Coronavirus: il Credito Cooperativo non trova accordo su “Protocollo Sicurezza”

“Differenti per forza” ma non abbastanza per difendere insieme “ il bene comune”

La grave emergenza sanitaria COVID-19 non accenna a diminuire e, pur essendo tutte le misure del Governo improntate al motto “IO RESTO A CASA”, le stesse prevedono al contempo che i servizi bancari, finanziari ed assicurativi siano garantiti. Dunque le lavoratrici ed i lavoratori del Credito Cooperativo, come tanti altri addetti dei servizi essenziali, NON possono restare a casa!

Ma se assicurare le attività dei servizi bancari significa contribuire alla diffusione del virus (in contrasto peraltro con tutte le previsioni legislative), mettendo a rischio anche “le lavoratrici e i lavoratori” del Credito Cooperativo, e con essa, di qui a breve, la stessa possibilità di continuare a garantire il servizio che viene richiesto, allora questo non è né “cooperativo” né lungimirante; e per noi INACCETTABILE!

Consapevoli che il Credito Cooperativo, proprio per la sua peculiare funzione economica e sociale, a maggior ragione in questo particolare frangente, è chiamato a prestare il proprio servizio alle comunità territoriali delle quali è espressione, riteniamo però che tutto ciò debba avvenire adottando tutte le misure di massima sicurezza in tutti i luoghi di lavoro, a tutela della salute di TUTTI ed in ossequio alle previsioni legislative.

Siamo altresì convinti che le attività minime da erogare come servizio alla clientela, potrebbero e dovrebbero essere assicurate con una diversa organizzazione del lavoro e favorendo l’assistenza ed il lavoro da remoto.

Sulla base di questi “capisaldi” ci siamo confrontati con Federcasse in una due giorni di serrata trattativa che, purtroppo, si è chiusa con un mancato accordo.

Confidavamo davvero di poter raggiungere l’intesa e poter dotare il Credito Cooperativo del suo “Protocollo di sicurezza” (nel solco del Protocollo interconfederale sottoscritto tra Governo e Parti Sociali lo scorso 14 marzo 2020).

Tale Protocollo avrebbe potuto definire con chiarezza modalità operative e strumenti da adottare con immediatezza per fronteggiare questa terribile emergenza sanitaria, dando un indirizzo univoco alla categoria del credito cooperativo, evitando soluzioni diversificate banca per banca, ed assicurare in tutti i luoghi di lavoro, sicurezza in termini di salute e servizi essenziali, nonché il lavoro ed il reddito delle lavoratrici e dei lavoratori.

Tale Protocollo condiviso con le Organizzazioni Sindacali, avrebbe costituito un importante passo in avanti, un segno distintivo del Credito Cooperativo ed un sicuro segnale di coesione e di responsabilità in un momento in cui l’intero Paese richiede a gran voce solidarietà.

Ma, nonostante le dichiarazioni di sempre, per la categoria del Credito Cooperativo, tutto questo non è stato possibile.

Tuttavia, come la stessa Federcasse ha dichiarato al termine della trattativa, il lavoro di questi due giorni ha prodotto risultati apprezzabili che sono per lo più presenti nella ultima Circolare immediatamente redatta dalla stessa Federcasse ed inviata in data 19 marzo u.s. alle proprie associate.

Risultati apprezzabili ma per noi non sufficienti! Perché se non si conviene sul fatto che, in assenza di idonei presidi e adeguate misure di sicurezza non si può quantomeno aprire al pubblico, e se poi non si condivide neanche che il ruolo di raccordo con gli RLS e gli RSA è assolutamente indispensabile, allora vuol dire che non si riconosce davvero la gravità del momento.

Ma noi comunque, con o senza Protocollo di categoria, ci siamo! E continueremo a svolgere il nostro ruolo, in ogni azienda ed in ogni territorio, in assistenza e supporto ai colleghi a cominciare dalla costituzione dei “comitati aziendali” per la sicurezza (così come previsti dall’accordo interconfederale del 14 marzo 2020); presidiando tutte le aziende e richiamando, con tutti i mezzi a nostra disposizione, il rispetto puntuale di tutte le norme di legge, in raccordo con tutte le strutture che la CGIL mette a disposizione a livello territoriale e nazionale.

INSIEME CE LA FAREMO!

