e uno stato solido finanziariamente parlando perché la Cina fa grandi investimenti. Eppure la disoccupazione è un problema enorme tanto quanto gli investimenti. Così come la paura degli attentati che colpiscono la popolazione civile perchè il paese ha serissimi e gravi conflitti ai suoi confini. Ad Ovest c’è il confine meridionale dell’Afghanistan, in mano ai talebani che hanno da tempo cominciato a penetrare anche oltre il confine pakistano, assieme a altri gruppi terroristici come Al Qaida e Isis.

E proprio dall’Afghanistan c’è il costante flusso di profughi in fuga dall’Afghanistan meridionale in mano ai talebani. Il governo di Islamabad è in crisi sulla gestione dell’accoglienza anche considerando il fatto che il Pakistan è il quinto stato più popolato del mondo. Per arrivare nel nostro paese i profughi pakistani sono costretti a viaggi durissimi via terra che passa dall’Iran e la Turchia, dove si imbarcano. E poi c’è la strada che passa attraverso i Balcani: Bulgaria e Servia, poi la Bosnia ed infine la Croazia dalla quale riescono ad arrivare in Italia. Chissà quanti di questi ragazzini hanno la pagella cucita nella giacca.

 

Fonte: www.ilsole24ore.it

 

 




L’immigrazione non è più un’emergenza per merito di Salvini?

È la linea del Corriere della Sera nel suo giudizio di fine anno sui governi Conte: vediamo se è vero.

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha affidato al suo editorialista Antonio Polito il compito di giudicare e confrontare il lavoro dei due governi guidati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: il primo sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle e rimasto in carica fino ad agosto, il secondo appoggiato da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle e ancora in carica.
Polito si è concentrato su vari temi fra cui economia, politica estera ed Europa, ma il giudizio più discusso lo ha dato a proposito delle politiche sull’immigrazione, nel paragrafo dedicato alla “sicurezza”.

In una ventina di righe, Polito ha sostanzialmente elogiato il lavoro da ministro dell’Interno di Matteo Salvini, in carica nel primo governo Conte, con argomenti piuttosto problematici e spericolati.
Fra le varie imprecisioni, la parte iniziale dell’articolo sostiene ad esempio che a causa del netto calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane «l’immigrazione non è più un’emergenza: ed è impossibile negare che la svolta l’abbia data Salvini al Viminale».

Non è vero: il calo degli sbarchi a cui si riferisce Polito era iniziato nell’estate del 2017, quando al ministero dell’Interno c’era Marco Minniti, del PD. Minniti fece un accordo con varie milizie libiche – mai confermato ufficialmente, ma raccontato da diverse inchieste giornalistiche – affinché bloccassero le partenze dei migranti, mantenendoli nei centri di detenzione libici dove peraltro le torture e le violenze sono sistematiche.

Durante i mesi del mandato di Salvini, come si vede in un grafico elaborato dal ricercatore dell’ISPI Matteo Villa, gli sbarchi sono persino calati con meno rapidità rispetto a quando al ministero dell’Interno c’era Minniti.

L’articolo del Corriere usa anche diverse espressioni che di solito vengono evitate dagli esperti di immigrazione. È opinabile, per esempio, che nel 2017 l’Italia si trovasse in una situazione di «emergenza» riguardo all’immigrazione, dato che i numeri degli sbarchi erano simili a quelli registrati nei tre anni precedenti. Così come è forzato sostenere che prima del crollo degli sbarchi l’immigrazione verso l’Italia fosse «selvaggia»: il sistema di accoglienza e di esame delle richieste di protezione è sempre rimasto in piedi (la tesi falsa della «immigrazione selvaggia» è una delle più care all’estrema destra in tutta Europa).

Il consuntivo del Corriere dice cose imprecise in diversi altri punti, come per esempio quando scrive che la «politica dei porti chiusi» di Salvini «ha funzionato sul piano dei numeri e ha costretto l’Europa, almeno di tanto in tanto, a non voltarsi dall’altra parte».

