Che lavoro! A 6 milioni di dipendenti 11mila € l’anno

Quasi 6 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 11 mila euro lordi all’anno. In pratica, un dipendente su tre porta a casa mediamente meno di 850 euro netti al mese. E se consideriamo la fascia che va fino a massimo 17 mila euro – quindi appena 1.200 netti mensili – contiamo altri due milioni di persone. Il tema del lavoro povero ha diverse sfaccettature. Negli ultimi mesi il dibattito si è concentrato sul problema del basso salario orario, ma questo non è l’unico e forse neppure il più grave. Ieri la Cgil ha diffuso nuove rielaborazioni di dati Inps nell’ambito della campagna contro il precariato lanciata nelle scorse settimane dal sindacato guidato da Maurizio Landini.

Il focus si concentra non sui salari orari ma sui redditi annui, che dipendono anche da quanto effettivamente le persone lavorano: per quanti mesi dell’anno o per quante ore alla settimana. Dai numeri emerge con chiarezza quello che nel nostro Paese sta comportando la sotto-occupazione, cioè l’eccesso di lavoretti, di part time involontario, di domanda di lavoro stagionale e a bassa specializzazione: un esercito di addetti con redditi insufficienti a una vita dignitosa. Ecco perché il motivo non è solo nei minimi salariali molto bassi di alcuni contratti collettivi, ma anche dalla scarsa intensità dei loro impieghi, molto discontinui.

Ricapitolando: oltre 2,4 milioni di lavoratori guadagnano meno di 5 mila euro annui. Di questi, 1,8 milioni – quindi la maggior parte – è retribuita per un periodo di massimo tre mesi. Ma attenzione perché abbiamo quasi 50 mila lavoratori che non superano i 5 mila euro pur essendo in servizio per tutto l’anno. Se estendiamo lo sguardo all’intera fascia sotto i 10 mila euro, abbiamo ben 324 mila persone che hanno guadagni sotto quella soglia pur essendo retribuiti per l’intero anno. Questo vuol dire che parliamo di persone che lavorano part time per tutto l’anno o che, pur avendo un full time, hanno stipendi miseri. Insomma, il lavoro povero è la sintesi di un misto di fattori: bassi salari e carriere spezzettate. Entrambi gli elementi sono ignorati dal governo, che ha deciso di non introdurre il salario minimo per legge e ha approvato nell’ultimo anno e mezzo una serie di provvedimenti che incentivano ulteriormente l’utilizzo di contratti precari da parte delle imprese. C’è sicuramente, sullo sfondo di questi numeri, pure l’effetto del lavoro irregolare, ma questo è difficile da quantificare e comunque non sminuisce il problema.

Il confronto tra Italia ed Europa resta impietoso. Da noi un dipendente a tempo pieno guadagna in media 31.500 euro all’anno, contro i 45.500 della Germania e i 41.700 della Francia. Se consideriamo i quasi 17 milioni di dipendenti italiani, la retribuzione media è di 22.839 euro lordi all’anno. Tra questi abbiamo 7,9 milioni di dipendenti discontinui e 2,2 milioni di part time per tutto l’anno. Tutti questi dati si riferiscono all’ultimo aggiornamento disponibile, del 2022. “La situazione non è certo migliorata nel 2023 – aggiunge Christian Ferrari, segretario confederale Cgil – anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%, cumulandosi con quella dei due anni precedenti, raggiungendo un totale del 17,3%”.

Di fronte a questo scenario che spiega la scarsa solidità del nostro mercato del lavoro, il governo continua a rallegrarsi dei dati sull’occupazione. La ministra del Lavoro Marina Calderone parla di numeri “confortanti” e sventola continuamente i dati sulle assunzioni previste dalle imprese, ma come al solito si ignora la qualità di questi posti: secondo lo stesso bollettino Anpal-UnionCamere, che pure è una fonte molto cara a Calderone, a febbraio le imprese prevedevano quasi 408 mila entrate, ma solo il 20% a tempo indeterminato, più un altro 5% in apprendistato. Ben il 52% è a tempo determinato, un altro 10% in somministrazione, un altro 9% ancora con contratti di collaborazione.

Sono le forme contrattuali che contribuiscono a formare il precariato e a determinare i bassi redditi.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 17 marzo 2024




Chi paga le tasse in Italia?

Nella speciale classifica del “chi sale e chi scende” sul registro dei contribuenti dell’Agenzia delle Entrate, nel primo semestre dell’anno crescono ancora dipendenti e pensionati, svaniscono lavoratori autonomi ed evasori, mentre Iva e imposte sui giochi segnalano un crollo dei consumi. Sulla scrivania del ministro dell’Economia Giorgetti, impegnato nella legge di Bilancio in un’improbabile quadratura tra le scarse risorse disponibili e il mantenimento delle promesse elettorali, arrivano dati poco incoraggianti sull’andamento delle entrate fiscali e di riflesso sulla congiuntura economica.

Intanto la lotta all’evasione, che secondo i dati del Mef si affievolisce sempre più. Nel primo semestre dell’anno le entrate da accertamento e controllo segnano un calo del 10,1%. A incidere maggiormente è il mancato recupero delle imposte dirette, con un 21% in meno rispetto all’anno precedente. Il recupero di evasione delle imposte indirette, grazie soprattutto al meccanismo dello split payment applicato al prelievo dell’Iva, compensa invece parzialmente la flessione generale, registrando un incremento del 5,3%. Ma in totale mancano all’appello dell’Agenzia delle Entrate 613 milioni di euro per bissare il già magro bottino del 2022.

Cresce il gettito dalle ritenute Irpef sugli stipendi dei dipendenti del settore privato (+6,3%), del pubblico (+9%) e sui lavoratori autonomi (+4%), che segnala se non altro un aumento dei lavoratori contrattualizzati. Mentre sono in profondo rosso le entrate che dovrebbero arrivare “spontanee” dai versamenti in autoliquidazione (-17,2%). Profondo rosso anche dai flussi delle imposte sui redditi da capitale e sulle plusvalenze, una contrazione di 2 miliardi e 33 milioni di euro (-92,6%), dovuto ai risultati negativi del risparmio gestito nel 2022 rispetto al 2021. Il crollo dei rendimenti ha investito in particolare i fondi pensione e le varie forme di previdenza integrativa.

