Fringe Benefit e mutui, Sindacati ed Abi scrivono a Meloni

Illustre Presidente, Illustri Ministri,

 

desideriamo portare alla Vostra attenzione la gravosa situazione che si sta verificando in capo alle lavoratrici/lavoratori in tema di tassazione dei prestiti erogati ai dipendenti a seguito degli innalzamenti del tasso ufficiale di riferimento (TUR) registrati negli ultimi mesi.

Molte lavoratrici/lavoratori che hanno in corso finanziamenti erogati dai datori di lavoro negli anni passati a tassi coerenti con il livello del tasso di riferimento vigente al momento della stipula (tassi estremamente ridotti) stanno oggi subendo un iniquo prelievo fiscale a seguito degli effetti che gli incrementi del TUR producono sull’applicazione dell’art. 51, comma 4, lett. b) del Tuir in tema di fringe benefit.
Ai fini della concorrenza al reddito di lavoro dipendente imponibile, la attuale disciplina contenuta nell’articolo in commento prevede che “in caso di concessione di prestiti si assume il 50% della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di sconto vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi”.

Ciò premesso, non si può fare a meno di considerare che le disposizioni del comma 4, dell’art. 51, nascono dall’esigenza di semplificare la quantificazione di alcuni dei benefit più diffusi (autoveicoli, prestiti, fabbricati), ma certamente non possono prescindere dalla preliminare valutazione che gli stessi comunque devono riguardare vantaggi assegnati “in relazione al rapporto di lavoro”.

L’attuale riferimento al confronto con il TUS (ora TUR) a fine anno è il risultato di una modifica, che dovrebbe avere natura agevolativa, introdotta in un periodo storico di tassi decrescenti, con mutui prevalentemente stipulati a tasso variabile. Era, quindi, un sistema a favore del dipendente. Il meccanismo vigente, invece, in una situazione di tassi crescenti si traduce in uno svantaggio.

In particolare, con riguardo ai finanziamenti a tasso fisso, in conseguenza del brusco e repentino rialzo dei tassi di riferimento registrato negli ultimi mesi, l’applicazione della norma in parola produce effetti del tutto impropri e distorsivi, comportando una tassazione di valori derivanti da fattori totalmente esogeni rispetto al momento della stipula del contratto – l’incremento del tasso unico di riferimento (TUR) – e che non rappresentano in alcun modo un effettivo benefit per il dipendente.

Questo perché la sua applicazione porta a qualificare come tale ai fini fiscali anche situazioni di totale assenza di un effettivo beneficio a favore dei dipendenti, considerato che le condizioni sui prestiti concessi a questi ultimi coincidono sostanzialmente, all’atto della stipula del contratto, con quelle offerte alla clientela.
La norma nell’attuale formulazione risulta priva dei requisiti di equità e ragionevolezza e incoerente con il generale principio di capacità contributiva, operando in assenza del relativo presupposto impositivo che ne costituisce la ratio (vantaggio assegnato in relazione ad un rapporto di lavoro).

In tale contesto, la disciplina vigente genera anche effetti di disparità di trattamento tra chi abbia contratto un mutuo con il proprio datore di lavoro (in capo a cui si genera un fringe benefit) e chi lo abbia fatto alle medesime condizioni, ma con una controparte diversa (in capo a cui non si genera materia imponibile).

Alla luce delle considerazioni esposte, chiediamo che da parte Vostra venga adottata quanto prima una soluzione che corregga l’iniqua situazione illustrata che si sta producendo in capo alle lavoratrici/lavoratori in termini di tassazione del reddito di lavoro dipendente ed eviti di determinare un incremento di prelievo fiscale in assenza di un corrispondente incremento della capacità contributiva, ristabilendo così l’equità fiscale.

Nel ringraziare per l’attenzione e nel restare a disposizione per ogni opportuno approfondimento, inviamo i migliori saluti.

 

I Segretari Generali

 

Lettera ABI-OSL finanziamenti fringe e benefit 27.04.23




Reddito di cittadinanza, le storie di chi lo perderà: “Ci tolgono la dignità”

Il Reddito di cittadinanza ha avuto “un ruolo chiave” nel combattere la povertà in questi anni, seppur insufficiente. Lo ha scritto l’Istat più volte. Prima della pandemia e ancor più durante e dopo la stessa. Per questo, quando il governo Meloni ha deciso prima di cancellarlo, poi di ridurlo considerevolmente, era chiaro che ciò avrebbe rappresentato un drammatico problema per milioni di persone. Tutti “occupabili” secondo il governo, una categoria senza paragoni in Europa. Ma chi sono, davvero, queste persone? Il Fatto Quotidiano chiesto ai nostri lettori che percepiscono il Rdc come stanno vivendo questi mesi d’attesa. Hanno scritto a decine. Sono storie di persone a cui la vita aveva già tolto molto, quasi tutto, e a cui il sussidio ha ridato forza e fiducia nelle istituzioni. Riportiamo piccoli estratti di alcune di esse per raccontare il Paese a cui Meloni e i suoi vogliono togliere il reddito.

 

LE FAMIGLIE


“Ho 50 anni, disoccupata e separata con due figli a carico di 14 e 19 anni. Il padre non versa l’assegno di mantenimento, devo provvedere interamente io ai figli con 875 euro al mese di Rdc compreso di assegni familiari. Con questi 875 euro dobbiamo mangiare in tre, pagare bollette, vestiario, spese mediche, scolastiche, sportive, altri extra (riparazioni in casa, spese impreviste) e mantenere una piccola auto che occorre per gli spostamenti abitando in periferia. Per fortuna non pago mutuo o affitto di casa altrimenti saremmo già sotto i ponti. Ho inviato tanti curriculum, fatto concorsi, sono iscritta al centro per l’impiego, ma l’unica proposta che ho ricevuto è un corso di formazione che a tutt’oggi ancora devo fare perché l’agenzia ha detto che si deve formare una classe congrua. Mi chiedo se queste menti diaboliche che stanno al governo hanno pensato minimamente che togliere anche 50, 100 euro su 875 euro al mese significa non
poter pagare una bolletta, oppure non poter fare una visita medica, comprare scarpe ai figli…”.
Tiziana D., 50 anni