Sul piano dei numeri, come abbiamo visto, si può addirittura argomentare che le misure di Salvini abbiano rallentato il crollo degli sbarchi. Ma più in generale i porti italiani non sono mai stati «chiusi», nemmeno durante il mandato di Salvini: i migranti hanno continuato a sbarcare e i divieti emessi dal ministero dell’Interno in quei mesi erano rivolti soltanto alle navi delle ong che soccorrono le persone nel Mediterraneo, e l’unica conseguenza pratica che hanno avuto è stata quella di prolungare le sofferenze e la condizione di disagio per centinaia di persone già provate dalle violenze in Libia. Le ong peraltro fanno un lavoro molto visibile – cosa che le rende facili bersagli della propaganda e delle forzature di Salvini – ma sono responsabili solo in piccola parte degli arrivi via mare in Italia.

(leggi anche: I porti sono chiusi solo per certi migranti)

Nei primi sei mesi del 2019 sono sbarcati in Italia 3.073 migranti: soltanto 248 sono arrivati a bordo delle navi delle ong, circa l’8 per cento. Gli altri 2.825, cioè il 92 per cento del totale, sono arrivati con modalità meno visibili o perlomeno meno raccontate: attraverso i cosiddetti “sbarchi fantasma” o in maniera autonoma.

Nel primo caso si parla di sbarchi che coinvolgono gommoni o piccole imbarcazioni difficilmente individuabili: in questo modo sono arrivate 737 persone dall’1 gennaio ai primi di giugno. Nel secondo caso si parla invece di piccole barche arrivate fino alle coste italiane oppure entrate nelle acque territoriali italiane e poi trainate in porto dalle autorità italiane.

(leggi anche: Chi porta davvero i migranti in Italia )

È falso anche che Salvini sia riuscito in qualche modo ad attirare l’attenzione dell’Europa sul tema dell’immigrazione.

Salvini ha disertato praticamente tutti gli incontri europei dei suoi colleghi ministri dell’Interno – ha partecipato a una sola riunione, in cui ha litigato con un ministro lussemburghese – e il governo italiano è riuscito a ottenere una disponibilità a ricollocare i migranti soccorsi in mare e portati in Italia soltanto con l’insediamento del secondo governo Conte, alla fine di settembre. Matteo Villa ha stimato che l’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha ottenuto la promessa di ricollocare in altri stati europei l’8,9 per cento dei migranti arrivati in Italia, a fronte del 4 per cento di Salvini.

Matteo Villa@emmevilla

⛔️🚢Malta ed “effetto “.

A quasi tre mesi dalla dichiarazione di Malta, qualcosa è cambiato?

Sì. Oggi l’Italia ricolloca più del doppio dei migranti sbarcati sia rispetto al 2015-2017 (emergenza), sia al periodo di “crisi in mare” con Salvini.

Un thread.

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Ci sono altri parametri, poi, che suggeriscono che le politiche di Salvini siano state quantomeno deleterie o problematiche.

Durante il suo mandato, e molto probabilmente per effetto del primo cosiddetto decreto sicurezza, gli stranieri irregolari sul territorio italiano sono aumentati da 530mila a 600mila.
Più in generale, Salvini ha spesso diffuso informazioni false sui migranti, aizzato l’odio contro gli stranieri attraverso i suoi profili sui social network e propalato teorie infondate come quella sulla presunta sostituzione etnica del popolo europeo.

(leggi anche: Sulla strada per colpa del “decreto sicurezza”)

 

Fonte: www.ilpost.it

 

 




L’insostenibile leggerezza del Decreto Sicurezza

Il decreto legge chiamato Sicurezza e immigrazione (d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, approvato dal Senato il 7 novembre 2018 e convertito in legge 20 giorni dopo) è legge dello Stato da più di 12 mesi.
Fu fortemente voluto dall’allora Ministro degli Interni, che, bontà sua, definì il provvedimento un regalo al Paese fatto di «un po’ di regole e un po’ di ordine».

E malgrado il bon ton imponga che «a caval donato non si guardi in bocca», il «regalo» è stato dettagliatamente esaminato, e sono di questi giorni i dati, resi disponibili dallo stesso Viminale, che ne descrivono la ricaduta i termini di efficacia e risultati. Li hanno raccolti in un rapporto reso pubblico qualche giorno fa Openpolis e ActionAid. Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante.