In controtendenza le entrate delle imposte indirette, che crescono, anche se molto meno del tasso d’inflazione, contro le aspettative. Un andamento che sembra denunciare una significativa frenata del volume dei consumi finali e una ripresa dell’evasione. Il gettito Iva ha segnato un più 3%, risultato di un aumento sugli scambi interni del 5,4% e di un calo sulle importazioni dell’11%. In controtendenza l’industria, con un mancato gettito del 3,9% che conferma la retromarcia del settore e una forte difficoltà a trasferire sulla filiera l’aumento dei costi.

La tanto odiata accisa sui prodotti energetici marca incrementi percentuali a due cifre: +20,3% pari a 1.856 milioni di euro solo nel primo semestre. Ma cala il prelievo sull’energia elettrica (-41 milioni di euro, pari a –2,7%), mentre l’accisa sul gas naturale per combustione (gas metano) ha generato entrate in discesa per 1.242 milioni di euro (-769 milioni di euro, pari a –38,2%).

Cresce il gettito dell’imposta sul consumo dei tabacchi, a 5.252 milioni di euro (+62 milioni di euro, pari a +1,2%). Infine, l’imposta sulle successioni e donazioni ha fatto registrare entrate per 503 milioni di euro (+46 milioni di euro, pari a +10,1%).

Crollano le entrate delle imposte sui giochi e le lotterie, un’attività tradizionalmente assai cara a disoccupati e pensionati. Se si considerano solo le imposte indirette, il gettito totale in sei mesi è stato di 3.575 milioni di euro (3.301 milioni di euro in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, pari al 48%). Un sociologo ci vedrebbe un’altra spia accesa sulle crescenti difficoltà economiche in cui versano i ceti popolari.

 

Articolo di Luciano Cerasa sul Fatto Quotidiano del 30/8/2023




Istat: salari scarsi, povertà alta. E il governo fischietta

Guadagniamo il 12 % in meno della media Ue, la fascia 18-34 è sempre più esposta agli indici di deprivazione. Pure i dati sul lavoro sono i più bassi


Salari molto più bassi della media europea, giovani adulti più poveri rispetto alle altre fasce di età, una popolazione che invecchia inesorabilmente mentre lo Stato spende molto poco per sostenere le famiglie e la natalità. Il rapporto annuale Istat – ieri è stato presentato quello del 2022 – è il consueto appuntamento con la strutturale emergenza sociale. Un ossimoro apparente: la carrellata di numeri allarmanti non spaventa neanche l’attuale governo, il quale – al contrario – prosegue dritto con misure che, se guardate alla luce dei dati, sembrano destinate a un altro Paese.

La questione salariale è centrale. Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono inferiori alla media europea di 3.700 euro all’anno. La forbice – dice il rapporto – diventa di 8mila euro se il confronto è solo con quelli tedeschi. Le paghe lorde ammontano a circa 27mila euro e la differenza con l’Europa è del 12%, quella con la Germania arriva al 23%. La significativa differenza si vede non solo fotografando la situazione attuale, ma osservando la crescita degli ultimi anni: tra il 2013 e il 2022, le nostre buste paga sono salite del 12%, circa la metà della media europea. Questo vuol dire che in quel periodo il potere d’acquisto delle nostre famiglie è sceso del 2%. In questo contesto, dunque, si colloca l’atteggiamento del governo di chiusura netta a ogni ipotesi di salario minimo, a partire da quella presentata in questi giorni da tutti i partiti di opposizione (Italia Viva esclusa).

Gli stipendi bassi, poi, contribuiscono a diffondere la povertà, specialmente nella generazione che più di tutte fa i conti con il precariato. Secondo il rapporto, ben il 47,7% della popolazione tra i 18 e i 34 anni fa i conti con almeno un fattore di deprivazione materiale. Si tratta di un indicatore che misura il benessere e che conta sei aree: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio. In pratica, quasi la metà dei giovani maggiorenni presenta una carenza in almeno una di queste; 1,6 milioni, invece, presentano deprivazioni in due o più domini. Il rapporto, quindi, segnala quella fascia di età come la più vulnerabile e vale la pena ricordare che proprio quella fascia sarà interessata maggiormente dal taglio del Reddito di cittadinanza; da ora in poi la nuova misura potrà andare solo a chi ha minori, disabili o anziani nel nucleo. I più colpiti saranno i single e le giovani coppie senza figli, che pure sono le categorie penalizzate dal mercato del lavoro. “Per la maggioranza dei giovani – ha detto il presidente facente funzione Istat Francesco Maria Chelli – il raggiungimento di queste tappe è sempre più un percorso a ostacoli e negli ultimi decenni si è assistito a un loro costante posticipo”. Tra l’altro, la povertà si conferma un fenomeno ereditario: da noi la trasmissione intergenerazionale della povertà, la “trappola”, è più intensa che nella maggior parte dell’Ue: quasi un terzo degli adulti tra 25 e 49 anni a rischio povertà viene da famiglie che, quando avevano 14 anni, erano in cattive condizioni finanziarie. Evidenza che stronca la narrazione del disagio economico come colpa.

I posti di lavoro, poi, nel 2022 sono cresciuti ma i nostri dati restano tra i peggiori d’Europa. E il record del tasso di occupazione dipende anche da fattori demografici, cioè dalla popolazione in età lavorativa che diminuisce. Il declino è proseguito anche nell’anno appena passato, quando la popolazione italiana generale è diminuita di 179.416 unità. Per la prima volta le nascite sono andate sotto le 400mila, fermandosi a 393mila, mentre le morti sono state 713mila. A inizio 2020 l’età media era di 45,7 anni, mentre ora siamo a 46,4. Siamo tra l’altro uno dei Paesi che meno investe per la famiglia e i minori: l’Italia spende l’1,2% del Pil, contro il 2,5% della Francia e il 3,7% della Germania.

Anche i dati ambientali sono preoccupanti. La disponibilità idrica nazionale ha raggiunto il suo minimo storico nel 2022, quasi il 50% in meno rispetto al periodo tra il 1991 e il 2020. E c’è il problema della povertà energetica: il 17,6% delle famiglie a rischio povertà non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione e il 10,1% dichiara arretrati nel pagamento delle bollette.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” dell’8 luglio 2023




Reddito di cittadinanza, le storie di chi lo perderà: “Ci tolgono la dignità”

Il Reddito di cittadinanza ha avuto “un ruolo chiave” nel combattere la povertà in questi anni, seppur insufficiente. Lo ha scritto l’Istat più volte. Prima della pandemia e ancor più durante e dopo la stessa. Per questo, quando il governo Meloni ha deciso prima di cancellarlo, poi di ridurlo considerevolmente, era chiaro che ciò avrebbe rappresentato un drammatico problema per milioni di persone. Tutti “occupabili” secondo il governo, una categoria senza paragoni in Europa. Ma chi sono, davvero, queste persone? Il Fatto Quotidiano chiesto ai nostri lettori che percepiscono il Rdc come stanno vivendo questi mesi d’attesa. Hanno scritto a decine. Sono storie di persone a cui la vita aveva già tolto molto, quasi tutto, e a cui il sussidio ha ridato forza e fiducia nelle istituzioni. Riportiamo piccoli estratti di alcune di esse per raccontare il Paese a cui Meloni e i suoi vogliono togliere il reddito.