Siamo una famiglia di percettori, laureati, due genitori e una bambina. Percepiamo 1.080 euro inclusa la differenza dell’assegno per figli minori. Il Rdc ci ha salvato quando nel maggio 2019 ho perso il mio lavoro in nero per un’azienda barese (800 euro, 10 ore al giorno) dove ho avuto un incidente che non ho denunciato. Nel 2017 avevo già avuto un incidente in campagna, sono stato allettato tre mesi. Non ho denunciato per mantenere un lavoro che poi ho perso comunque. Nel maggio del 2019 per paura di denunce sono stato licenziato e da allora nessuno mi ha prende più. In regola, poi, figurarsi. Da settembre ci tagliano tutto a metà e non sappiamo nemmeno se il bonifico per l’affitto sarà consentito.
Appena la Meloni ha vinto le elezioni il padrone di casa mi ha mandato il preavviso di liberare la casa, ci vuole rimettere dentro in nero. Come camperemo adesso?”.
Danilo, 44 anni

 

I TIMORI DI CHI RIMANE INDIETRO


“Premetto che un lavoro a me non verrà dato tanto facilmente visto il mio passato di tossicodipendenza, sono 16 anni che ne sono fuori ma purtroppo questo interessa poco, per molti rimango sempre un ex tossico. Io voglio lavorare ma con queste premesse sarà difficile. Chiedo alla signora Meloni un lavoro che mi permetta di sopravvivere almeno, un lavoro che posso fare e che il mio corpo possa reggere”.
Pietro P., 54 anni

“Vengo da un famiglia problematica, mio padre non ci ha fornito mai nessun sostegno né morale né economico finché non lo abbiamo chiamato in tribunale. […] Ho cercato un lavoro, ma avendo quasi 50 anni non ho trovato molto, solo cose in nero e sottopagate. Poi è arrivata la pandemia e solo grazie al Rdc non sono finita per strada. […] Forse per chi ci governa sarei dovuta morire anche io nel 2018 con mia madre essendo una cinquantenne senza titolo di studio, senza lavoro, senza figli e senza famiglia. Non mi aspetto molto dal futuro e non so se rientrerò nella categoria che percepirà il Mia, posso dire solo grazie a chi ha istituito il Rdc”.
Francesca N., 53 anni

“Questa vicenda mi determina un’ansia indescrivibile. Non nascondo che i 500 euro mensili mi sono di aiuto a sostenere spese per lo svolgimento della quotidianità e per il benessere di mio figlio a cui dedico quasi tutto il mio tempo. La paura di perdere questo sussidio quasi non mi fa dormire la notte aspettando che arrivino i 67 anni per poter avere la mia pensione che se anche sarà la minima mi permetterà di vivacchiare serenamente. È vero che ci sono migliaia di furbetti, mi capita spesso di vedere al supermercato persone che lavorano per certo (ovviamente in nero) che pagano con la carta del Reddito di cittadinanza. Spero che la vostra iniziativa dia buoni frutti e che queste iniziative del governo, vostro tramite, siano ponderate e ben articolate”.

Pier Giovanni, 66 anni

“Sono dovuta tornare in Sicilia per accudire mio padre durante il breve tratto della sua malattia orribile, con la speranza che un miracolo accadesse […]. Non sono più riuscita a risalire e sono rimasta qui per sbrigare tutto ciò che c’era da fare. Non ho trovato lavoro, qui la situazione per i giovani è molto disagiata… io prego che questo errore non venga fatto, ma se dovesse succedere credo che l’Italia faccia tremila passi indietro, molti si sentiranno di nuovo abbandonati a se stessi. La fame bisogna provarla per poter parlare, come il dolore di un lutto e le altre cose brutte della vita. Non credo che la Meloni abbia mai patito la fame, non siamo tutti uguali, non tutti hanno fortuna nella vita”.

Roberta R., 38 anni

 

IL LAVORO AGLI OCCUPABILI


“Io sono uno dei tanti che il Rdc ha letteralmente salvato dallo sfratto, vivendo in affitto. Ora grazie al governo Meloni questo pericolo tornerà. Ho un diploma, parlo bene, mi reputo una persona perbene. […] Ci hanno promesso corsi di formazione che non sono partiti, dicono che non vogliamo lavorare ma io sto cercando lavoro anche come lavapiatti, ma per età o per scarsa esperienza non riesco a trovare. Solo di affitto pago 350 euro al mese, con l’eventuale Mia io avrei diritto se tutto va bene a 375 euro al mese. Secondo voi come farò? Non ho altre entrate e non ho una famiglia alle spalle che mi possa aiutare economicamente o anche per un tetto sulla testa”.

Giuseppe I., 51 anni

“Sinceramente se non ci fosse stato il Reddito di cittadinanza non so proprio come avrei potuto sopravvivere perché non sono riuscita a trovare uno straccio di lavoro se non puro sfruttamento. Ora che il nuovo governo vuole sostituire il Rdc con Mia non potrò neanche permettermi un monolocale, sono disperata, i miei attacchi di panico stanno aumentando, sono preoccupatissima: il lavoro non c’è soprattutto per chi ha superato una certa età”.

Maria C., 56 anni

“Lavoravo con una azienda multiservizi con contratto a tempo indeterminato, nel 2019 ci hanno licenziato perché lavoravano in subappalto. Da quel momento l’odissea, sono dovuto tornare a casa con mia madre perché non potevo pagare l’affitto, però nel 2021 è venuta a mancare. Adesso mi trovo in provincia di Ferrara, sono iscritto a tutte le agenzie come a molti siti per il lavoro, ma per qualche azienda sono molto grande, per altre sono molto formato, per altri è meglio avere un giovane per avere qualche agevolazione, il discorso è quello […]. L’estate del 2022 volevo provare a fare la stagione, ma anche quello è stato un buco, vogliono giovani per pagarli meno. Avevo una speranza che questo governo davvero ci avrebbe dato un lavoro dopo quei famosi corsi, però è stata solo una presa in giro. Mi scuso per i troppi errori ma sto scrivendo questa email con le mani che mi tremano”.

