MPS & c. morti di freddo: i crac bancari senza padri

In fumo 35 mld, ma nessun colpevole. Sollievo per Draghi e per Bankitalia. Che, come con Etruria e le altre, non vide nulla


Il delitto perfetto? In Italia esiste, paga moltissimo (ma ad altri costa altrettanto), resta quasi sempre senza colpevoli. È il crac bancario. Lo attesta l’ultima sentenza della Corte di Appello di Milano, che l’altroieri ha ribaltato la sentenza di primo grado del novembre 2019 e ha assolto i 13 imputati per i derivati Alexandria e Santorini, il prestito ibrido Fresh e la cartolarizzazione Chianti Classico. I reati ipotizzati erano manipolazione di mercato, falso in bilancio e prospetto, ostacolo alla vigilanza. Secondo l’accusa, le operazioni sarebbero servite per occultare nei conti del Monte le perdite causate dall’acquisizione di AntonVeneta del 2008.
Ma per la corte d’appello invece “il fatto non sussiste”: per l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni tre capi d’imputazione sono prescritti, a Deutsche Bank e Nomura sono state revocate le confische per oltre 150 milioni. In attesa delle motivazioni e dell’eventuale timbro della Cassazione, molte domande restano senza risposte certe.
Una su tutte: il Monte dei Paschi di Siena è dunque “morto di freddo”?
Forse, ma solo forse, è proprio andata così.

Il collasso di Siena è costato oltre 32 miliardi, ai quali secondo la banca stessa nei prossimi mesi dovranno aggiungersene altri 2 e mezzo (almeno) per ricapitalizzarla ancora. A salvare il Monte non è bastato piazzare aumenti di capitale a ripetizione: sono andati bruciati quello da 5 miliardi del 2008, da 2 del 2011, da 2,5 del 2012, da 5 del 2014 e da 3 del 2015. Anche la “ricapitalizzazione prudenziale” del 10 agosto 2017 è ormai scialacquata, se la banca (che ormai in Borsa capitalizza appena 726 milioni) reclama a breve un’ulteriore iniezione di capitale da almeno 2,5 miliardi.
A rimetterci non sono stati solo gli azionisti privati ma anche il Tesoro (dunque i contribuenti), primo azionista con il 64,23%, che su 6,9 miliardi investiti ne sta perdendo 5,74 (quasi il 90%) e ora dovrà rimettere mano al portafoglio. In fumo anche le obbligazioni subordinate: da quelle degli investitori istituzionali al bond retail da oltre 2,16 miliardi piazzato a 37 mila piccoli risparmiatori, spesso anziani, a tagli da mille euro durante l’operazione del 2008 per acquistare AntonVeneta.
Era ben prima che esistesse la direttiva europea sul bail in e agli albori del recepimento in Italia della direttiva Mifid sulla tutela dei risparmiatori. Eppure questa devastante distruzione di valore non ha un responsabile. Gli imputati sono stati assolti più volte dall’accusa di ostacolo alla Vigilanza di Banca d’Italia. Non hanno commesso falso in bilancio o prospetto né, tantomeno, manipolazione di mercato. Con Mussari, Vigni e colleghi assolti, la condanna di primo grado dei loro successori, l’ex presidente Alessandro Profumo e l’ex ad Fabrizio Viola potrebbe essere ribaltata in appello. In attesa delle motivazioni della sentenza, la crisi dell’istituto per la legge è stata causata (e non aggravata dopo la mala gestio) dalla grande crisi finanziaria globale innescata nel 2007 dai mutui subprime Usa e dalla recessione che ne derivò. Nessun reato nelle scelte disastrose compiute.

Il falò delle vanità creditizie italiane però non si è limitato a incenerire Rocca Salimbeni. Per restare agli istituti maggiori, negli ultimi due decenni analoghi incendi hanno colpito BiPop-Carire, Italease, Carige, Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara, CariChieti, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Bari. Sinora ben poche son state le condanne per quei crac, nessuna delle quali è definitiva, mentre tutte le accuse paiono indirizzate verso la prescrizione. Parrebbe dunque essersi trattato di un incredibile filotto di rarissimi casi di autocombustione bancaria. D’altronde la crisi bancaria, sempre negata dall’Abi, fu poi dichiarata “superata”: strano esempio di problema inesistente e poi risolto.
Solo qualche mela marcia”, ebbe a dire il presidente Antonio Patuelli a chi gli chiedeva ragguagli sulle responsabilità nei dissesti degli istituti. Affermazione giustizialista, letta col senno di oggi, perché ormai sono sparite pure le mele marce.

Ma la sentenza d’appello di Milano sul crac Mps non è stata accolta con gioia solo dai 13 imputati assolti. A tirare un sospiro di sollievo c’è anche Banca d’Italia la quale, regnante il Governatore Mario Draghi, diede via libera all’acquisizione di AntonVeneta: paradossale esempio di controllore che viene graziato per non aver controllato e tuttavia potrà ora affermare di aver sempre vigilato con attenzione.
In questa galleria dell’assurdo, di sicuro sul campo restano solo le vittime. Tra queste la Procura di Milano, sconfitta in appello dopo indagini e due processi durati un decennio. C’è, soprattutto, la via crucis di famiglie e piccole imprese: alla faccia dell’articolo 47 della Costituzione (“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”), da inizio secolo i collassi bancari sono costati oltre 72 miliardi a quasi un milione di azionisti e bondisti subordinati. Nessuna mala gestio, la vigilanza non ha colpa e non è stata neppure ostacolata. Chissà però se la fiducia, unico vero carburante del credito, tornerà mai a riprendersi.