 

LE FAMIGLIE


“Ho 50 anni, disoccupata e separata con due figli a carico di 14 e 19 anni. Il padre non versa l’assegno di mantenimento, devo provvedere interamente io ai figli con 875 euro al mese di Rdc compreso di assegni familiari. Con questi 875 euro dobbiamo mangiare in tre, pagare bollette, vestiario, spese mediche, scolastiche, sportive, altri extra (riparazioni in casa, spese impreviste) e mantenere una piccola auto che occorre per gli spostamenti abitando in periferia. Per fortuna non pago mutuo o affitto di casa altrimenti saremmo già sotto i ponti. Ho inviato tanti curriculum, fatto concorsi, sono iscritta al centro per l’impiego, ma l’unica proposta che ho ricevuto è un corso di formazione che a tutt’oggi ancora devo fare perché l’agenzia ha detto che si deve formare una classe congrua. Mi chiedo se queste menti diaboliche che stanno al governo hanno pensato minimamente che togliere anche 50, 100 euro su 875 euro al mese significa non
poter pagare una bolletta, oppure non poter fare una visita medica, comprare scarpe ai figli…”.
Tiziana D., 50 anni

Siamo una famiglia di percettori, laureati, due genitori e una bambina. Percepiamo 1.080 euro inclusa la differenza dell’assegno per figli minori. Il Rdc ci ha salvato quando nel maggio 2019 ho perso il mio lavoro in nero per un’azienda barese (800 euro, 10 ore al giorno) dove ho avuto un incidente che non ho denunciato. Nel 2017 avevo già avuto un incidente in campagna, sono stato allettato tre mesi. Non ho denunciato per mantenere un lavoro che poi ho perso comunque. Nel maggio del 2019 per paura di denunce sono stato licenziato e da allora nessuno mi ha prende più. In regola, poi, figurarsi. Da settembre ci tagliano tutto a metà e non sappiamo nemmeno se il bonifico per l’affitto sarà consentito.
Appena la Meloni ha vinto le elezioni il padrone di casa mi ha mandato il preavviso di liberare la casa, ci vuole rimettere dentro in nero. Come camperemo adesso?”.
Danilo, 44 anni

 

I TIMORI DI CHI RIMANE INDIETRO


“Premetto che un lavoro a me non verrà dato tanto facilmente visto il mio passato di tossicodipendenza, sono 16 anni che ne sono fuori ma purtroppo questo interessa poco, per molti rimango sempre un ex tossico. Io voglio lavorare ma con queste premesse sarà difficile. Chiedo alla signora Meloni un lavoro che mi permetta di sopravvivere almeno, un lavoro che posso fare e che il mio corpo possa reggere”.
Pietro P., 54 anni

“Vengo da un famiglia problematica, mio padre non ci ha fornito mai nessun sostegno né morale né economico finché non lo abbiamo chiamato in tribunale. […] Ho cercato un lavoro, ma avendo quasi 50 anni non ho trovato molto, solo cose in nero e sottopagate. Poi è arrivata la pandemia e solo grazie al Rdc non sono finita per strada. […] Forse per chi ci governa sarei dovuta morire anche io nel 2018 con mia madre essendo una cinquantenne senza titolo di studio, senza lavoro, senza figli e senza famiglia. Non mi aspetto molto dal futuro e non so se rientrerò nella categoria che percepirà il Mia, posso dire solo grazie a chi ha istituito il Rdc”.
Francesca N., 53 anni

“Questa vicenda mi determina un’ansia indescrivibile. Non nascondo che i 500 euro mensili mi sono di aiuto a sostenere spese per lo svolgimento della quotidianità e per il benessere di mio figlio a cui dedico quasi tutto il mio tempo. La paura di perdere questo sussidio quasi non mi fa dormire la notte aspettando che arrivino i 67 anni per poter avere la mia pensione che se anche sarà la minima mi permetterà di vivacchiare serenamente. È vero che ci sono migliaia di furbetti, mi capita spesso di vedere al supermercato persone che lavorano per certo (ovviamente in nero) che pagano con la carta del Reddito di cittadinanza. Spero che la vostra iniziativa dia buoni frutti e che queste iniziative del governo, vostro tramite, siano ponderate e ben articolate”.

Pier Giovanni, 66 anni

“Sono dovuta tornare in Sicilia per accudire mio padre durante il breve tratto della sua malattia orribile, con la speranza che un miracolo accadesse […]. Non sono più riuscita a risalire e sono rimasta qui per sbrigare tutto ciò che c’era da fare. Non ho trovato lavoro, qui la situazione per i giovani è molto disagiata… io prego che questo errore non venga fatto, ma se dovesse succedere credo che l’Italia faccia tremila passi indietro, molti si sentiranno di nuovo abbandonati a se stessi. La fame bisogna provarla per poter parlare, come il dolore di un lutto e le altre cose brutte della vita. Non credo che la Meloni abbia mai patito la fame, non siamo tutti uguali, non tutti hanno fortuna nella vita”.

Roberta R., 38 anni

 

IL LAVORO AGLI OCCUPABILI


“Io sono uno dei tanti che il Rdc ha letteralmente salvato dallo sfratto, vivendo in affitto. Ora grazie al governo Meloni questo pericolo tornerà. Ho un diploma, parlo bene, mi reputo una persona perbene. […] Ci hanno promesso corsi di formazione che non sono partiti, dicono che non vogliamo lavorare ma io sto cercando lavoro anche come lavapiatti, ma per età o per scarsa esperienza non riesco a trovare. Solo di affitto pago 350 euro al mese, con l’eventuale Mia io avrei diritto se tutto va bene a 375 euro al mese. Secondo voi come farò? Non ho altre entrate e non ho una famiglia alle spalle che mi possa aiutare economicamente o anche per un tetto sulla testa”.