Gianluca C.

 

Lettere pubblicate sul Fatto Quotidiano del 30/3/2023 a cura di Leonardo Bison




Cgil, Landini rieletto segretario: distanti dalle posizioni del governo, pronti anche allo sciopero

Maurizio Landini è stato rieletto segretario generale della Cgil. Al termine del XIX congresso nazionale, l’assemblea lo ha confermato alla guida del sindacato per il secondo mandato di quattro anni, con il 94,2% di voti favorevoli. La proclamazione è stata accompagnata da un lungo applauso della platea.
“Vi ringrazio”, le sue prime parole.

“Nessuno credo si impegni nel sindacato perché crede che sia un mestiere, siamo una bella organizzazione perché siamo fatti di uomini e donne vere che credono in quello che fanno”: così il segretario generale della Cgil  Maurizio Landini parla alla platea,  commosso, ed emozionato, nella giornata conclusiva del XIX congresso nazionale. Landini ha chiamato sul palco tutti “i compagni e le compagne” della struttura del sindacato e li ha ringraziati.

Il leader della Cgil ha rivolto un “ulteriore ringraziamento al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che con il suo messaggio ha riconfermato il valore della nostra Costituzione e del lavoro”.

Nel suo intervento Landini è partito dal discorso di ieri di Giorgia Meloni e rivolgendosi alla premier ha detto: “La ricchezza la produce chi lavora, è necessario rimettere al centro il lavoro e la persona come elemento per cambiare il modello sociale ed economico che in questi anni si è affermato”.

In un altro passaggio del discorso ha sottolineato: “Prima vota l’autonomia differenziata e poi viene a raccontarci che lei è per l’unità nazionale, noi siamo per l’unità e lo siamo anche il 18, 19, 20 e contrasteremo con tutte le strade possibili una messa in discussione della nostra Costituzione”.

Con il governo e la premier Gorgia Meloni c’è “una diversità molto profonda, molto consistente. Per tutto il sindacato italiano non c’è possibilità di discussione, bisogna avviare una mobilitazione che non esclude alcuno strumento, compreso se necessario lo sciopero. Lo vogliamo fare insieme a Cisl e Uil, ne discuteremo con loro, abbiamo già un incontro fissato la prossima settimana”, ha poi dichiarato Landini. “C’è un punto fondamentale – ha spiegato il sindacalista – il 94% dell’Irpef la pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati: noi non siamo più disponibili ad accettare l’idea di un sistema fiscale che continua a gravare unicamente sui dipendenti e i pensionati, per noi la festa è finita, perché per noi non è mai cominciata”.

Quanto alla legge delega, “noi non siamo d’accordo – ha detto ancora Landini – abbiamo lanciato una piattaforma, per ora non hanno discusso con noi il tavolo della trattativa, a oggi non c’è e va recuperato, vanno cambiati i principi fondamentali sui quali questa riforma si realizza, c’è bisogno di allargare la base imponibile, non solo deve essere progressiva, a parità di reddito bisogna pagare tutti le stesse tasse, cosa che oggi non sta succedendo”. E ha aggiunto: “Con una seria riforma fiscale si determinano le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza”.

In mattinata, in collegamento, sono intervenuti al congresso i genitori di Giulio Regeni. “Ringraziamo tutti gli iscritti alla Cgil che ci hanno sostenuto nella battaglia per ottenere verità e giustizia. Vi chiediamo di continuare a starci vicino nel cammino verso la verità e la giustizia” ha detto Claudio Regeni, collegato insieme a sua moglie Paola Deffendi e all’avvocata civilista Alessandra Ballerini. “Sono sette anni che inseguiamo la verità e che pretendiamo una verità processuale per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio. E’ un morto sul lavoro”, afferma la legale della famiglia, Alessandra Ballerini, aggiungendo che “con i dittatori non possiamo collaborare”.

 

Fonte: Rai News




La guerra Russia-Ucraina spiegata semplice. Il 24 e il 25 anche in Abruzzo in piazza per dire basta!

ll 24 febbraio ricorre il primo anno dall’attacco russo all’Ucraina. Dire che la guerra sia iniziata allora sarebbe un falso storico: in effetti la guerra del Donbass , che ha opposto il Governo Ucraino alle regioni separatiste russofone, ha avuto inizio nel 2014, fornendo a Putin il pretesto per il successivo attacco all’Ucraina.

Fino a un anno fa non ci siamo interessati più di tanto al conflitto, considerandolo come una delle tante guerre regionali di cui parlano ogni tanto i TG. Quando la Russia ha attaccato, tutta la Nato si è mobilitata a difesa dell’Ucraina. In realtà la guerra è stata sfruttata dagli Stati Uniti come un modo per indebolire la Russia (e la stessa Unione Europea), facendo combattere – e soprattutto morire – altri, sacrificandoli per raggiungere i propri scopi. Il fatto che la Russia sia alleata con la Cina, e che i Russi dispongano di armi atomiche che probabilmente userebbero se messi alle strette, dà a questo conflitto una luce a dir poco inquietante.

L’atteggiamento dei nostri governi, Draghi prima e Meloni poi, è stato a dir poco ipocrita e reticente.

Da subito sulla qualità e quantità delle armi inviate in Ucraina è stato posto il segreto di Stato. All’inizio si parlo di inviare soltanto armi non letali (già da allora era evidente che non ce la stessero contando giusta). Dopo solo una settimana Draghi ci ripensò, decidendo di inviare mitragliatrici e missili, comunque a corto raggio e da usare solo a scopi difensivi. Progressivamente si è passati all’invio di mezzi pesanti, di missili a lungo raggio (perché non basta difendersi, bisogna contrattaccare) ed ora, con il governo Meloni, abbiamo condiviso la scelta di inviare carri armati di ultima generazione, pur non potendo partecipare direttamente perché, per fortuna, non ne abbiamo.