I dubbi, da subito, sull’effettività del decreto

Ci stupiamo? Ma da subito dalla nuova disciplina emergeva una serie di interrogativi e dubbi sull’applicabilità in concreto delle misure adottate.

In particolare, a decreto convertito, su queste pagine Stela Xhunga poneva 4 domande che a suo avviso avrebbe dovuto farsi chi ne era sostenitore. Partiamo da quelle, e vediamo se, a un anno di distanza, quei dubbi erano legittimi.

 

Con quali soldi il Governo intende rimpatriare gli irregolari?

Non vi è dubbio, la politica dei rimpatri è stata fallimentare; in campagna elettorale Matteo Salvini aveva promesso 600mila rimpatri ma i dati del Viminale danno cifre diverse: 3.299 rimpatri portati a termine a luglio 2019, a oggi ne sono stati disposti 27mila ed eseguiti 5.600. Si tratta di cifre più basse rispetto (non solo alle promesse ma anche) a quanto eseguito nei due anni di governo precedenti (7.383 nell’anno 2017 e 7.981 nel 2018).

Come sottolinea Openpolis, di questo passo, «anche nell’ipotesi impossibile di zero arrivi nei prossimi decenni, occorrerà oltre un secolo e oltre 3,5 miliardi di euro (5.800 euro a rimpatrio) per rimpatriarli tutti».

Tre miliardi e mezzo di euro! Per rimpatriarli tutti… Già, tutti. Ma quanti sono?

Immigrati irregolari: la «sicurezza» è il loro numero in aumento

Come emerge dallo studio sopra citato – che, sia detto tra parentesi, risulta una fonte straordinaria di dati – le nuove norme, nate per l’espressa volontà di contrastare la cosiddetta “emergenza migranti”, concorreranno «paradossalmente a crearne un’altra, quella degli irregolari presenti sul nostro territorio».  Si stima infatti che il numero degli irregolari potrà arrivare a 680mila entro il 2019 e superare i 750mila a gennaio del 2021.

È questa la conseguenza più immediata ed evidente dell’abolizione della protezione umanitaria, che diventa così una vera e propria emergenza di cui occorrerà farsi carico da subito. L’abrogazione dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 1 del decreto) si è tradotta infatti nell’aumento immediato della percentuale dei “diniegati” (coloro ai quali viene negato il riconoscimento di una forma di protezione internazionale), che passano dal 67% nel 2018 all’80% nel 2019: in numeri assoluti 80mila persone che rischieranno di essere estromesse dal sistema e destinate ad aggiungersi alla popolazione degli irregolari.

Il permesso per motivi umanitari, che durava fino a 2 anni, portava con sé importanti effetti: consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Che ora vengono meno. E si arriva così a rispondere a un’altra delle domande da noi poste un anno fa.


Che fine faranno gli operatori che lavorano regolarmente nell’accoglienza?

Verranno licenziati.

Il 31 dicembre scadranno infatti i finanziamenti destinati ai progetti di accoglienza del Sistema “diffuso” di protezione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia (gli Sprar, gestiti con i Comuni). Questi sono stati fortemente ridimensionati, e oggi i richiedenti asilo sono affidati ai nuovi Cas (gestiti dalle prefetture) che garantiscono di fatto solo vitto e alloggio, senza alcuna previsione di servizi per l’inserimento economico e sociale (a cominciare, per esempio, dall’insegnamento della lingua italiana).

Cancellati i centri di accoglienza, viene meno anche una lunga lista di figure professionali: si stima che resteranno senza lavoro circa 18 mila persone tra infermieri, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali e insegnanti, quasi tutti giovani e laureati.

Come è stato scritto: «Una bomba sociale, che supererebbe anche il buco occupazionale che potrebbe crearsi con la chiusura dell’ex Ilva» di cui tanto si parla in questi giorni.

 

Fonte: Peopleforplanet.it




Nessuno lascia la sua casa

Una poesia che è un pugno nello stomaco.

Da leggere assolutamente, soprattutto per coloro che, mentre pregano per il figlio che si è trasferito all’estero alla ricerca di un lavoro dignitoso, gioiscono per ogni gommone che affonda nel Mediterraneo.

 

CASA

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo;
verso il confine ci corri
solo quando vedi tutta la città correre,
i tuoi vicini che corrono più veloci di te,
il fiato insanguinato nelle loro gole.