Giuseppe I., 51 anni

“Sinceramente se non ci fosse stato il Reddito di cittadinanza non so proprio come avrei potuto sopravvivere perché non sono riuscita a trovare uno straccio di lavoro se non puro sfruttamento. Ora che il nuovo governo vuole sostituire il Rdc con Mia non potrò neanche permettermi un monolocale, sono disperata, i miei attacchi di panico stanno aumentando, sono preoccupatissima: il lavoro non c’è soprattutto per chi ha superato una certa età”.

Maria C., 56 anni

“Lavoravo con una azienda multiservizi con contratto a tempo indeterminato, nel 2019 ci hanno licenziato perché lavoravano in subappalto. Da quel momento l’odissea, sono dovuto tornare a casa con mia madre perché non potevo pagare l’affitto, però nel 2021 è venuta a mancare. Adesso mi trovo in provincia di Ferrara, sono iscritto a tutte le agenzie come a molti siti per il lavoro, ma per qualche azienda sono molto grande, per altre sono molto formato, per altri è meglio avere un giovane per avere qualche agevolazione, il discorso è quello […]. L’estate del 2022 volevo provare a fare la stagione, ma anche quello è stato un buco, vogliono giovani per pagarli meno. Avevo una speranza che questo governo davvero ci avrebbe dato un lavoro dopo quei famosi corsi, però è stata solo una presa in giro. Mi scuso per i troppi errori ma sto scrivendo questa email con le mani che mi tremano”.

Gianluca C.

 

Lettere pubblicate sul Fatto Quotidiano del 30/3/2023 a cura di Leonardo Bison




Le vittime della manovra: “Il Governo fa cassa con noi”

Chi paga il conto. Le proteste. Pensionati, medici, prof, statali, poveri: così la destra colpisce il welfare e chi lo gestisce


La prima manovra di Giorgia Meloni tra caos, intoppi e bagarre, si contraddistingue per aver scontentato decine di categorie con misure peggiorative, discutibili e inique. Con un denominatore comune: senza scostamento di bilancio ha tagliato il più possibile facendo cassa sui contribuenti. Ecco chi ci ha perso di più.


Percettori del reddito: “Poveri l’uno contro l’altro”


L’intervento più discusso di questa manovra sul fronte sociale è il drastico taglio del Reddito di cittadinanza: per quelli considerati “occupabili” potrà durare solo sette mesi, quindi a luglio sarà tolto a 400 mila famiglie. Inoltre, i beneficiari saranno costretti ad accettare qualsiasi offerta di lavoro, anche non “congrua” e in qualsiasi zona d’Italia altrimenti lo perderanno anche prima della nuova scadenza naturale.
“Vogliono cancellarlo invece di migliorarlo”, dice Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli che fanno parte dell’Alleanza contro la povertà. “La parte che non funziona sono le politiche attive, va bene, ma ripensare il Reddito non vuol dire spaventare milioni di persone che – prosegue Manfredonia – non avranno più nulla dall’oggi al domani; è un’infrastruttura sociale di questo Paese, ormai è essenziale che esista una norma di questo tipo, poi va migliorata ma non deve essere un modo per mettere i poveri uno contro l’altro, facendo discorsi del tipo aumentiamo le pensioni minime e leviamo il Reddito di cittadinanza”.


Medici e sanitari:
“Favori alla sanità privata”


Due miliardi in più al Fondo sanitario nazionale, di cui 1,4 miliardi solo per coprire i maggiori costi energetici, abbassano la previsione del rapporto spesa sanitaria pubblica/Pil al 6,1% nel 2023 contro il 6,2% del Def di Mario Draghi e contro almeno il 7% stimato per l’anno in corso, già in calo sul 2022, a distanza siderale da Francia e Germania (oltre il 9%) e dalla media Ue (7,9%). La destra di governo ha gettato la maschera, se un rilancio della sanità pubblica non era alle viste, oggi si allontana ancora. “Gli ospedali continueranno a svuotarsi di medici e a riempirsi di pazienti, si allungheranno le liste d’attesa e chi può sarà costretto a rivolgersi ai privati. Il primo punto è eliminare il tetto di spesa per il personale – osserva Pierino Di Silverio che guida il sindacato dei dirigenti medici Anaao-Assomed – altrimenti le aziende ove possibile continueranno ad affidarsi alle cooperative”, cioè ai medici a gettone. Sono saltati anche i 200 milioni di euro per le indennità da versare a medici e personale dei Pronto soccorso, che scoppiano per i limiti della sanità territoriale e degli stessi reparti ospedalieri, nonché i 10 milioni del Piano oncologico. Briciole, su cui però il ministro della Salute, Orazio Schillaci, si era impegnato e invece sconta il suo scarso peso di stimato “tecnico” ai tavoli in cui si decide.
Anche quest’anno abbiamo avuto le nostre palle di Natale”, ironizza sui social Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di emergenza-urgenza.

 

Pensionati: “Importi miseri, la misura è un bluff”

Gli interventi sulla previdenza lasciano scontenti tutti. Sia le persone che sono già in pensione, sia chi ancora lavora e sperava nell’arrivo di norme per un’uscita più semplice. I primi sono stati colpiti dalla norma che riduce l’indicizzazione all’inflazione degli assegni a partire da quattro volte il minimo. “L’emendamento che doveva ripristinare il 100% fino a cinque volte il minimo di rivalutazione si è rivelato una bufala – ha detto Ivan Pedretti dello Spi Cgile si passa dall’80 all’85% con un taglio ulteriore per chi ha importi superiori”. Deludenti vengono giudicate anche le nuove norme sull’età pensionabile. La nuova Quota 103 riguarderà una platea molto risicata, dice la Cgil, e ancora meno la nuova Opzione Donna, possibilità di uscita che viene spostata a 60 anni con sconti di un anno per ogni figlio. “Non ci convince l’inasprimento dei requisiti – dice Paolo Andreani, segretario generale Uiltucs – le lavoratrici hanno bisogno di maggiorazioni contributive per ogni figlio, non uno sconto contributivo per accedere a una pensione spesso misera e insufficiente”.