Ogni volta che abbiamo contribuito ad incrementare la qualità e la quantità di armi inviate, la Russia si è adeguata potenziando gli armamenti e le truppe utilizzati sul campo di battaglia. Ogni nuovo invio di armi ha comportato un aumento di morti nella popolazione civile Ucraina, senza incidere sulle sorti del conflitto, che resta in una situazione di sostanziale stallo. A guadagnarci sono stati solo i fabbricanti e i venditori di armi.

Cosa succederà adesso? Zelensky continua a chiedere armi sempre più potenti, non accontentandosi dei carri armati ma chiedendo l’invio di aerei da guerra. Giorgia Meloni ha già dato segnali di disponibilità in tal senso, segnando un ulteriore salto di qualità nel conflitto e spingendo i Russi ad aumentare a loro volta il volume di fuoco, causando la morte di altri innocenti.

E dopo? Il nostro governo, i governi europei, la NATO, si sono posti un limite da non oltrepassare? Cosa succederà se Zelensky chiederà l’invio di truppe?

Una simile richiesta, se accolta, sarebbe a tutti gli effetti l’inizio della terza guerra mondiale. Ed è uno scenario da evitare a tutti i costi.

Ma se – come tutti speriamo – si ritenga questo limite come il punto da non superare, e quindi una eventuale richiesta di truppe sarebbe destinata ad essere ignorata, allora che senso ha avuto tutto questo? Che senso ha avuto la morte di migliaia di Ucraini in più se arrivati ad un certo punto si dirà loro: “Da ora in poi arrangiatevi, noi non andiamo oltre”?
Non sarebbe stato più sensato percorrere da subito la via del negoziato, che resta l’unica alternativa ad un conflitto che altrimenti si allargherà sempre di più?

Questa follia va fermata. E possiamo farlo facendo crescere l’ostilità degli Italiani verso la guerra, facendo sentire con forza la nostra voce. E ognuno di noi ha il dovere di fare la sua parte.

Per questo motivo è importante esserci il 24 e il 25 febbraio, partecipando alle manifestazioni che si svolgeranno in tutta Italia. Insieme, per far sentire con forza la nostra voce.

Per l’Abruzzo gli appuntamenti sono:

  • Pescara, 24 febbraio ore 18.00 Piazza Sacro Cuore (e non alle 17.30 come inizialmente previsto)
  • L’Aquila, 24 febbraio ore 18.30 Piazza Regina Margherita
  • Sulmona, 25 febbraio ore 11.00 Fontana Del Vecchio – Corso Ovidio

 

 




ANPI: firma la proposta di legge contro autonomia differenziata e presidenzialismo

Rendiamo più forte la nostra democrazia: appello per sottoscrivere la proposta di legge popolare per la modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione presentata da Massimo Villone ed altri.


Nonostante la situazione economica, il crescere delle disuguaglianze, i tagli alla spesa sociale, i disastri ambientali, il cambiamento climatico e la guerra in Ucraina imporrebbero altre priorità, l’anno è iniziato con il dibattito politico sulle riforme istituzionali.

La Presidente del Consiglio Meloni ha dichiarato di voler avviare subito la discussione sul passaggio a un sistema di governo “presidenziale” per garantire maggiore stabilità al Paese.

Contemporaneamente il ministro Calderoli ha depositato al Consiglio dei Ministri la bozza di legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, annunciandone la discussione entro gennaio.

Il tutto servirebbe a passare da una “democrazia interloquente” ad una “democrazia decidente”.

Sta proprio qui il problema: perché questa scelta produrrebbe un vero stravolgimento della Costituzione antifascista basata sulla democrazia partecipata dai cittadini attraverso le associazioni, i sindacati, i partiti politici e la centralità del Parlamento.

Se poi venisse approvata la proposta Calderoli che affida a un patto tra Regioni e Governo, senza intervento del Parlamento, il passaggio alle Regioni del potere legislativo su materie come la sanità, l’istruzione, le infrastrutture o la tutela dell’ambiente, sarebbero messi in discussione i principi unitari, universalistici e di giustizia sociale della nostra vita democratica.

Sarebbero colpiti l’art.2 (doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), l’art.3 (uguaglianza dei cittadini) e l’art.5 (Repubblica una e indivisibile) della nostra Costituzione.

Siamo convinti che la nostra Costituzione vada attuata fino in fondo e non stravolta: soprattutto nel momento in cui la situazione economica e geopolitica richiedono maggiore unità e solidarietà piuttosto che frammentazione territoriale, nuove disuguaglianze e ulteriori divisioni sociali.

Per questo l’ANPI ha deciso di condurre in tutto il paese una campagna di informazione e discussione sulle proposte di riforma istituzionale. E nei prossimi giorni anche all’Aquila proporrà occasioni di dibattito pubblico su questi temi.

Intanto è iniziata la raccolta di firme su una proposta di legge popolare presentata da Massimo Villone e altri, che modifica gli artt. della Costituzione 116 (sui poteri delle Regioni a Statuto Speciale) e 117 (sulla potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali) in modo da evitare i rischi maggiori derivanti da una loro applicazione non correlata agli articoli 2, 3 e 5.

In particolare la proposta di legge richiede che le modifiche del rapporto Stato-Regioni avvengano solo se giustificate dalla specificità del territorio, che il Parlamento sia coinvolto nella proposta di modifica e non sia chiamato solo a ratificare le intese Stato-Regioni (come previsto nella bozza di legge Calderoli), che si escludano Sanità, Istruzione, Infrastrutture e Ambiente dalle materie delegabili alla potestà regionale, che si introduca una clausola di supremazia dello Stato a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.

L’ANPI ritiene questa proposta di legge un utile strumento per allargare il dibattito sulle riforme istituzionali e sostenere un modello di regionalismo solidale e non competitivo, secondo lo spirito della Costituzione.