Il tuo ex-compagno di classe,
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine,
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo;
lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo;
fuoco sotto ai piedi,
sangue che ti bolle nella pancia.
Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti il collo,
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale sotto il respiro;
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto,
singhiozzando ad ogni boccone di carta,
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca,
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni,
sotto i vagoni,
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
Nessuno striscia sotto ai recinti;
nessuno vuole essere picchiato,
commiserato.
Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori,
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro di una città che arde
e un secondino nella notte
è meglio di un carico di uomini che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare,
nessuno lo può sopportare,
nessuna pelle può resistere a tanto.

Andatevene a casa neri,
rifugiati,
sporchi immigrati,
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese,
negri con le mani aperte:
hanno un odore strano,
selvaggio,
hanno distrutto il loro paese e ora
vogliono distruggere il nostro.

Le parole,
gli sguardi storti,
come fai a scrollarteli di dosso?
Forse perché il colpo è meno duro che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra le cosce
o gli insulti sono più facili da mandare giù
che le macerie,
che le ossa,
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo,
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa,
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda.
A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo,
lasciati i panni dietro,
striscia nel deserto,
sguazza negli oceani,
annega,
salvati,
fatti fame,
chiedi l’elemosina,
dimentica la tua dignità:
la tua sopravvivenza è più importante.

Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso:
non so cosa io sia diventata,
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Warsan Shire

 

Warsan Shire è una giovanissima poetessa britannica di origine somala. Se il nome non vi è nuovo è perché molto si è parlato di lei e della sua scrittura in occasione dell’uscita dell’album Lemonade di Beyoncé, alla quale Shire ha partecipato come autrice di alcuni dei testi. I suoi libri e le sue poesie hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali e sono diventati stendardi in difesa dei diritti degli immigrati. Warsan Shire parla di immigrazione da immigrata e da sempre nelle interviste esprime la volontà di dare voce a chi voce non ha, a chi viene imbavagliato da una retorica razzista che vuole dividere gli esseri umani per appagare la divorante fame di consensi popolari e potere.

Fonte: http://losbuffo.com

 




La politica della paura

Pubblichiamo un articolo molto interessante e ben documentato del Prof. Fabio Sabatini dell’Università “La Sapienza” di Roma.

 

Le domande a cui vorrei rispondere con questo articolo sono:

  1. L’immigrazione causa un aumento del crimine?
  2. C’è differenza tra immigrazione regolare e clandestina?
  3. Perché il pubblico ha paura dell’immigrazione?
  4. Qual è l’impatto della paura sulla spesa pubblica?

 

Milo Bianchi (Université Toulouse 1), Paolo Buonanno (Università di Bergamo) e Paolo Pinotti (Bocconi) hanno studiato il rapporto tra immigrazione e criminalità in Italia.

Lo studio, pubblicato sul Journal of the European Economic Association, si può scaricare qui.

La stime degli autori mostrano che nelle province italiane ad un aumento dell’1% degli immigrati corrisponde un aumento del numero di reati rispetto alla popolazione totale dello 0,1%.

Ma questa relazione è dovuta a una coincidenza, perché gli immigrati si concentrano nelle aree che, per altre ragioni, sono già caratterizzate da alti tassi di criminalità. Per esempio, gli immigrati tendono ad abitare in zone degradate ad alta concentrazione criminale, perché lì le case costano meno.

Se, con tecniche appropriate, si isola la variazione del numero di reati causata dalla variazione del numero di immigrati, si scopre che l’immigrazione non ha alcun effetto sulla criminalità. Il risultato vale sia per il totale degli immigrati sia per le singole nazionalità.

 

Ma gli immigrati sono tutti uguali?

Paolo Pinotti ha studiato la propensione a delinquere degli immigrati regolari e dei clandestini in Italia in uno studio pubblicato sull’American Economic Review (scaricabile gratuitamente qui).

Ogni anno l’Italia mette a disposizione un certo numero di permessi di soggiorno per diversi tipi di candidati, definiti in base al tipo di lavoro, alla nazionalità e alla provincia di residenza. Le domande devono essere presentate online dai datori di lavoro a partire dalle 8 del mattino in determinati “click days”.