 

Superbonus: “Crisi profonda per imprese e lavoratori”


Nonostante la rivolta dei costruttori, migliaia di imprese in allarme, la stessa tenuta dell’economia del Paese, il governo Meloni ha tenuto il punto sul Superbonus che dal prossimo anno passerà dalla maxi detrazione del 110% al 90%. Resterà la quota massima solo per i condomini che hanno deliberato l’inizio lavori entro il 18 novembre (e avranno una proroga al 31 dicembre per la presentazione della Cilas). “Senza la misura l’edilizia rischia di affrontare una profonda crisi. Stiamo parlando di migliaia di imprese e decine di migliaia di lavoratori che rischiano di saltare. Questo non è ammissibile”, spiega il segretario della Filca Cisl, Enzo Pelle. Preoccupazioni che si aggiungono a quelle di Alessandro Genovesi, leader della Fillea Cgil: “Queste novità penalizzeranno le abitazioni dei ceti meno abbienti, quelli che sono partiti per ultimi e che ora non si potranno permettere di anticipare il costo dei lavori e attendere il rimborso nella dichiarazione dei redditi”. L’accusa del governo è rimasta sempre la stessa: aver creato un “buco da 38 miliardi”. “Questi interventi correttivi causeranno gravi perdite economiche per moltissimi proprietari e un enorme contenzioso fra condomini, imprese, amministratori, professionisti, oltre che con la stessa Agenzia delle Entrate”, sottolinea il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani.

 

Precari: “Spazio al caporalato”

Sul fronte del precariato, il governo non è intervenuto per ridurlo, ma per aumentarlo. La manovra estende l’uso dei voucher (ridimensionato nel 2017 dal governo Gentiloni) nei settori del turismo, commercio, discoteche e night club. “Questo ampliamento e rafforzamento nei settori più fragili renderà più precarie e ricattabili soprattutto le donne. Sono a rischio tutele come la maternità, i congedi parentali, la malattia e l’infortunio”, commenta Paolo Andreani, segretario generale Uiltucs. Quanto all’agricoltura, dopo le proteste dei sindacati il governo ha introdotto il “lavoro occasionale agricolo”, una tipologia che garantisce tutele migliori rispetto ai voucher, ma la Flai Cgil definisce ancora insufficiente, anche perché si può applicare per massimo 45 giorni all’anno: “Nelle pieghe della semplificazione per le aziende – dice Giovanni Mininni, segretario Flai Cgil – temiamo che si aprano nuovi spazi allo sfruttamento e al caporalato. Per citarne una: che senso ha fare un contratto di lavoro che dura tutto l’anno a un giovane studente o a un pensionato e poi chiamarlo a lavorare fino a 45 giornate al massimo? Vista la diffusa irregolarità del settore, risulta difficile pensare che non ci siano tanti che possano approfittarne”.

 

Professori: “Tagli alle scuole pubbliche, aiuti alle private”


Sulla scuola, la manovra prevede il dimensionamento delle istituzioni scolastiche che si riducono di 700 unità nei prossimi anni (al ritmo del 2% in meno per 7 anni). Questo significa maggiori accorpamenti degli istituti, minore autonomia, razionalizzazione dei dirigenti e in ultima battuta anche delle strutture. In parole semplici, c’è il rischio per gli studenti che i servizi siano meno efficienti. Vengono anche scavalcate le Regioni: se non si trova un accordo sulle modalità di questi cambiamenti, sarà il governo a farlo.
Di contro si assegnano 30 milioni l’anno per tre anni alle scuole paritarie come “contributo”. A protestare contro il governo sono i dirigenti, scontenti per il mancato adeguamento delle loro retribuzioni ai livelli degli altri manager pubblici: “È necessario che si onorino gli impegni presi dal governo con l’allora ministro Fedeli, con cui fu avviato il processo perequativo mai portato a termine – ha detto Attilio Fratta, presidente nazionale di Dirigentiscuola – Le condizioni retributive dei dirigenti sono a dir poco vergognose rispetto ai dirigenti amministrativi, a fronte di un carico di lavoro incomparabile”.
Anche per le università e gli istituti superiori non statali legalmente riconosciuti viene innalzata dal 20% al 30% (come previsto per le università statali) la quota massima di risorse destinata a fini premiali per la qualità della didattica e della ricerca. Insomma, niente per la scuola pubblica (anzi tagli) ma nuovi aiuti per le private.

 

Dipendenti Pa: “Binario morto per il settore”

Tra i perdenti della manovra non possono mancare i dipendenti della Pa. Per mettere una toppa alla mancata proroga dei contratti, è stato previsto un incremento dello stipendio dell’1,5% che dovrebbe far fronte alla perdita di salario dovuta all’inflazione. “È di tutta evidenza come questa mancetta sia del tutto inaccettabile a fronte di un’inflazione annua che solo per il 2022 si attesta intorno al 10%”, commenta Marco Carlomagno, segretario generale Flp. Un aumento una tantum che offre i frutti più ricchi ai dirigenti, mentre per il grosso dei dipendenti pubblici l’aumento è di circa 30 euro lordi al mese. I risparmi di spesa per il 2023, circa 3 miliardi, sono stati utilizzati altrove.
“Sono risposte inadeguate di fronte alle emergenze che stanno dilaniando le pubbliche amministrazioni”, commenta la segretaria generale della Fp Cgil, Serena Sorrentino. Che aggiunge: “Così i redditi da lavoro dipendente rimarranno costanti nei prossimi anni, che a inflazione galoppante vorrà dire perdere salario, e che la spesa per il personale decresce, quindi niente assunzioni”. Insomma, il settore pubblico rischia di finire su un binario morto, le amministrazioni pubbliche sono tante e diverse hanno bisogno di personale, risorse e strumenti organizzativi per governare innovazione e digitalizzazione.

 

Polizia penitenziaria: “Condizioni indegne”


Nelle scorse settimane, il governo Meloni è riuscito a far arrabbiare anche i sindacati della polizia penitenziaria per il taglio di 36 milioni da qui al 2025 sul bilancio del Dap, 9,57 milioni solo nel 2023, su una dotazione complessiva per le carceri che nel 2021 ha superato i 3 miliardi e vale oltre il 30% dei fondi per la Giustizia. Altri tagli per oltre 1,5 milioni riguardano la Giustizia minorile. “Speravamo che dopo i proclami e le parole della premier durante il discorso per la fiducia, le cose sarebbero cambiate. E invece no, le condizioni in cui lavora il personale continueranno a essere indegne”, diceva Gennarino Di Fazio, a capo della Uil penitenziari.
Il settore soffre notevolmente: solo pochi giorni fa l’ennesimo detenuto suicida ha portato il totale a 82, mai accaduto da 20 anni a questa parte. “Ci hanno detto dalla Presidenza del Consiglio che i tagli sarebbero stati cancellati”, confida invece Giovanni Battista del Sappe, sindacato autonomo certo non ostile alla destra. C’è peraltro l’impegno, già previsto, ad aumentare la pianta organica: 250 agenti in più all’anno, mille in quattro anni, rafforzeranno l’organico oggi di 37 mila. “Con le assunzioni straordinarie nel 2025 dovremmo arrivare a poco più di 42 mila”, dice Durante. Anche la Fp Cgil, critica sui tagli, è parzialmente soddisfatta.