Per questo motivo invita le cittadine ed i cittadini a firmale la legge presso le sedi comunali, oppure con lo Spid dal sito: www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it

L’Aquila, gennaio 2023

 

ANPI L’AQUILA




Manifestazioni vietate dal nuovo decreto rave?

Il nuovo decreto rave prevede una multa fino a 10.000 euro e la detenzione fino a 6 anni per chi prende parte a un raduno pericoloso; ma vieta anche le manifestazioni?


Il cosiddetto decreto Rave varato dal governo Meloni ha messo immediatamente in allerta sia l’opposizione politica che gli avvocati penalisti. La paura è che il nuovo articolo 434-bis c.p. non si limiti a proibire i raduni pericolosi, (il rave infatti è diventato un vero e proprio reato), ma che preveda anche manifestazioni vietate.

L’articolo 5 del D.L. 162/2022 prevede per l’appunto l’introduzione del reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine, la salute e l’incolumità pubblica, con sanzioni sia per gli organizzatori che per i partecipanti stessi. Il tema della sicurezza pubblica non viene tuttavia chiarito in maniera esaustiva, nonostante le pene previste non siano da sottovalutare.

Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha spiegato che l’obbiettivo di questa norma è la prevenzione di situazioni pericolose e spesso difficili da gestire per le Forze dell’Ordine, in particolare alla luce del recente rave di Modena che ha creato non pochi problemi durante le trattative per lo sgombero. Nonostante l’obbiettivo comune resti quello di combattere l’illegalità, in molti si sono schierati contro questa norma, chiedendo di fare chiarezza.

Decreto Rave: quali saranno le manifestazioni vietate

La tematica dei rave party era già stata oggetto di preoccupazione per il governo, motivo per cui Luciana Lamorgese, precedente ministra dell’Interno, aveva sollecitato la stesura di una norma che contrastasse questo tipo di eventi, che comportano un notevole dispendio di risorse e potrebbero favorire la criminalità.

L’intero procedimento ha subito una rapida accelerazione con il governo Meloni, ed era del tutto prevedibile dato che il centrodestra ha sempre avuto molto a cuore questo problema. Così, i rave sono ufficialmente reato ma non in maniera specifica.

La nuova normativa, infatti, non tratta dei rave in maniera esplicita, limitandosi a condannare tutti i raduni che mettono in pericolo la collettività. Per il momento, quindi, non è possibile escludere che siano vietate anche tutte le altre forme di manifestazione e associazione.

Il motivo è che il nuovo articolo introdotto nel codice Penale non definisce i criteri per stabilire in maniera definitiva l’eventuale pericolosità dell’evento, lasciando il tutto al sostanziale libero arbitrio del governo.

Proprio su questo punto insistono il Pd e +Europa, preoccupati per gli effetti che questa definizione così vaga potrebbe avere sulla libertà pubblica. Almeno in linea teorica, infatti, potrebbero essere puniti anche i partecipanti di scioperi sindacali, manifestazioni pacifiche e perfino occupazioni scolastiche.

Il vicesegretario Matteo Salvini si è detto in completo disaccordo su questa discussione, affermando che l’obbiettivo del governo è semplicemente la difesa della legalità mentre, anche secondo il Viminale, non viene lesa in nessun modo la libertà di manifestazione prevista dalla Costituzione.

Rave e raduni pericolosi: ammesse le intercettazioni

Le sanzioni previste per punire gli eventi abusivi con più di 50 partecipanti sono: una multa, che può andare da 1.000 euro a 10.000 euro, e la reclusione da 3 a 6 anni per quanto riguarda gli organizzatori della manifestazione incriminata.

È stata proprio la pena detentiva a far storcere il naso ai penalisti, con particolare riferimento alla questione delle intercettazioni telefoniche e telematiche, anche se per i soli partecipanti è prevista una riduzione della pena che li escluderebbe da questo problema.

La premier Giorgia Meloni aveva infatti dichiarato di non aver dato il via libera alle intercettazioni per questo reato, ma il fatto stesso che preveda una pena oltre i 5 anni di reclusione ne permette l’utilizzo. Lo ha spiegato Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali, senza nascondere la sua perplessità a riguardo.

La questione è stata criticata aspramente anche dal ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, secondo cui le intercettazioni in questa particolare fattispecie rappresenterebbero uno strumento d’indagine eccessivamente invasivo. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd, che teme l’oppressione delle libertà personali.

L’aspetto problematico non riguarda quindi il fine del decreto, quanto più la sua formulazione che risulta troppo ampia e generale, soprattutto considerando la gravità delle sanzioni indicate.
Fonte: www.money.it



Ma alla fine, che cos’è questo MES?

In questi giorni è sicuramente l’argomento più caldo sulla scena politica. Lo scorso 7 dicembre c’è stata l’iniziativa della Lega che ha raccolto le firme contro il MES: un mostro di cui tutti parlano, ma del quale nessuno sa dire davvero cosa sia.

Secondo Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) è un meccanismo che serve a salvare le banche tedesche a spese dei cittadini italiani.
Matteo Salvini lo definisce un fondo privato che mette nelle mani di sette burocrati europei, due tedeschi, due francesi, un olandese, un belga e un irlandese il destino dei paesi dell’Eurozona.
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo definiscono un pericolo per i risparmi dei nostri connazionali.

In tanti cavalcano la paura, presentando il MES come un meccanismo da burocrati che peggiorerà le nostre vite e limiterà la nostra libertà.
Ma cosa c’è di vero in tutto questo?

Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o ESM se riferito al nome in inglese) è un’organizzazione intergovernativa dei paesi dell’Area Euro, nata per aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica.
E’ un’istituzione basata sulla solidarietà: tutti si tassano in proporzione alle loro possibilità per evitare che gli stati più deboli diventino insolventi. Ma è anche un sistema indispensabile per difendere l’euro, visto che il fallimento di un Paese può avere ripercussioni da tutti gli altri.

Il MES, nella sua formulazione attuale, esiste dal 2012. Cioè da sette anni.
E questa forse è una notizia che risulterà sorprendente per molti. E tanto per rinfrescare la memoria, la sua istituzione fu negoziata durante il governo Berlusconi-Lega ed entrò in vigore durante il Governo Monti sostenuto, tra gli altri, dalla Meloni.