 

Roma, 20/3/2020

 

Il Coordinamento Nazionale Fisac-CGIL Credito Cooperativo

 

Scarica il volantino

Leggi anche

https://www.fisaccgilaq.it/bcc/bcc-lora-della-responsabilita.html

 

 




BCC: l’ora della responsabilità

Non sono state sufficienti le giornate di incontro il 17 e 18 marzo, sviluppate tramite videoconferenza, per definire e condividere con positività il verbale di protocollo sulle misure di prevenzione, contrasto e contenimento della diffusione del virus “Covid-19” nel settore del Credito Cooperativo.

Le Segreterie Nazionali, con la partecipazione delle Delegazioni Sindacali di Gruppo, con determinazione e pervicacia, hanno sviluppato ogni considerazione ed azione utile per raggiungere l’obiettivo.

Tuttavia, sono rimaste importanti distanze con Federcasse e i Gruppi Cooperativi sulle modalità e gli interventi che con carattere di estrema rapidità, efficacia ed essenzialità dovevano già essere messi in atto dal Credito Cooperativo in questo straordinario e gravissimo momento.

La richiesta di chiusura di tutti gli sportelli per 15 giorni non è stata giudicata possibile da Federcasse, che deve ancora riunire in questi giorni i propri “organismi”.

Di più, anche le condizioni di sicurezza nell’operatività quotidiana, a partire da quelle effettuate allo sportello, non venivano affrontate e garantite nella loro interezza e complessità.

Nessuna disponibilità da parte di Federcasse a sottoscrivere un protocollo, quindi, che avesse carattere di univocità e uniformità di indirizzo e comportamento per i Gruppi e tutte le Associate al fine di garantire i “kit sanitari” a tutte le Colleghe e i Colleghi, le protezioni in plexiglas, la riduzione degli orari di sportello e la regolazione delle attività bancarie veramente “indispensabili” da fornire a chi accede ancora oggi in banca.

Nessun reale coinvolgimento, inoltre, degli RLS, a dispetto del ruolo che dovranno agire nei Comitati aziendali di prossima istituzione.

Gli interventi a sostegno delle Lavoratrici e dei Lavoratori, che attraversano straordinarie difficoltà in questo tormentato frangente, erano appena indicati, blandi, senza concretamente garantire le condizioni di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro e per niente sviluppati con iniziative appropriate e istanze coraggiose e determinate per marcare la “differenza” del Credito Cooperativo.

Replicare la condivisione di misure di prevenzione per il contenimento della diffusione del virus, già definite con l’accordo tra Governo e Sindacati e con il protocollo tra le OO.SS. e l’ABI non assumeva alcun senso se non quello di ribadire che anche Federcasse aveva svolto il proprio ruolo di rappresentanza.

Nonostante ciò Federcasse ha assunto unilateralmente l’ultimo testo della “bozza” in discussione alla mezzanotte del 18 marzo e lo ha diffuso direttamente ai Gruppi e alle sue Associate come circolare di linee guida sul tema “Covid-19”.

Si è persa un’occasione storica da parte di Federcasse e delle Capogruppo per dimostrare il “valore” dello spirito cooperativo e per dimostrare reale e concreta vicinanza a tutte le Collaboratrici e i Collaboratori in questi tempi drammatici.

Le Segreterie Nazionali e le Delegazioni di Gruppo continueranno sicuramente a profondere ogni possibile impegno sul territorio a difesa e presidio della salute e sicurezza di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori.

Le Segreterie Nazionali, con le Delegazioni di Gruppo, promuoveranno in ogni modo possibile, a partire dalle Capogruppo ed in tutte le Associate, idonei protocolli di sicurezza ed interventi concreti a sostegno dei lavoratori e delle lavoratrici, per fornire tangibili risposte alle gravissime difficoltà quotidiane che affrontano.

Essere comunità cooperativa non significa voltarsi dall’altra parte quando l’emergenza e la drammaticità di questi tempi impone di non abbandonare i lavoratori e le lavoratrici a sé stessi.

Occorre molto più coraggio, determinazione ed “anima” da parte dei signori del Credito Cooperativo, occorre ora ed adesso, perché domani è già tardi.