 

Dossier pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 24/12/2022




Italia senza futuro: il declino demografico è inarrestabile

Alessandro Rosina è uno dei più apprezzati demografi italiani. Insegna alla Cattolica di Milano e non si capacita di come esista una percezione alterata di quel che stia divenendo l’Italia. Già oggi un Paese della terza età e domani un mega villaggio vacanza dove soggiornare d’estate
Tra 15 anni mancherà il 30% di forza lavoro: ci serve l’immigrazione”


Forse non ci siamo capiti ed è venuta l’ora di spiegarlo bene. L’Italia si è già fatta assai più piccina, e ci aspetta un declino demografico irreversibile. Non possiamo fare altro che imitare la Germania.

Professor Rosina, la Germania cosa ha fatto?

Ha attratto da ogni altro luogo il capitale umano per sopperire al deficit di natalità fino a giungere ultimamente al saldo demografico positivo di + 500mila.

Qui da noi, professore, il nuovo governo ha tra i primi impegni quello di bloccare i migranti. Siamo troppi, stiamo già stretti tra di noi, non possiamo riceverne altri. Questa la considerazione da cui si parte.

Senza di loro non c’è futuro, senza di loro la crisi occupazionale sarà gravissima. Tra quindici anni mancherà il trenta per cento della forza lavoro. Lo sa qualcuno?

Ma possibile che la classe dirigente non abbia in mano i numeri di questa catastrofe demografica?

Intuisco che al governo c’è la generazione dei boomers, coloro che sono stati al centro della produzione nazionale e che non hanno mai conosciuto i vuoti odierni. La crisi economica del 2009 ha poi terremotato la società che, per paura, ha sbarrato porte e finestre. Però la realtà è opposta a come si immagina.

Spieghiamola questa realtà.

Primo grande guaio: per tenere il livello della crescita demografica stabile e – diciamo così – autosufficiente avremmo dovuto garantire nel tempo un rapporto di due nati per ogni donna. Invece il rapporto tra figli e genitori è fermo ormai da anni a 1,25. Poco più di uno per coppia. In questo modo il declino tracciato è risultato inarrestabile. Secondo guaio: gli over 65 negli anni settanta erano sette milioni, oggi sono già quattordici milioni. Nel 2050 saranno diciannove milioni. Questo il Paese dei vecchi.

E il Paese dei giovani?

Terzo grande guaio: gli under 35 erano circa trenta milioni a fine anni settanta, ora sono meno di venti milioni e tra ventotto anni la cifra sarà di sedici milioni.

Questo significa?

Il senso catastrofico del rimpicciolimento indica il quarto grandissimo guaio: tra poco più di un decennio senza una immissione robusta di forza lavoro dall’esterno il livello di occupazione si ridurrà fino al trenta per cento. Significa che la produzione, e dunque la ricchezza nazionale, subirebbe un arretramento formidabile. L’unica possibilità per salvarci è appunto quella di integrare braccia e menti, acquisirle dall’estero.

Altro che bloccare i barconi!

Temo che la politica non riesca a gestire l’integrazione e pensa di risolvere il problema chiudendo gli accessi. Ma così muore l’economia italiana.

Lei ha denunciato l’ipocrisia di una classe dirigente anziana che si lagna dicendo che questo non è un Paese per giovani.

Non devono essere gli anziani a piangere falsamente per i giovani che mancano, a mostrare ipocritamente le lacrimucce e decidere quale futuro far avere ai giovani (che per inciso rappresentano nella popolazione la percentuale più bassa rispetto al resto d’Europa) ma devono accettare finalmente di lasciare nelle mani delle giovani generazioni le leve del potere. Stop.

Oggi è un fuggi fuggi di ragazzi.

Noi perdiamo i bravissimi, i talentuosi e anche i meno bravi ma con una gran voglia di fare. Restano qui invece i Neet.

I Neet?

Acronimo (not in education, employement or training) che individua chi, tra gli under 35, ha smesso di studiare ma non ha iniziato a lavorare. In Italia sono circa tre milioni.

Giovani sfaccendati?

Giovani che non trovano una connessione tra scuole e lavoro. Risultano in difficoltà, restano ai margini dell’attività lavorativa.

È una vera sciagura democratica questa, non solo demografica.

È un dramma, e il fatto che non se ne valuti appieno la dimensione della crisi fa cascare le braccia.

Coloro che dovrebbero allertarsi non badano al futuro, si preoccupano dell’oggi. In fondo sono dei mediocri.

È una tragedia.

 

Intervista di Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano del 31/10/2022




“I poveri rompono il cazzo”: una riflessione sul Briatore-pensiero

Non ho mai visto un povero creare dei posti di lavoro. Chi crea ricchezza sono le aziende, gli investimenti. Ma qui invece di ringraziarti rompono anche il cazzo: il Paese è questo, c’è una rabbia sociale enorme.

Così parlò Flavio Briatore. Ed è importante che lo abbia fatto. Perché la schiettezza e la volgarità delle sue parole chiariscono bene il pensiero di una parte non piccola dei nostri concittadini.
Per molti italiani essere poveri è una colpa. Il fatto di non guadagnare, o di guadagnare poco, secondo loro dipende dalle scelte dei singoli, dalla scarsa voglia di lavorare o di mettersi in gioco. E anzi chi è povero e disoccupato, o è povero e sottopagato, quando si lamenta rompe. Il metro di paragone è sempre la propria vita: se sei nato in una famiglia modesta e ce l’hai fatta non concepisci la possibilità che altri, con le tue stesse condizioni di partenza, non abbiano ottenuto un successo analogo al tuo. Se i tuoi genitori erano invece ricchi e benestanti la vera povertà non riesci nemmeno a immaginarla.

A uso di Briatore e dei suoi fan ecco quindi qualche spunto di riflessione.