L’attuale dotazione del MES è di circa 80 miliardi. A costituirla sono stati tutti i Paesi dell’Eurozona in proporzione al loro peso economico. Questo fa sì che la Germania sia il primo contributore, sfiorando il 27% del capitale, oltre ad essere lo Stato che ha le minori probabilità di usufruire degli aiuti.
Il MES può emettere titoli garantiti dagli Stati dell’Eurozona, arrivando a raccogliere liquidità fino a 700 miliardi di euro, da utilizzare per effettuare prestiti alle nazioni che ne facciano richiesta.

Per le regole attuali, cioè quelle in vigore dal 2012 delle quali finora nessuno sembrava essersi accorto, gli Stati che chiedono l’aiuto del MES devono sottostare ai controlli di un comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosidetta Troika) e mettere in campo una serie di riforme imposte dal comitato.
Il piano di riforme prevede di solito misure molto impopolari come tagli alla spesa pubblica, – in particolare alle pensioni – privatizzazioni, liberalizzazioni e maggiore flessibilità delle leggi sul lavoro, puntando al risanamento dei conti.
La logica è: “Se mi chiedo dei soldi io te li presto, ma siccome voglio essere sicuro di riaverli indietro devi fare tutto quello che dico io”.
Può essere un criterio più o meno discutibile, ma sono regole che esistono da 7 anni e sono state già applicate in occasione degli aiuti a Cipro, Portogallo, Irlanda e Grecia (la nazione che ne è uscita più pesantemente segnata).

Dalla sua creazione il MES ha ricevuto grossi apprezzamenti, essendosi rivelato uno strumento adatto ad affrontare le crisi, vista la sua capacità di prestare denaro a Stati che altrimenti non avrebbero potuto ottenere prestiti.
Ma le critiche non sono mancate.
C’è chi accusa il fondo di pretendere sacrifici troppi pesanti in cambio degli aiuti, deprimendo così le economie degli Stati che dovrebbe sostenere. Ma c’è anche l’accusa opposta, cioè di sostenere chi non lo merita, concedendo denaro con troppa facilità ed incoraggiando così Stati meno seri a spendere oltre i propri mezzi. Come si può facilmente intuire, la prima critica arriva dalle Nazioni più a rischio, la seconda arriva da quelle più solide, che sono anche quelle che contribuiscono in modo più consistente.

 

Cosa prevede la riforma

A questo punto dovrebbe essere chiara l’esistenza di due diverse correnti che chiedono riforme del MES: da una parte quella dei Paesi più indebitati che vogliono alleggerire il peso degli adempimenti richiesti a chi si avvale degli aiuti, dall’altra quella dei Paesi ricchi del Nord Europa, che chiedono un inasprimento.
La riforma, discussa a partire dal 2018, cerca di conciliare entrambe le richieste.

La richiesta dei Paesi meno solidi, finalizzata a consentire la concessione di prestiti agli stati che ne avessero bisogno senza obbligarli a riforme pesanti ed impopolari è stata accolta.
Peccato che sia stata accolta anche l’altra richiesta, quella degli stati più ricchi del Nord, che di fatto la rende inutile. Per ottenere credito sarà infatti sufficiente una lettera d’intenti, ma solo a patto di rispettare i parametri di Maastricht. Considerando che 10 stati su 19 membri dell’eurozona non rispettano questi parametri, e che tra questi figura anche l’Italia, per quanto ci riguarda la situazione resterà invariata rispetto alle attuali normative.

Un risultato concreto ottenuto dai paesi più indebitati (Italia in primis) è il meccanismo del backstop.
Di cosa si tratta? Di un fondo comune costituito tra le banche europee, capace di agire autonomamente quando una banca di un Paese dell’eurozona è in crisi, evitando di utilizzare risorse pubbliche per il salvataggio.
Salvini e la Meloni sostengono che il MES porterà via soldi agli Italiani per salvare le banche tedesche: la verità è che i Tedeschi sono stati i più fieri oppositori di questa riforma, sostenendo che fossero le banche di Paesi in difficoltà come l’Italia ad aver bisogno di questi soldi, e che la Germania si sarebbe trovata a finanziare salvataggi in questi Paesi.
Il MES contribuirà a finanziare il Fondo di risoluzione, potendo stanziare fino a 55 miliardi; le banche diventeranno così più sicure.

Un risultato ottenuto dai “rigoristi” del Nord Europa rappresenta invece un effettivo peggioramento dell’accordo, se considerato dal nostro punto di vista, tanto da spingere sia il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, sia il presidente dell’ABI Antonio Patuanelli ad esprimere preoccupazione.
La nuova norma è finalizzata a rendere più facile la “ristrutturazione” del debito pubblico di un Paese che chiede sostegno al MES. Per effetto di questa modifica, i privati che hanno sottoscritto titoli del debito pubblico (quindi di fatto hanno prestato dei soldi allo Stato), potrebbero, nel momento in cui scatterà il pacchetto di aiuti alla Nazione in difficoltà, vedersi rimborsati i titoli sottoscritti solo parzialmente e non per l’intero valore nominale.

Stiamo parlando delle Clausole di Attivazione Collettiva (CACS), della quali Salvini ha dimostrato di non sapere assolutamente nulla, pur utilizzandole come spauracchio per terrorizzare i suo elettori.