Il razionamento dei permessi e la frequenza delle domande nelle prime ore dei click days sono tali che a molte migliaia di persone viene negato il permesso soltanto perché il datore di lavoro ha esitato pochi secondi a sottoporre la domanda.

La chiusura dei termini per la domanda non è nota a priori, dipende dalla frequenza delle domande e si verifica in genere circa 30 minuti dopo l’inizio dei click days.

Le stime mostrano che, nell’anno successivo al click day, il tasso di criminalità degli immigrati che hanno ottenuto il permesso di soggiorno si riduce del 55%. Significa che gli immigrati regolari tendono a delinquere meno, probabilmente perché non ne hanno motivo e hanno molto da perdere.

Questo risultato è molto consolidato in letteratura. Si vedano per esempio Mastrobuoni e Pinotti (2015) e Freedman e altri (2018) citati in fondo a questo post.

In questo caso la ricerca mette a nudo uno degli obiettivi nascosti dei decreti sicurezza. Le condizioni disperate in cui versano i clandestini aumentano la propensione a delinquere, fornendo nuovi reati da usare a favore della narrazione autoritaria.

 

Ma allora perché il pubblico ha tanta paura dell’immigrazione?

Mathieu Couttenier (Université de Lyon) e colleghi hanno studiato l’effetto della copertura mediatica dei reati commessi da immigrati sul supporto ai partiti populisti in Svizzera.

Gli autori mostrano che:

1) i crimini commessi da immigrati hanno una probabilità doppia di essere riportati dai quotidiani svizzeri, a parità di caratteristiche del reato.

2) Leggere tali notizie aumenta la probabilità di supportare i partiti populisti.

Lo studio, pubblicato nella collana del CEPR di Londra, si può scaricare qui.

Risultati simili sono stati trovati da Nicola Mastrorocco (Trinity College) e Luigi Minale (Universidad Carlos III Madrid) per l’Italia, che in uno studio pubblicato sul Journal of Public Economics mostrano che:

1) tra il 2007 e il 2013 le reti Mediaset hanno dato una copertura sproporzionata ai reati commessi da immigrati.

2) Guardare meno i canali Mediaset causa una riduzione della paura dei reati commessi da immigrati.

 

Che effetto ha la paura sulla spesa pubblica?

Vincenzo Bove (University of Warwick), Leandro Elia (Università Politecnica delle Marche) e Massimiliano Ferraresi (Commissione Europea) hanno studiato l’impatto dell’immigrazione sulla composizione della spesa pubblica nei comuni italiani. Lo studio si può scaricare gratuitamente qui.

Gli autori confermano che la presenza degli immigrati non ha alcuna relazione statisticamente significativa con l’aumento dei reati. Tuttavia, c’è una relazione positiva e statisticamente significativa tra immigrazione e spesa per misure di polizia.

In media, la spesa destinata alla sicurezza aumenta di 0,12-0,30 punti percentuali per ogni punto di aumento della quota degli immigrati sulla popolazione totale. Si tratta di un effetto notevole, se consideriamo che i comuni spendono in media il 4,3% del loro budget per la sicurezza.

Nonostante i dati Istat mostrino chiaramente che i reati sono in calo – da parte sia dei nativi sia degli immigrati – chi ha degli immigrati per vicini di casa ha una probabilità più elevata di credere che la criminalità sia un’emergenza nazionale causata dall’immigrazione.

Ma da dove vengono presi i soldi per finanziare le misure di polizia? Gli autori mostrano che sono sottratti ad altre voci molto importanti per l’economia, quali la cultura, il turismo e lo sviluppo locale.

Per concludere: la paura degli immigrati è poco fondata e per lo più guidata da propaganda e differenze culturali, ma è molto costosa.

Riferimenti bibliografici

Bianchi, M., Buonanno, P., Pinotti, P. (2012). Do immigrants cause crime? Journal of the European Economic Association 10(6): 1318-1347.

Bove, V, L Elia and M Ferraresi (2019). Immigration, fear of crime and public spending on security. CAGE WP 424.

Couttenier, M., Hatte, S., Thoenig, M., Vlachos, S. (2019). The Logic of Fear – Populism and Media Coverage of Immigrant Crimes. CEPR DP13496.