 

Articolo di Nicola Borzi su Il Fatto Quotidiano dell’8/5/2022




Stangata su MPS: condannati Mussari e altri 12

Gli ex vertici erano a giudizio per le operazioni in derivati che occultarono le perdite del disastro Antonveneta. Condannate pure Deutsche Bank, Nomura e i loro dirigenti.

La stagione dei disastri bancari aperta nel 2012 dal terremoto del monte dei Paschi di Siena vede i primi banchieri condannati. E si parte proprio da Mps, dopo una sfilza di assoluzioni. Ieri i giudici di Milano hanno condannato gli ex vertici della banca senese per le irregolarità sulle operazioni finanziare messe in piedi dal dicembre 2008 al settembre 2012 per occultare le perdite causate dallo sciagurato acquisto di Antonveneta.

Nel 2008 Mussari decise di strapagare la malconcia banca padovana scucendo 9 miliardi di euro (più 8 di debiti) contro un valore reale di circa 3, sotto l’occhio vigile di Bankitalia, consapevole che Antonveneta se la passava male e che Mussari stava scassando il più antico istituto di credito del Paese. Per coprire le perdite dell’operazione, a Siena vennero messe in piedi operazioni in derivati, i cui effetti negativi si cercarono in seguito di occultare a bilancio.

In primo grado, ieri, sono stati condannati Mussari (7 anni e 6 mesi), l’ex dg Antonio Vigni (7 anni e 3 mesi) l’ex responsabile area finanza Gianluca Baldassarri (4 anni e 8 mesi) e 5 anni e 3 mesi sono stati dati a Daniele Pirondini (ex direttore finanziario). I reati vanno dal falso in bilancio all’aggiotaggio all’ostacolo alla vigilanza. Tra gli imputati – tutti condannati – c’erano anche sei ex dirigenti di Deutsche Bank e due ex manager di Nomura: entrambe le banche sono state condannate e per loro è stata ordinata la confisca di oltre 150 milioni di euro. Condannati gli ex manager di Deutsche Bank: Michele Faissola e Michele Foresti, per entrambi la pena è di 4 anni e 8 mesi, stessa pena per Ivor Scott Dunbar per il quale la Procura aveva chiesto l’assoluzione. Di 3 anni e sei mesi la pena inflitta a Dario Schiraldi, Matteo Angelo Vaghi (anche per lui la procura aveva chiesto l’assoluzione) e Marco Veroni. Condannati anche gli ex manager di Nomura Sadeq Sayeed (4 anni e 8 mesi), in qualità di ceo di Nomura international plc London, e Raffaele Ricci (3 anni e 5 mesi), all’epoca responsabile delle vendite per l’Europa e il Medio Oriente. La banca senese è uscita dal processo con un patteggiamento nel 2016. Gli istituti coinvolti e gli imputati hanno contestato la sentenza e annunciato il ricorso. Al centro del procedimento c’erano soprattutto le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, che secondo l’accusa sarebbero servite a nascondere perdite per oltre 2 miliardi.

La storia è nota. Dopo l’acquisto di Antonveneta, Mps deve chiudere in utile ed è a quel punto che arrivano Santorini (con Deutsche Bank) e Alexandria (Nomura) per rinviare in futuro perdite su operazioni pregresse. Due derivati, mascherati però a bilancio come operazioni scomposte, contabilizzate come un acquisto di titoli di Stato finanziato da “pronti contro termine” (in gergo Repo) e non come un Credit default swap (Cds), un derivato assicurativo sul rischio Italia venduto da Mps. Solo nel bilancio 2012, dopo l’esplosione dello scandalo e l’uscita dei vertici, emergeranno perdite per 700 milioni. E solo tre anni dopo i derivati sono stati contabilizzati come tali, un ritardo avallato dalle authority di vigilanza (per il quale sono a processo a Milano i successori di Mussari, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola). Dal 2008 Mps ha varato sei aumenti di capitale, l’ultimo dei quali, nel 2017, ha visto l’ingresso dello Stato. In 11 anni sono stati bruciati 36 miliardi di valore.

La condanna di ieri apre un fronte imbarazzante per la Banca d’Italia. La vicenda deflagrò a fine 2011, quando il neo governatore Ignazio Visco allontanò i vertici di Mps, sostituiti da Profumo e Viola. A fine 2012 i due scoprirono in una cassaforte in uso a Vigni il famigerato mandate agreement, che dimostrava la natura di “derivato” di Alexandria. Per Mussari, Vigni e Baldassarri scattò la denuncia per ostacolo alla vigilanza.
Gli ispettori di Bankitalia hanno giurato di non aver mai potuto classificare Alexandria come derivato in mancanza del mandato.

Gli ex vertici di Mps sono però stati assolti in via definitiva a maggio scorso. Secondo la sentenza d’appello (confermata in Cassazione) gli ispettori avevano gli elementi per capire la natura delle due operazioni e non ci fu volontà di ostacolare la vigilanza. Insomma, secondo i giudici le operazioni per occultare le perdite, Mussari e compagnia le hanno commesse. E Bankitalia, almeno nel 2011, ne era a conoscenza.

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 10/11/2019