Roma, 20/03/2020


Le Segreterie Nazionali BCC
Le Delegazioni di Gruppo BCC

FABI FIRST/CISL FISAC/CGIL SINCRA/UGL UILCA




Perchè il salario minimo orario può essere dannoso

Improvvisamente la politica sembra essersi accorti dei cosidetti “working poors” : persone che pur lavorando guadagnano troppo poco per vivere in modo dignitoso. In Italia sono circa il 12% dei lavoratori.
Se n’è accorto il Movimento 5 Stelle, che in realtà il problema lo ha sempre posto, ma che rischia di affrontarlo con il dilettantismo e l’approssimazione che lo contraddistingue, finendo col fare ulteriori danni.
Se n’è accorto il PD, che pure fra Jobs Act, Decreto Poletti e norme varie a favore della precarizzazione, tanto ha fatto per aumentare il numero dei working poors.
Entrambi i partiti, in modo differente, sembrano aver trovato la formula magica che potrebbe risolvere tutti i problemi: il salario minimo orario.
Ma è davvero questa la soluzione giusta?

In realtà, una forma di salario minimo in Italia esiste già, e trae origine dall’art. 36 della costituzione:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Come si fa a quantificare la retribuzione in modo che sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro? La giurisprudenza ha un orientamento preciso: quando il lavoratore si rivolge al Giudice del Lavoro, quasi sempre il magistrato prende come base di riferimento il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore e stabilisce che uno stipendio inferiore a quello previsto nel contratto è illegittimo.
In questo caso l’azienda, oltre a dover risarcire il lavoratore, si troverà anche accusata di evasione contributiva, avendo versato contributi previdenziali calcolati su un importo inferiore al dovuto.

Messa così, la questione sembrerebbe risolvibile con facilità. Tutti i settori sono regolati da Contratti Collettivi, anzi ce ne sono pure troppi (il CNEL ne conta circa 370). Basta applicarli a tutti i lavoratori interessati e il problema è risolto. Giusto?

Purtroppo le cose non sono cosi semplici.

Uno dei problemi irrisolti da oltre 70 anni nella politica italiana è che non è mai stata data attuazione all’ Art. 39 della Costituzione, che disciplina l’attività dei sindacati. Senza entrare troppo in tecnicismi, la norma prevede che i contratti stipulati dai sindacati abbiano validità per tutti i lavoratori del settore (erga omnes), ma questo poteva succedere solo dopo aver emanato delle norme specifiche. Dal 1948 ad oggi questo non è stato fatto.

A causa della mancata emanazione di queste norma, c’è una conseguenza che potrà apparire sorprendente per molti: i contratti collettivi non valgono per tutti i lavoratori, ma solo per gli iscritti alle Organizzazioni Sindacali che li hanno firmati.
Ovviamente questo contrasta con il criterio della parità di trattamento dei lavoratori, quindi le aziende ovviano a questa problema inserendo, nelle lettere di assunzione individuale, il rimando al contratto collettivo di categoria.

Il problema è che anche le aziende sono iscritte ad Organizzazioni Sindacali: sono ad esempio Organizzazioni Sindacali Confindustria o, per restare nel nostro settore, ABI o Federcasse.
Ogni azienda è libera di decidere se essere o meno iscritta ad un’Associazione di Categoria: se non lo fa, o magari decide di uscirne dopo essere stata iscritta, il Contratto Collettivo Nazionale non per lei ha alcun valore.
Potrà eventualmente sottoscrivere, con i Sindacati più rappresentativi in azienda, un suo Contratto Collettivo che sarà l’unico a regolamentare i rapporti di lavoro: è quello che fece la FIAT nel 2011 quando uscì da Confindustria e si fece approvare un suo contratto aziendale, emarginando la FIOM/CGIL che rifiutò di prestarsi all’operazione.

L’attuale quadro normativo si presta ad abusi: un’azienda o un gruppo di aziende possono costituire una loro Organizzazione di Categoria, scriversi un loro Contratto Collettivo e farselo approvare da Sindacati di comodo appositamente costituti. Un comportamento del genere è formalmente legittimo, ma di fatto rappresenta un aggiramento fraudolento delle norme, dando vita al fenomeno dei “contratti pirata“. Nel nostro settore è quello che si è verificato nel comparto dell’appalto assicurativo.