Le istituzioni Europee hanno rassicurato i Paesi membri spiegando che la ristrutturazione del debito non sarà automatica e che la riforma nasce per proteggere i governi in caso di default. Il meccanismo prevede la possibilità di ridurre il capitale da rimborsare o gli interessi, oppure posticipare i pagamenti dovuti rispetto alle scadenze.
Le vecchie clausole presupponevano un accordo tra uno Stato alle prese con la ristrutturazione del suo debito e la maggioranza degli investitori. Poiché gli Stati emettono debito in tante emissioni, era finora necessaria una doppia maggioranza: a livello di debito complessivo e in ogni singola emissione.
La riforma del Mes richiede la sola maggioranza a livello complessivo, cioè la single limb. Tutto questo crea una condizione di rischio per i privati.
Come spiegato in precedenza, per accedere agli aiuti del MES bisogna essere in regola con determinati parametri. Gli Stati non in regola potranno beneficiare degli aiuti a patto di impegnarsi ad attuare riforme impopolari per risanare il bilancio. La possibilità di ristrutturare il debito, scaricando sui risparmiatori privati parte del peso, rende più facile l’accesso agli aiuti ma meno sicuro l’investimento in titoli di stato.
Anche senza arrivare ad un provvedimento del genere, la sola esistenza di questa norma potrebbe scoraggiare gli investitori a sottoscrivere titoli dei Paesi più indebitati, costringendoli ad aumentare i tassi per continuare a finanziarsi.

Il MES è un circolo privato?

Questo trattato mette 124 miliardi di Euro degli Italiani nella mani di sette burocrati europei: due tedeschi, due francesi, un olandese un belga e un irlandese che possono discrezionalmente decidere chi aiutare e non aiutare con quei soldi.          MATTEO SALVINI

Cosa c’è di vero in questa affermazione? Niente.

Intanto le somme versate dall’Italia al MES si limitano a poco più di 14 miliardi, pari al 17% del fondo. I 124 miliardi rappresentano il capitale sottoscritto ma non versato. Se davvero si rendesse necessario per l’Italia versare i residui 110 miliardi, questo vorrebbe dire che la Germania ne verserà 160, la Francia 120 e così via.

Chi comanda nel MES?
Il MES è guidato da un “Consiglio dei Governatori” composto dai 19 Ministri delle finanze dell’area dell’euro. Il Consiglio assume all’unanimità tutte le principali decisioni (incluse quelle relative alla concessione di assistenza finanziaria e all’approvazione dei protocolli d’intesa con i paesi che la ricevono).
Le decisioni meno importanti richiedono comunque una maggioranza pari all’85% del numero di quote sottoscritte.
Considerando che l’Italia detiene il 17% delle quote, ha di fatto potere di veto: questo vuol dire che il MES non potrà mai prendere una decisione che non sia condivisa anche dal Governo Italiano.

Già, ma il Governo conosce le proprie decisioni? A questo punto si dovrebbe rispondere che non è sempre così, o almeno non lo è per tutti i Governi, considerando che le attuali modifiche sono state concordate nel 2018 dal Governo Conte 1 e dai vice premier Salvini e Di Maio.

Cioè gli stessi che adesso alzano barricate e raccolgono firme chiedendo di non ratificare le modifiche concordate dal loro Governo.

 

 

 

 

 




Cosa sta succedendo in Italia?

Un’analisi lucida, documentata e precisa. E proprio per questo spaventosa.

 

10 cose che abbiamo imparato dall’assassinio del carabiniere a Roma.

1) Quando si tratta di divulgare una notizia dell’ultima ora, i media tradizionali non mettono grande attenzione nella redazione dei titoli e dei contenuti. Informazioni approssimative e non verificate sono gridate nei titoli al pari di notizie certe e documentate. La natura delle fonti è spiegata malamente, quando non del tutto ignota e ignorata. Versioni sbagliate sono corrette a stento, non con rettifiche ufficiali ma semplicemente modificando ex post parti del testo.

 

 

 

Dai media più noti, l’inesattezza si riversa a cascata su tutti gli altri mezzi di informazione con una rapidità incontrastabile. Poiché è nelle prime ore che il pubblico dedica alla notizia la massima attenzione, nessuna rettifica successiva potrà penetrare altrettanto in profondità nell’opinione pubblica, che rischia di assorbire la falsa informazione in modo permanente. Tale disinformazione “a valanga” non è inevitabile ma è frutto di scelte precise da parte degli operatori dell’informazione.

 

2) I leader della maggioranza e i loro spin doctor sfruttano senza esitazione qualsiasi fatto di cronaca potenzialmente utile a rafforzare la narrazione securitaria, autoritaria e razzista, incuranti delle vittime, della verità e delle conseguenze. A tale scopo, non si fanno scrupolo di utilizzare informazioni provvisorie e non verificate, quando non palesemente false. Nel farlo, possono facilmente invocare di aver tratto tali informazioni dai media tradizionali, attribuendo a questi ultimi la responsabilità della disinformazione.

 

Tuttavia, gli stessi leader gialloverdi contribuiscono a orientare i media verso la disinformazione (basti pensare alla Rai sovranista).

 

3) Senza scomodare i leader della maggioranza, esiste un enorme sottobosco di influencer grandi e piccoli (giornalisti, politici in cerca di poltrone, falsi esperti che sgomitano nei blog e nei salotti televisivi, accademici falliti) che si adopera per alimentare la narrazione autoritaria della propaganda gialloverde. Una ciclopica macchina del fango che vive di vita propria e non ha nemmeno bisogno di essere attivata dai suoi beneficiari.

 

 

La rete trabocca di interventi che incitano all’odio, alla discriminazione e alla sospensione di pezzi dello stato di diritto da parte di personaggi più o meno “famosi” che ammiccano ai potenti. Non solo la propaganda trova nella cronaca nera una riserva infinita di argomenti, ma è anche sostenuta da un esercito di “volontari” a costo zero.

 

4) A tale “offerta” di propaganda e disinformazione, corrisponde una “domanda” altrettanto attiva. Il pubblico si beve ormai qualsiasi cosa, non solo perché non ha i mezzi per distinguere il falso dal vero. Il popolo è assetato di sangue e ha bisogno di conferme a sostegno dei suoi orientamenti cognitivi. Gli immigrati sono criminali, gli studiosi sono al soldo delle multinazionali, chi professa buoni sentimenti è un ipocrita che persegue loschi obiettivi, chi salva vite in mare è pagato dalla lobby ebraica e i mali italiani sono colpa di oscure potenze straniere. La propaganda fa facile presa sugli italiani perché gli italiani hanno un disperato bisogno di essa. Per molti, questa narrazione distopica alimenta una speranza malata: quella che, liberandoci dal giogo dei poteri forti che ci opprimono, conosceremo un boom economico senza precedenti, in cui le risorse cadranno dal cielo senza fare distinzioni tra chi merita e chi no.