Freedman, M., Owens, E., Bohn, S. (2018). Immigration, Employment Opportunities, and Criminal Behavior. American Economic Journal: Economic Policy 10(2): 117-151.

Mastrobuoni, G., Pinotti, P. (2015). Legal Status and the Criminal Activity of Immigrants. American Economic Journal: Applied Economics 7(2): 175-206.

Mastrorocco, N., Minale, L. (2018). News Media and Crime Perceptions: Evidence from a Natural Experiment. Journal of Public Economics 165: 230-255.

Pinotti, P. (2017). Clicking on heaven’s door: The effect of immigrant legalization on crime. The American Economic Review 107(1): 138-168.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

dello stesso autore:

https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/cosa-sta-succedendo-in-italia.html

https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/come-stata-creata-la-balla-delle-ong-criminali.html




CGIL L’Aquila: situazione critica in Provincia

Esportazioni a picco (specie nei settori a valore aggiunto), saldi “demografici” delle imprese negativi, boom della disoccupazione giovanile, un’emigrazione solo parzialmente compensata dai nuovi arrivi di cittadini stranieri.

E’ un quadro a dir poco preoccupante quello dipinto dagli indicatori economici della provincia dell’Aquila forniti dalla Cgil, illustrati in conferenza stampa dal segretario provinciale della Camera del Lavoro Francesco Marrelli e da Luigi Antonetti, segretario provinciale Filcams.

Sono cifre che disegnano uno scenario di crisi profonda del territorio, per fronteggiare il quale il sindacato chiede l’immediata attivazione, da parte della Regione Abruzzo, di un tavolo istituzionale per disegnare una nuova strategia per il futuro della aree interne.

Gli indici economici della provincia dell’Aquila descrivono una situazione di criticità e di fragilità dell’intero territorio” afferma Marrelli “Anche i settori trainanti, che vedevano una condizione anticiclica durante la crisi economica, hanno subito negli anni forti rallentamenti. Infatti se partiamo dal dato delle esportazioni, il cui valore era pari a 996.939.306 euro nel 2008, dobbiamo registrare una drastica diminuzione fino ai 603.233.103 euro nel 2018, con una riduzione del 39,5%. Nello specifico, per quanto concerne i settori trainanti, quali ad esempio sostanze e prodotti chimici; articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici; computer, apparecchi elettronici e ottici; apparecchi elettrici; mezzi di trasporto; attività professionali, scientifiche e tecniche; attività artistiche, di intrattenimento e divertimento, il dato risulta ancora più allarmante passando da un valore del 2008 di 690.271.507 euro ai 426.795.197 euro del 2018, con una riduzione pari al 38,17%”.

Sul fronte delle imprese inoltre” continua Marrelli “si riscontra una preoccupante inversione di tendenza tra iscrizioni e cessazioni dal 2014 in poi. Infatti fino quell’anno le iscrizioni al registro delle imprese risultavano maggiori rispetto alle cessazioni. Nell’anno 2009 risultavano 1918 iscrizioni contro 1473 cancellazioni, con un andamento che è rimasto simile fino al 2013; nel 2014 tuttavia, l’anno in cui questa tendenza ha subito una drastica inversione, ci sono state 1715 cancellazioni contro 1567 iscrizioni, e tale andamento si è protratto fino al 2017 con 1614 cancellazioni rispetto a 1478 iscrizioni di nuove imprese. Dal 2014 al 2018, in conclusione, siamo passati da 26.690 attività iscritte del 2014 a 26.358 del 2018”.

Le cose non fanno meglio sul fronte occupazionale:Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che si attestava nel 2008 al 25,5%, è balzato nel 2018 al 31,1%. A ciò si aggiunga che il tasso di disoccupazione riferito a tutte le persone con oltre 15 anni è passato dall’8,3% del 2008 al 9,8 % del 2018. Tra l’altro la popolazione lavorativa ha subito in dieci anni un invecchiamento esponenziale passando dal 31,3% degli occupati tra gli over 54 (le persone occupate dai 55 ai 64 anni) del 2008 al 57,9 del 2018. L’unico indice che subisce una crescita nel periodo 2008-2018 è quello riferito agli addetti delle società cooperative, conseguenza anche di esternalizzazioni si servivi pubblici o utilizzo di detta tipologia di società negli appalti, che passa dal 3,5% del 2008 al 4,3% del 2018”.