Restando nell’ambito dei comportamenti al limite tra legalità e illegalità , in Italia esistono migliaia di micro imprese, senza rappresentanza sindacale tra i lavoratori, che semplicemente scelgono di non aderire a nessuna Associazione di Categoria, quindi non hanno nessun obbligo di applicare Contratti Collettivi e possono decidere in modo unilaterale quanto pagare i dipendenti.
I lavoratori possono rivolgersi al Giudice del Lavoro per chiedere, in base all’Art. 36 della Costituzione, di adeguare la loro retribuzione al salario minimo previsto dal Contratto Nazionale di settore, avendo la ragionevole certezza di vincere la causa, ma con il timore di dover poi subire future ritorsioni in aziende che, per le loro dimensioni, possono licenziarli con estrema facilità.
Non è un caso se, spesso, queste aziende che pagano stipendi inferiori al dovuto si adeguano invece alla contribuzione previdenziale prevista dai contratti: qualora venissero trascinate in tribunale avrebbero così evitato l’accusa, più grave, di evasione contributiva.

Questo è il quadro attuale: una situazione in cui è possibile – in modo più o meno lecito – per le aziende negare i diritti ai lavoratori: bisogna infatti considerare che un contratto collettivo prevede anche tutele che vanno oltre lo stipendio, e che ovviamente vengono a loro volta perse in caso di disapplicazione del contratto stesso.
Porre rimedio a questa situazione è assolutamente necessario oltre che doveroso, visto che esiste un pezzo importante della nostra Costituzione che da oltre 70 anni aspetta di essere applicato. La domanda da porsi è:
il salario minimo orario è la soluzione giusta?

Così come è stato prospettato sicuramente no. Vediamo perché.

  • Un eventuale salario di base non può essere uguale per tutti
    Se esistono tanti contratti collettivi (magari anche troppi) c’è un motivo ben preciso: ogni settore ha le sue esigenze e le sue peculiarità. Nel decidere quale dev’essere la giusta retribuzione non si può trascurare la differente produttività del lavoro nei vari comparti.
    La contrattazione tra le parti, che conoscono dettagliatamente ogni aspetto delle aziende, potrà portare a risultati a volte imperfetti ma rappresenta il miglior compromesso possibile tra le esigenze del datore di lavoro e del lavoratore.
    Un intervento del legislatore, che fissi un livello minimo reddituale uguale per tutti, comporterebbe l’azzeramento di anni di esperienze e contrattazione, sostituendosi in modo del tutto arbitrario alle parti e fissando importi che non hanno nessun riscontro nelle specifiche aziende.
    Un salario minimo uguale per tutti si rivelerebbe troppo alto in alcune realtà, troppo basso in altre.
  • Il salario di base non può essere troppo basso
    Abbiamo visto come i Contratti Collettivi vincolino solo le aziende iscritte ad Associazioni di Categoria firmatarie degli stessi. Un salario minimo orario inferiore alla maggior parte dei minimi tabellari previsti dai vari Contratti Collettivi metterebbe le aziende nella condizione di avere convenienza ad uscire dalle Associazioni Datoriali, non applicare più i contratti e pagare meno i propri dipendenti.
    L’effetto di una soglia troppo bassa sarebbe devastante: a fronte di un aumento di stipendio per chi oggi prende troppo poco, ci sarebbero milioni di lavoratori che vedrebbero ridursi il loro salario, ma soprattutto diritti e tutele conquistati in decenni di lotte sindacali.
  • Il salario di base non può essere troppo alto
    E’ fin troppo facile promettere un salario minimo orario superiore alla maggior parte dei Contratti Collettivi, come stanno facendo sia i 5 Stelle, sia il PD. Come abbiamo visto, le attività economiche non sono tutte uguali e il valore reale di una singola ora di lavoro può essere molto diverso a seconda delle aziende. Fissare un minimo di legge troppo alto potrebbe spingere molte aziende ad applicare, obtorto collo, i Contratti Collettivi, e questo sarebbe un aspetto positivo.
    Ma costituirebbe anche un forte incentivo verso il lavoro nero, fenomeno che questo governo, come quelli che lo hanno preceduto, non sembra particolarmente determinato a contrastare.
    Ancora una volta il rischio concreto è quello di ridurre i diritti dei lavoratori, in modo particolare di quelli più deboli, impiegati presso micro imprese che maggiormente possono ricattarli.
  • Non basta l’aumento di salario
    Il diritto ad una retribuzione dignitosa è sancito in Costituzione, quindi dev’essere assolutamente reso esigibile. Un Contratto Collettivo prevede però tanti altri diritti: tutela chi si ammala, tutela le mamme, tutela chi ha familiari infermi da accudire.
    Che senso ha dare qualche euro in più ai lavoratori, se poi devono vivere con il terrore di non potersi ammalare per non perdere il posto di lavoro?