Il primo è sugli imprenditori. È certamente vero che sono le aziende a creare posti di lavoro. Ma non è vero che i poveri non ne creino. Pensate ad esempio ai rider, alle tante persone in genere straniere che in cambio di compensi spesso bassissimi consegnano il cibo a casa di italiani più abbienti di loro. Chi ha ideato il sistema di consegne a domicilio ha certamente creato lavoro. Ma anche ogni singolo rider ne crea: grazie alle sue pedalate poco retribuite incrementa i fatturati di bar e ristoranti i quali, per tenere fronte agli ordini crescenti, assumeranno altre persone. Se i rider protestano non rompono il pistolino dell’aspirante Briatore di turno, ma chiedono semplicemente che la ricchezza creata dall’impresa venga meglio distribuita. E questo vale pure per gli operai della logistica o per chi raccoglie in nero pomodori. Tutte attività che ben raramente vengono pagate più di 9 euro lorde all’ora. Per questo se i tanti seguaci del Briatore-pensiero riflettessero, capirebbero bene che lavoratori meglio pagati contribuiscono a creare più ricchezza per tutti, perché con i loro salari saranno in grado di acquistare cibi e merci più cari e migliori, che faranno più ricchi altri imprenditori e lavoratori.

I numeri, del resto, non mentono. In Italia chi è figlio di poveri in genere resta povero. Tanto che secondo l’Ocse, nel nostro Paese ai bambini nati in famiglie a reddito basso sono necessarie cinque generazioni prima che i loro eredi possano toccare il reddito medio. In Danimarca, Norvegia e Finlandia, grazie a uno stato sociale efficiente, di generazioni ne bastano invece due o tre.
Cosa accade ai poveri lo spiega Muhammad Yunus, l’economista indiano che nel 1977 ha fondato la Grameen Bank, una banca che concede agli ultimi microcrediti senza garanzie. Dice Yunus: “Si pensa che i poveri restino tali perché sono pigri o stupidi. In realtà è proprio l’opposto. Di solito i poveri lavorano tutto il giorno per sopravvivere. La maggior parte di loro ha capacità, ma non ha opportunità per dimostrarlo. Perché non hanno potuto studiare, perché nessuno li finanzia, perché tutti li sottopagano.

Per questo Briatore dovrebbe capire che anche a lui converrebbe una società di lavoratori ben pagati. Perché più grande sarà il numero dei benestanti e più grandi saranno le sue possibilità di trovare gonzi disposti a seguire non le sue strampalate teorie, ma a scialacquar denaro per acquistare le sue pizze al prezzo surreale di 25 euro.

 

Articolo di Peter Gomez su Il Fatto Quotidiano del 14/9/2022




La Cassazione allunga i termini di esigibilità dei crediti da lavoro

Prescrizione dei crediti da lavoro, la Cassazione stabilisce un importantissimo principio


Con sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la Cassazione ha stabilito un importantissimo principio di diritto relativo alla data da cui far decorrere la prescrizione per i crediti di lavoro. Quella che potrebbe erroneamente sembrare una astratta questione tecnico-giuridica ha invece una portata applicativa molto concreta per il portafoglio dei lavoratori e delle lavoratrici.

Cosa si intende con il termine prescrizione?

La prescrizione (in ambito civile) è l’istituto per cui un diritto non può più essere esercitato in conseguenza (e a causa) dell’inerzia del titolare. Per i crediti retributivi tale termine è di 5 anni, per cui se qualcuno durante tutto un quinquennio non ha mai rivendicato, che so, delle differenze retributive per aver svolto mansioni di livello superiore o del lavoro straordinario non pagato, non può più farlo.

E perché è previsto questo limite?

Il motivo dell’esistenza di questo istituto risiede non nel sadismo del legislatore, bensì nell’esigenza di certezza del diritto: si ritiene che nessuno possa essere esposto in eterno alla possibilità che qualcuno gli muova delle richieste economiche.

E da quando decorrono i 5 anni per rivendicare i crediti di lavoro?

Ed ecco che arriviamo al punto della nuova sentenza: ora i lavoratori dipendenti da aziende private con più di 15 dipendenti potranno rivendicare i crediti retributivi entro 5 anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

E quindi, dove starebbe l’innovazione della sentenza della Cassazione?

Generalmente nel diritto civile, la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui un diritto può essere fatto valere. Nel diritto del lavoro però occorre tenere conto della disparità tra datore di lavoro – che detiene i mezzi di produzione – e il lavoratore, sottoposto al potere del primo. Alla luce di questo squilibrio tra le parti, già nel ’66 la Corte Costituzionale aveva stabilito l’incostituzionalità della norma del codice civile, evidenziando che la situazione di soggezione psicologica potrebbe indurre il lavoratore a non esercitare i suoi diritti per timore di subire un licenziamento.
La stessa Corte però, anni dopo, a seguito dell’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori del 1970 con la previsione della tutela reintegratoria in presenza di licenziamenti illegittimi da parte di datori con più di 15 dipendenti , aveva ritenuto che tale “stabilità” non giustificasse più la posticipazione nella data di decorrenza della prescrizione: veniva pertanto ripristinato il vecchio regime di decorrenza.

E allora perché oggi la Corte di Cassazione ha stabilito una cosa diversa?

Nel 2012 la riforma Fornero e nel 2015 il Job Act di Renzi hanno stabilito che in tanti casi in cui i licenziamenti vengono dichiarati illegittimi si può ottenere dal giudice solo un indennizzo economico. È stato perciò evidenziato che il mutato panorama della legislazione a tutela dei lavoratori degli ultimi dieci anni non garantisce più la stabilità reale del rapporto di lavoro, proprio perché le ridotte possibilità di reintegrazione potrebbe indurre i dipendenti a non mettersi contro il proprio datore fintanto che lavorano per lui.
Il tema era così importante e controverso che la Corte di Cassazione nel gennaio 2022 aveva organizzato una giornata di studi, invitando, oltre ai magistrati, autorevoli docenti universitari affinché le diverse posizioni si confrontassero in un franco dibattito, proprio in vista dell’udienza in cui la Corte stessa avrebbe dovuto pronunciarsi.

E cosa dice questa nuova sentenza?

La Cassazione il 6 settembre ha accolto la tesi più favorevole ai lavoratori, stabilendo che per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge Fornero (luglio 2012), il termine di prescrizione decorra dalla cessazione del rapporto di lavoro. Con queste conseguenze: se fino al 5 settembre 2022, (prima della sentenza) la mensilità non pagata di ad es. di luglio 2012 per una diffusa opinione doveva essere richiesta entro il luglio 2017, ora invece potrà essere richiesta entro 5 anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

E fino a quando si può andare indietro?