 

5) Per tale motivo esiste una vasta quota della popolazione che, anche dopo che la falsa notizia è stata smentita dall’evidenza, decide di credervi comunque. L’impatto della falsa notizia è irreversibile, per loro. Fate un giro sui social per vedere quante persone credono che l’arresto degli studenti americani sia un’operazione dei servizi segreti per nascondere la vera nazionalità dell’assassino, con lo scopo di evitare tumulti di piazza (o sostenere il piano di sostituzione etnica ordito dalla lobby ebraica, secondo le versioni).

 

Non è che l’inizio. La sete di sangue e la necessità politica di alimentare tale sete (la domanda e l’offerta di propaganda autoritaria, in altre parole) sono destinate a salire di livello. La rete oggi pullula di persone che invocano la pena di morte, sapientemente aizzate da un leader che chiede “lavori forzati” e ricorda che “negli Stati Uniti chi uccide rischia la pena di morte. Non dico di arrivare a tanto ma…”.

 

6) La narrazione autoritaria e razzista del governo non ha una connotazione esclusivamente “distruttiva” come sembra. Non si limita a indicare nemici immaginari su cui indirizzare l’odio del popolo per catalizzare consenso. Implicitamente, suggerisce che una volta sconfitti tali nemici (l’Europa, i poteri forti, gli immigrati, la lobby ebraica, gli studiosi, eccetera), il popolo avrà il suo riscatto dalla crisi che tuttora l’attanaglia e godrà di un benessere senza precedenti.

Il governo propone quindi una visione del futuro che, seppur confusa e priva di fondamento, instilla anche una qualche dose di speranza nei suoi tifosi spaventati. Credere, obbedire, combattere per ottenere, in un futuro non meglio definito, la ricompensa. Le analogie coi regimi autoritari del passato sono ogni giorno più evidenti. L’unico modo per scardinare tale narrazione nell’immaginario del pubblico è contrapporgli una visione alternativa del futuro che sia altrettanto allettante, oltre che compatibile con la democrazia. Tuttavia, l’opposizione è annichilita e lascia che sia la propaganda a dettare l’agenda.

 

7) Non possiamo più ignorare il fatto che una frazione delle forze dell’ordine sembra disponibile ad alimentare la propaganda autoritaria. Le questure fanno filtrare materiali riservati che non dovrebbero giungere al pubblico. La foto segnaletica di Carola Rackete. Lo studente americano bendato e ammanettato: spunti preziosi per la propaganda, che infatti Salvini ha utilizzato senza scrupoli nei suoi post, a supporto della narrazione securitaria e autoritaria.

 

Ma non solo: alcune frange delle forze dell’ordine contribuiscono a diffondere in rete anche le false notizie. Come ha documentato Simone Fontana , la falsa notizia della cattura di quattro nordafricani è stata pubblicata da un collega della vittima e diffusa da un agente della Guardia di Finanza, che ha esposto le foto dei presunti colpevoli sulla sua pagina Facebook incitando al linciaggio. La bufala è stata cancellata troppo tardi, quando i volti dei 4 innocenti erano diventati ormai virali sollevando l’ennesima ondata di indignazione contro gli immigrati.

 

8) Né possiamo ignorare che una parte delle forze dell’ordine mostri una insofferenza crescente per le garanzie democratiche e manifesti (non solo sui social, ma anche in alcune dichiarazioni ufficiali) una adesione talvolta sfacciata alla causa autoritaria. La rimozione sistematica degli striscioni dissenzienti, il sequestro dei telefoni degli autori dei “selfie di protesta”, le minacce ai manifestanti, il pestaggio del cronista di Repubblica, il capo della Polizia che legge “come un segno di attenzione nei nostri confronti” la mania del ministro di travestirsi da poliziotto, il leader del sindacato autonomo che rivela l’esistenza di “un connubio indissolubile tra Lega e Polizia”.

Questo circuito fatto di media approssimativi e talvolta deliberatamente complici, leader autoritari e senza scrupoli, una parte (non ci è dato di sapere quanto numerosa) di forze dell’ordine compiacenti, e un popolo largamente obnubilato dalla propaganda e sempre più assetato di sangue è quanto di più pericoloso per la democrazia.

 

9) A Roma esiste un problema di ordine pubblico che non suscita il minimo interesse nelle persone che dovrebbero affrontarlo, cioè la sindaca Raggi e il ministro dell’interno, né nell’opposizione (che a Roma è particolarmente inesistente). Se il territorio è abbandonato dalle istituzioni e impantanato in uno sfacelo civico capillare e profondo, la criminalità prospera a ogni livello. Si va dai quartieri controllati dai clan a Ostia e Roma Est alle strade del centro pattugliate da spacciatori e truffatori di piccolo taglio. Tutti democraticamente accomunati dall’invasione della spazzatura.

 

10) Mentre alimenta la sete di sangue dei tifosi e rafforza la coesione del popolo contro nemici immaginari, la propaganda distrae dalle notizie scomode, come i finanziamenti russi alla Lega, e dalle vere emergenze che dovremmo affrontare. Il dibattito è polarizzato da storie prive di fondamento, come il Pd “partito di Bibbiano” e la caccia a fantomatici criminali nordafricani, o da pantomime ridicole che non dovrebbero interessare a nessuno (per esempio il “mandato zero” dei grillini). Discorsi che non incidono in alcun modo sul benessere del paese reale. Solo una èlite minuscola, e villipesa dai più, si è resa conto che l’Italia rischia concretamente di uscire dall’euro e per la prima volta dal dopoguerra si sta allontanando dal consesso delle democrazie occidentali.

La realtà e la storia ci presenteranno il conto e sarà salatissimo, ma a pagarlo non saranno le persone che ci hanno portato in questo disastro.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

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