Evidentemente la proposta del salario minimo di legge, sicuramente utile per prendere voti, non rappresenta invece la situazione di un problema che, ricordiamolo, nasce dall’inerzia della politica che da 71 anni non è riuscita a dare attuazione a quanto previsto dalla Costituzione in materia di rappresentanza sindacale.
Questo chi ci governa lo sa (o almeno dovrebbe saperlo) ma non lo dice mai.

Se si vuole procedere con il salario minimo orario, bisogna farlo come proposto dalla CGIL: facendo coincidere il salario minimo di ogni categoria con i minimi previsti dal Contratti Collettivi di settore.
Sarebbe un primo passo verso quello che dev’essere l’obiettivo da raggiungere, ossia l’estensione a tutti i lavoratori delle tutele previste dalla contrattazione collettiva.

Un dovere al quale da troppo tempo la politica si sottrae.

 

Leggi anche

https://www.fisaccgilaq.it/assicurazioni/assicurazioni-parte-la-guerra-ai-contratti-pirata.html

 




Fabrizio Petrolini nuovo coordinatore nazionale Fisac per le BCC

Nella riunione della Segreteria Nazionale del 18 febbraio 2019, su proposta del Segretario Generale Giuliano Calcagni, è stata affidata la delega del Settore BCC / Federcasse al nostro Fabrizio Petrolini.

La sua elezione rappresenta un motivo di profondo orgoglio per tutti noi della Fisac L’Aquila, organizzazione della quale Fabrizio è stato segretario generale fino al 2016.

Complimenti sinceri a Fabrizio e gli auguri più affettuosi in vista di un incarico che sarà sicuramente impegnativo, ma che lui ha tutte le qualità umane e professionali per svolgere nel modo migliore possibile.

 




CCNL FEDERCASSE 27 e 28 dicembre 2018, ancora 2 giornate di trattativa

Nella giornata del 17 dicembre u.s. si è svolto un ulteriore incontro tra Federcasse e le Organizzazioni Sindacali che, nonostante le dichiarate volontà di una celere e positiva conclusione, ha prodotto l’ennesima fumata nera.

Successivamente è pervenuta alle OOSS una nuova convocazione di incontro da parte di Federcasse per la giornata odierna con possibilità di prosecuzione per domani, 28 Dicembre 2018.

Come FISAC CGIL ribadiamo che, in una fase di cambiamento epocale della categoria, è necessario e prioritario rinnovare il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per le aree professionali e quadri direttivi scaduto il 31 dicembre 2013, così come quello dei dirigenti scaduto dal dicembre 2008.  Questo va fatto con la consapevolezza di quanto sia importante evitare di saltare un ciclo negoziale, di dare certezze riguardo il recupero salariale inteso anche come responsabilità sociale e come dovuto riconoscimento del valore lavoro. 

Non meno importante è l’opportunità di avere un CCNL rinnovato sebbene già “scaduto” (la scadenza sarebbe infatti quella del 31 dicembre 2018) propedeutico all’avvio immediato di una nuova stagione negoziale che tenga conto dei nuovi assetti della categoria ivi compreso l’avvio operativo dei gruppi bancari cooperativi. 

Come FISAC CGIL riteniamo che, in questo particolare momento, il rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro della categoria non possa non prevedere il riconoscimento degli aumenti salariali dovuti e tenere nel giusto conto la tardiva erogazione degli stessi. 

È inoltre per noi necessario adeguare il valore della tabella economica dei contratti di inserimento che vede oggi una riduzione salariale per i neoassunti nei primi quattro anni di lavoro. 

Nell’affrontare responsabilmente la fase che il sistema del credito sta attraversando, in tema di sostenibilità economica dei contratti, restiamo convinti che la soluzione più adeguata in termini di impatto e soprattutto di equità possa essere la riduzione, seppur minima e temporanea, della base retributiva utile per il calcolo del TFR.

Tutto ciò anche alla luce dell’annunciato ricambio generazionale e a salvaguardia dei livelli retributivi dei lavoratori più giovani e di quelli inquadrati nei livelli più bassi della categoria. 

C’è bisogno poi di dare un concreto segnale di attenzione a quelli che sono dichiarati dalla stessa Federcasse i beni comuni del Credito Cooperativoe cioè le previsioni nazionali di categoria in tema di assistenza integrativa e previdenza complementare.