Come abbiamo detto, fintantoché il rapporto di lavoro resta in vita, si possono rivendicare tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge Fornero: quindi fino al luglio 2007.

Fonte: Ilfattoquotidiano.it




Il regalo del Governo alle banche azioniste di Bankitalia

A sette anni di distanza, la contestata rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia continua a premiare le banche azioniste. L’ultima toppa alla riforma del 2013 è stata messa lunedì notte con l’approvazione di un emendamento di Forza Italia alla manovra (ma ce n’erano uguali depositati dalla Lega) che ha alzato dal 3 a 5% il tetto alle quote oltre le quali non si ha diritto ai dividendi distribuiti dalla banca centrale. La mossa premia Intesa Sanpaolo e UniCredit che, oltre a ricevere più utili, potranno vendere più facilmente le loro azioni. Ci sarà un beneficio anche per lo Stato che tasserà quei dividendi con aliquota Ires raddoppiata per un solo anno.

Per capire di cosa parliamo occorre fare un passo indietro. Dal 2005 una legge (mai attuata) prevedeva il trasferimento allo Stato della proprietà della Banca d’Italia, il cui capitale era in mano soprattutto a banche italiane (ma senza potere sull’istituto). Invece di applicarla, nel 2013 il governo Letta, per fare cassa subito, ha deciso di rivalutare per legge il capitale di Bankitalia da 156mila euro a 7,5 miliardi, permettendo allo Stato di incassare oltre un miliardo tassando la plusvalenza fatta dalle banche azioniste. La stessa legge imponeva agli azionisti di cedere le quote oltre il 3%, livello oltre il quale non si possono ricevere dividendi, ma nello stesso tempo alzava il tetto ai dividendi che Bankitalia può distribuire ai suoi soci, passati da 50-70 milioni l’anno ai 340 milioni annui degli ultimi sette anni. Insomma, le banche hanno ottenuto un enorme beneficio patrimoniale e più dividendi.

Negli ultimi sette anni è passato di mano quasi il 20% del capitale di Via Nazionale. Ad aumentare la propria quota sono state soprattutto Casse di previdenza e Fondazioni. Intesa e UniCredit però sono ancora ben oltre il 3%: la prima ha il 16,8%, la seconda l’8,42%. La difficoltà a vendere le quote in eccesso si è sommata ai mancati dividendi sopra la soglia (dal 2016 solo Intesa ha visto sfumare 330 milioni). Portando al 5% la quota, le due banche potranno incassare più utili e vendere il resto più facilmente agli altri azionisti che vogliono salire. Lo Stato incassa più tasse, ma le banche ci guadagnano sempre più. Una gran bella riforma.

 

Articolo di Carlo di Foggia sul Fatto Quotidiano del 22/12/2021




Cari ricchi, la lotta di classe ormai l’avete stravinta voi

Fine dei giochi. L’opulenza s’è fusa con l’ignoranza


Cari ricchi, il mondo sta finendo o è già finito non per colpa dell’uomo in generale, ma per colpa vostra.

Ora avete abilmente nascosto le vostre colpe al punto che i poveri votano per voi. Avete portato i poveri a pensare che il loro nemico è quello più povero di loro: il povero arriva col gommone e non col Mercedes.

Una volta in occidente, e specialmente in Italia, c’erano partiti, persone, sindacati, c’erano tanti occhi che guardavano i vostri imbrogli e li denunciavano. Ma da un certo punto in poi, più o meno dai tempi di Tony Blair, avete vinto, non avete più trovato resistenze perché avete convinto quasi tutti che le ingiustizie sociali sono un problema trascurabile, il cuore di tutto è la crescita più che il dolore. Il punto è che quando si parla di crescita si omette di dire che a crescere è solo il vostro conto in banca.

Siete stati bravi, avete condotto la vostra lotta di classe e l’avete vinta con l’appoggio di chi vi dovrebbe combattere. Se la ricchezza non è male in quanto tale, neppure si può dire che sia bene in quanto tale. Ma veniamo ai giorni nostri, veniamo alla via tecnocratica che ora va di moda nelle nostre democrazie: quello che sta accadendo in questi giorni in Polonia dovrebbe aprire gli occhi su quello che è diventata l’Europa e su quello che intendiamo adesso per democrazia.

Lo so che ragionare in questo modo non crea consenso, sembra di parlare da una gabbia del Novecento, mentre voi ormai volate liberi e incontrastati nel cielo del nuovo secolo e vi inventate la transizione ecologica, date perfino l’idea che volete occuparvi dei destini del pianeta.
Il punto è che molti di voi sono in buonafede, la ricchezza si è fusa con l’ignoranza, ora arrivate a pensare davvero di essere voi gli eroi del mondo, a voi spetta il compito di salvarlo questo mondo. Ma non andrà sempre così. A un certo punto avrete contestazioni più oneste e più convinte di quelle che avete adesso. C’è solo da sperare che quando i vostri inganni saranno pienamente svelati, ci sarà ancora tempo di stare al mondo in letizia e in amicizia.
Voi avete portato nel mondo da tempo la terza guerra mondiale, ma non più tra gli Stati, la guerra ora è tra le persone. La guerra non si fa più con le bombe, le bombe semmai le usano i poveri, ora il vostro cannone si chiama crescita, si chiama consumi, si chiama progresso. Pasolini lo aveva ben capito e lo hanno capito in tanti anche adesso, ma ora chi parla deve confrontarsi col chiasso, non c’è bisogno che sia zittito, ogni contestazione è resa inerme dal diluvio in corso, un diluvio di gesti e di parole che nasconde la grande paralisi del mondo. Sì, questo è un mondo paralitico, cambia un’epoca ogni giorno, ma a muoversi sono solo le ombre, è la danza dell’irreale, mentre la realtà è ferma, è in necrosi.

Cari ricchi, pentitevi, perché la vostra ricchezza non solo fa male al mondo, ma anche a voi stessi. Siete molto malati, abbiate il coraggio di dirlo a chi vi guarda, a chi vorrebbe diventare come voi. Oggi, curiosamente, la rivoluzione può cominciare togliendo le barricate che avete costruito, abbassando la polvere che alzate in continuazione per impedire al chiarore di farci vedere come stanno le cose. Sappiatelo, il chiarore non è morto. E prima o poi verrà un tempo limpido e sarà un bene per tutti, anche per voi.

 

Articolo di Franco Arminio sul Fatto Quotidiano del 24 novembre 2021