La provincia dell’Aquila” osserva Marrelli “già prima del sisma aveva subito pesantemente le conseguenze della crisi economica, laddove dai 124.000 occupati del 2007 si era passati ai 117.000 del 2008. Successivamente, dopo il terremoto, il numero di occupati in provincia è sceso al picco minimo di 107.000 al 31 dicembre 2014, con calo complessivo di 17.000 posti di lavoro. Oggi infine, secondo i dati Istat, stimiamo che il nostro territorio ha perso a partire dal 2007 circa 10.000 occupati (al 2018 risultavano circa 114.000 lavoratori) con un recupero parziale ma ancora lontano da un’effettiva ripresa occupazionale”.

La nostra dunque” nota il segretario provinciale della Cgil “è una provincia che vive una grave condizione di spopolamento delle aree montane dovuta alla scarsità di lavoro e di servizi offerti alla collettività. Si stimano, sempre secondo dati Istat riferibili al decennio 2009-2019, circa 10.200 residenti in meno in tutta la provincia, e nel solo triennio 1° gennaio 2016-1° gennaio 2019 un delta negativo di meno 4208 residenti. Tutto ciò è dovuto anche a un saldo naturale tra mortalità e natalità costantemente in negativo, ma ciò che dovrebbe maggiormente preoccupare la politica e le istituzioni sono i saldi migratori dei capoluoghi di provincia per trasferimento di residenza intraprovinciale ed interprovinciale”.

Nel periodo analizzato 2012-2017 si riscontra che l’andamento dei trasferimenti verso province della stessa regione è costantemente in negativo ed è così caratterizzato:

  • 2012 saldo -275,
  • 2013 saldo -99,
  • 2014 saldo -106,
  • 2015 saldo -192,
  • 2016 saldo -130,
  • 2017 saldo -69,

per un saldo totale di -871.

Tale andamento negativo riguarda ancor più i trasferimenti in province di altre regioni:

  • 2012 saldo -201,
  • 2013 saldo -85,
  • 2014 saldo -137,
  • 2015 saldo -258,
  • 2016 saldo -178,
  • 2017 saldo -293

per un saldo totale di -1.152.

Si tenga presente che se il dato sullo spopolamento non assume ad oggi un carattere di assoluta drammaticità è per il saldo positivo dei trasferimenti dall’estero che continua, nonostante tutto, ad avere andamenti positivi. Infatti dal 2012 al 2017 risulta un incremento di trasferimenti dall’estero verso la nostra provincia come di seguito ripartiti:

  • 2012 +243,
  • 2013 +220,
  • 2014 +182,
  • 2015 +172,
  • 2016 +303,
  • 2017 +452,

per un totale di 1.772 nuove iscrizioni dall’estero”.

Ricordiamo infine” continua Marrelli “che tutte le problematiche che abbiamo trattato riguardano il nostro territorio provinciale, che per estensione rappresenta il 50 % dell’intera superficie regionale e gran parte delle aree interne dell’Abruzzo. Da anni la Cgil dell’Aquila sollecita la necessità e l’urgenza di definire una vera e propria “Strategia per le Aree Interne dell’Abruzzo, una strategia che affrontando i nodi degli investimenti per l’occupazione, per i servizi e per le infrastrutture, che inverta una tendenza ormai decennale di uno spopolamento continuo e inesorabile”.

Le aree interne conclude Marrelli “devono rappresentare un potenziale motore di sviluppo per l’intero territorio regionale, non solo per le ricchezze ambientali che offrono ma soprattutto per le capacità e la storia delle comunità che stabilmente vi risiedono. Per tale ragione bisogna immediatamente avviare un tavolo di confronto con la Regione Abruzzo che tenga presente le priorità da affrontare come lo sviluppo industriale e gli investimenti per i settori produttivi, la tutela e la conservazione ambientale e la messa in sicurezza del territorio attraverso una seria politica di interventi di prevenzione contro le calamità naturali, l’implementazione dei servizi essenziali e indispensabili”.

 

Fonte: www.newstown.it