In tale contesto, gli interventi sulla parte normativa dei CCNL devono certamente tenere conto di alcune delle novità che la riforma del Credito Cooperativo già presenta ma, nel contempo, non possono variare incautamente istituti contrattuali consolidati in assenza di una conoscenza puntuale dei piani industriali del sistema, degli sviluppi organizzativi che ne deriveranno ed anche in funzione della evoluzione del settore creditizio più in generale. 

Sicuramente il rafforzamento delle aree di competenza e gli strumenti a disposizione  dell’Osservatorio Nazionale, previsto all’articolo 12 del CCNL, rappresenta uno snodo fondamentale per affrontare, nell’ambito del futuro confronto contrattuale e nello spirito della partecipazione, i problemi e le opportunità che si presenteranno, nello spirito di valorizzazione della cooperazione di credito e della democrazia economica nel nostro paese che, come più volte ribadito, passa per il coinvolgimento consapevole ed attivo delle lavoratrici e dei lavoratori.

Per accompagnare la attuale fase è utile aggiornare, già in questo rinnovo contrattuale, le materie riguardanti la mobilità del personale tra diverse aziende del Credito Cooperativo, a garanzia e salvaguardia delle lavoratrici e dei lavoratori riguardo la continuità piena del rapporto di lavoro in caso di passaggio ad altra azienda del sistema. 

È opportuno agire nell’ambito della prevenzione dei conflitti collettivi (articolo 22 del CCNL) al fine di individuare indirizzi condivisi per la gestione più efficace degli accessi alle prestazioni ordinarie e straordinarie del Fondo di Sostegno al Reddito, questo insieme alla necessaria e urgente rivisitazione del regolamento del Fondo stesso per avviare l’iter autorizzativo presso gli enti preposti, in modo da avere un ammortizzatore di settore efficace ed efficiente. 

Convinti della necessità del rinnovo dei CCNL, produrremo il massimo sforzo in tal senso, fermo restando che nessun rinnovo può essere per noi a danno del futuro delle lavoratrici e dei lavoratori del Credito Cooperativo!

Roma 27 dicembre 2018

 

FISAC/CGIL Coordinamento Nazionale Credito Cooperativo

 

Scarica il volantino




BCC: attuazione della riforma e rinnovo del CCNL

Il futuro del Credito Cooperativo e della sua biodiversità

Sono trascorsi circa quattro anni dal primo tentativo del legislatore di riformare il Credito Cooperativo e dall’ultimo sciopero della categoria per rivendicare il rinnovo dei patti di lavoro.

Nel gennaio del 2015 il Governo, con un decreto legislativo, tracciava le linee programmatiche dell’intervento di riforma del TUB per il Credito Cooperativo che poi si sarebbe trasformato nel percorso di “autoriforma” completatosi con la Legge 8 aprile 2016 n. 49.

Nel marzo del 2015 le lavoratrici ed i lavoratori incrociavano le braccia in quello che era lo sciopero della consapevolezza: riappropriarsi di Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (dai quali Federcasse in maniera unilaterale aveva dato il recesso) e salvaguardare la specificità della cooperazione di credito ed il valore della democrazia economica.

Oggi, nonostante le dichiarazioni datoriali di soddisfazione per gli esiti della riforma del 2016, e nonostante le nostre continue sollecitazioni, constatiamo che nulla sembrerebbe essere cambiato:
riforma e contratto restano al palo!

L’incapacità, nei fatti, di fare sintesi tra le diverse componenti di questo sistema, unita al perseguimento, poco lungimirante, di evocate “autonomie” ha determinato una riforma arrivata tardi, disegnata da altri, che ancora oggi non si concretizza e resta in balia dei diversi governi che si succedono e delle diverse sollecitazioni che ad essi pervengono.
E’ auspicabile rivedere alcuni aspetti riguardanti ad esempio le regole del patto di coesione, il ruolo della parte associativa, così come i criteri di progressività e proporzionalità della valutazione del rischio in ciascuna BCC per affermare un modello bancario vicino al territorio e aderente alle sue esigenze, sarebbe invece dannoso, a questo punto, allungare eccessivamente i tempi di avvio della riforma.

Come FISAC CGIL abbiamo cercato di affrontare con grande senso di responsabilità il travagliato periodo di definizione della riforma e l’applicazione della nuova normativa europea (BAIL IN) in materia di fallimenti delle banche, comprese le BCC, incalzando continuamente Federcasse per un rinnovo necessario e non più rinviabile dei patti di lavoro e di adeguamento delle norme dell’ammortizzatore di settore.

In ciascuna azienda ed in ogni territorio, dove si sono verificate situazioni di crisi la FISAC CGIL ha sempre ricercato, coerentemente e senza speculazioni, le soluzioni previste dalla contrattazione nazionale e dalla legge, a difesa dell’occupazione e del reddito, evitando processi di mobilità territoriali e soprattutto difendendo la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Credito Cooperativo.

Ancora oggi le criticità in molte aziende del Credito Cooperativo sono ben lontane dall’essere risolte ed il rinvio dell’attuazione della riforma rischia di aggravarle e di ritardarne la soluzione.

Avevamo proposto con forza, e siamo ancora convinti della sua utilità, l’apertura di un tavolo permanente di confronto fra le parti sociali che avesse come tema sia il percorso di riforma, che il rinnovo dei CCNL e la revisione del regolamento del Fondo di settore.
Invece la mancata informativa dei piani industriali da parte, prima di Federcasse e poi delle capogruppo, le ingiustificate dichiarazioni di fantasiosi numeri di esubero di lavoratori nella categoria, i tentativi di smantellare i contratti collettivi di categoria ed i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, hanno reso impossibile qualsiasi confronto utile al rinnovo dei contratti ed alla gestione condivisa ed omogenea delle criticità.

Rivendichiamo con forza quello che abbiamo sempre affermato:

“La riforma si fa con le lavoratrici ed i lavoratori del Credito Cooperativo NON contro di loro”

Riforma e Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, rilancio di relazioni industriali improntate alla partecipazione, alla responsabilità ed al fattivo confronto sono dunque oggi una priorità inderogabile.
E’ ora il momento di abbandonare qualsivoglia strumentalizzazione per affrontare finalmente:

  • la salvaguardia occupazionale;
  • la valorizzazione del lavoro, del reddito e dello sviluppo delle professionalità;
  • lo sviluppo del sistema Credito Cooperativo;
  • la salvaguardia di un modello di democrazia economica.

Ci aspettiamo che Federcasse riapra al più presto il confronto per il rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, insieme alla rivisitazione dell’ammortizzatore sociale di settore (Fondo di Sostegno al Reddito) che va reso rispondente alle esigenze della categoria, efficace ed effettivo, abbandonando qualsivoglia tentativo di trovare soluzioni originali che gravino sui lavoratori. Come pure è indispensabile affrontare e risolvere le ripercussioni che la riforma potrebbe implicare in tema di previdenza ed assistenza sanitaria integrative a carattere di solidarietà nazionale.

Non permetteremo che il mancato rinnovo dei CCNL fornisca alibi a chiunque. Ribadiamo che la contrattazione collettiva di categoria ha contribuito a tenere insieme fino ad oggi questo variegato ed originale sistema creditizio che, con tutti i suoi limiti, ha svolto e svolge ancora un ruolo importante a supporto dell’economia reale del nostro paese, con l’apporto indispensabile delle lavoratrici e dei lavoratori del Credito Cooperativo.

Se sarà necessario, insieme alle altre organizzazioni sindacali, valuteremo opportune iniziative di mobilitazione.

Roma luglio 2018

Il Coordinamento Nazionale FISAC CGIL Credito Cooperativo
Michele CERVONE – Fabrizio PETROLINI

Scarica il volantino




Bcc, la riforma deve fermarsi. Governo pronto al decreto

Il governo punta a congelare la riforma delle banche di credito cooperativo (Bcc). Il ministro dell’Economia Giovanni Tria dovrebbe annunciare, forse già in settimana, una moratoria per l’applicazione della riforma renziana che, per quegli strani giri di potere delle riforme dettate d’urgenza, oggi non ha più padri. Chi l’ha voluta, la Banca d’Italia, frena; chi l’ha approvata, il Pd a trazione renziana, tace ma nei territori tifa per lo stop. L’obiettivo del governo è però più pragmatico: sottrarre i nuovi gruppi alla vigilanza della Bce. Andiamo con ordine.

A febbraio 2016 il governo Renzi ordina per decreto alle oltre 360 Bcc di aderire a una capogruppo visto che, denuncia Bankitalia, il credito cooperativo è afflitto da degenerazioni clientelari. Renzi acconsente, ma ritaglia una controversa deroga per chi non vuole confluire nel cappello unico (di cui approfitterà la Bcc di Cambiano cara a lui e Luca Lotti) e una pure per le Casse Raiffeisen in Trentino Alto Adige consentendo loro di farsi un gruppo provinciale (la cosa è piaciuta alla Südtiroler Volkspartei ed è tornata utile per candidare Boschi a Bolzano).

Il testo viene scritto a Via Nazionale pensando che tutte le Bcc si sarebbero fuse dentro Iccrea Holding, braccio operativo della Federcasse, storico feudo romano-democristiano che per anni ha tessuto indisturbata le degenerazioni che ora Bankitalia scopre. A sorpresa la Cassa Centrale Banca di Trento, punto di riferimento delle Raiffeisenkasse, si è candidata a fare un secondo gruppo, alternativo al colosso nazionale. Le Bcc più sane, temendo di finire stritolate nella spartizione romana, hanno scelto la secessione trentina. Oggi cira 160 Bcc sono con Iccrea; 90 con Ccb. Problema: viste le dimensioni, i due gruppi finiranno sotto la vigilanza della Banca centrale europea.

La cosa è a questo punto: ad aprile le due capogruppo hanno presentato la candidatura a Bankitalia e Bce, che hanno 120 giorni per decidere. In teoria c’è tempo fino a settembre, ma la vigilanza di Francoforte sembra voler accelerare. Il premier Giuseppe Conte si è detto favorevole a una revisione e la Lega ha presentato una mozione per chiedere la moratoria. A sorpresa, nei giorni scorsi il dg di Bankitalia, Salvatore Rossi, ha ammesso che il passaggio dei nuovi gruppi alla vigilanza di Francoforte sarebbe un problema: “È possibile che stia emergendo, in virtù dell’applicazione dei requisiti patrimoniali pensati per le banche ‘significant’, la circostanza che i costi della riforma così congegnata possano superare i benefici”. Ha corretto il tiro qualche giorno dopo: “Continuiamo a ritenere la riforma opportuna”.

La questione della vigilanza è in realtà più complessa dei requisiti patrimoniali. C’è il rischio che alle singole Bcc dei due gruppi (le bolzanine sono in teoria escluse) vengano applicate le rigide regole del Comprehensive Assessment, il meccanismo con cui la Bce verifica lo stato di salute delle grandi banche. Tra questi ci sono i sistemi di valutazione della clientela (rating) pensati per le grandi industrie, ma le Bcc finanziano prevalentemente artigiani, ditte individuali e micro-imprese: molte di loro, specie al Sud, sarebbero costrette ad abbandonare la clientela.

Per evitarlo il governo è di fronte a un bivio: tornare indietro o negoziare una deroga sistemica con la Bce (oggi riservata a singole banche). La prima strada è quella proposta da Lega e 5Stelle, che spingono per gli Ips (institutional protection schemes), sistemi di mutua protezione e garanzia tra banche associate usate dagli istituti locali tedeschi (Sparkassen e Volksbanken), che infatti sono fuori dalla vigilanza Bce. L’ipotesi Ips non è nuova ma per anni ha diviso il mondo delle Bcc. Oggi quelle più sane temono di dover pagare per quelle malandate (circa il 10% del totale, secondo Mediobanca). Per dare l’idea, il fondo di garanzia temporaneo previsto dalla riforma è stato bloccato dopo che era intervenuto per aiutare alcune banche da cui provengono i vertici di Iccrea Holding.

In questo caos succedono cose strane: chi era contrario alla riforma ora la difende e viceversa. Le Bcc bolzanine, le più tutelate, premono per lo stop visto che – risulta al Fatto – la Bce ha fatto intendere di considerare il gruppo provinciale ugualmente “significant”; Federcasse e Ccb si schierano invece per la prosecuzione.

Venerdì scorso l’associazione “Articolo 2” di San Casciano ha comprato un pagina sul Corriere per chiedere al governo di fermare la riforma. Tra i suoi fondatori – rivela il Gazzettino del Chianti – ci sono pure gli ex vertici di Chianti Banca vicini alla Federcasse toscana guidata da Matteo Spanò, amico d’infanzia di Matteo Renzi, che adesso non spende una parola per difendere la sua riforma.

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 24/6/2018