“La Via Maestra”, 25 maggio a Napoli manifestazione nazionale

Dalla manifestazione nazionale del 7 ottobre, sono trascorsi più di 7 mesi: la situazione internazionale e del Paese è andata pericolosamente aggravandosi.
  • Il rischio di una guerra generalizzata nel  mondo è sempre più forte.
    A Gaza, in Medio Oriente, in Ucraina, in Sudan e in altre aree  del mondo proseguono e si allargano la carneficina e la corsa al riarmo
  • Sui cambiamenti climatici non c’è inversione di tendenza, anzi si fanno passi indietro mentre aumentano le vittime e i danni, colpendo di più le persone, i lavoratori e i territori più fragili. La transizione ecologica va governata, per renderla socialmente giusta, fondata su una nuova qualità del lavoro e dello sviluppo.
  • L’Unione Europea, invece di essere un fattore di pace e di progresso, rischia di perdere il proprio ruolo di inclusione e di cooperazione e con il patto su migranti e asilo smarrisce anche la propria umanità.
  • In Italia l’attacco all’unità del Paese, alla Costituzione e alla democrazia prende il nome di autonomia differenziata ed elezione diretta del Presidente del Consiglio. Così si approfondiscono le disuguaglianze e si mortifica la partecipazione democratica.
  • La libera informazione, la libertà di manifestare, il diritto al dissenso, l’autonomia della magistratura sono sotto l’attacco di un crescente autoritarismo. Il ruolo dei corpi intermedi è svilito e negato.
  • La situazione sociale ed economica è sempre più grave, il lavoro è sempre più precario soprattutto per giovani e donne. Basta con le morti sul lavoro: bisogna cambiare radicalmente l’attuale sistema fondato su appalti e subappalti e investire su salute e sicurezza. C’è un’emergenza salari e pensioni, le diseguaglianze e la povertà crescono, il welfare – a partire dal diritto alla salute, all’istruzione e all’abitare – è sempre di più definanziato, in progressivo smantellamento e indebolito dalle privatizzazioni. Non si  contrasta l’evasione fiscale e si attuano, invece, interventi regressivi come la flat tax. I diritti sociali e civili, a partire da quelli delle donne, sono a rischio. Anziché investire sulla giusta transizione e su nuove politiche industriali si sprecano risorse per opere inutili come il ponte sullo Stretto. Il governo non dà le risposte che servirebbero: invece di contrastare queste tendenze le determina.

Ecco perché il 25 MAGGIO torniamo in piazza 

a NAPOLI con LA VIA MAESTRA

Il nostro paese ha bisogno di partecipazione, del ruolo delle organizzazioni sociali e sindacali, dei cittadini e delle cittadine che si associano per il bene comune. La Costituzione continua ad essere il nostro programma politico: per la democrazia, per la pace, per il clima, per la giustizia sociale, per il lavoro dignitoso, per dare un futuro sostenibile a questo paese.

Le nostre proposte sono in continuità con la manifestazione del 7 ottobre 2023: chiediamo politiche concrete, risposte puntuali, iniziative rapide per costruire

 

UN’ITALIA CAPACE DI FUTURO, UN’EUROPA GIUSTA E SOLIDALE

IL PAESE NE HA BISOGNO, SUBITO!

 

La Cgil Abruzzo Molise organizza pullman da tutte le principali località delle due regioni. Qui trovi le informazioni utili per partecipare e il numero da contattare per prenotarti

 




Le tasse in Italia: progressive al contrario

Prelievo più alto per i redditi bassi: il sistema punisce il lavoro e premia le rendite


Secondo la Costituzione, chi guadagna di più dovrebbe pagare proporzionalmente più tasse. Ma l’articolo 53 della Carta (“Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) è ormai lettera morta. Lo mostra in modo spiazzante un recente studio, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of the European Economic Association: in Italia i super-ricchi pagano in proporzione meno tasse del resto dei loro concittadini.

L’analisi fa chiarezza nella giungla delle tasse del Belpaese (fra redditi da lavoro dipendente, autonomo, da capitale, eccetera) e ricostruisce l’“aliquota effettiva” pagata dagli italiani. Il risultato? “Il sistema fiscale italiano è solo blandamente progressivo per la maggior parte (della popolazione, ndr) e diventa regressivo per il 5% più ricco”.
Un esempio può aiutare a capire. Un super-manager che guadagna 520 mila euro l’anno fa parte dell’1% più ricco degli italiani. Ora prendiamo un connazionale precario, che guadagna 15 mila euro annui (rientrando nel 40% dei più poveri). Nonostante tutto, il precario pagherà proporzionalmente più tasse: il 42% del suo reddito, contro il 36% di tasse pagate dal super-manager. Gli autori dello studio (Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi e Andrea Roventini della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, insieme ad Alessandro Santoro dell’Università Bicocca di Milano) mostrano che i risultati rimangono simili anche tenendo conto dei contributi sociali, che non sono tasse vere e proprie ma che influenzano comunque il reddito disponibile.

Il perché di questo squilibrio è presto detto. Il nostro sistema tratta le varie tipologie di reddito in modo radicalmente diverso: in sintesi, il lavoro dipendente è più tassato del lavoro autonomo e molto più tassato del reddito da capitale. Per fare un esempio: un italiano che guadagna 46 mila euro annui pagherebbe circa il 54% di tasse sul reddito da lavoro dipendente, mentre solo il 34% sul reddito da capitale. È facile capire che un sistema del genere disincentiva il lavoro (altro che Reddito di cittadinanza…). A essere favoriti sono invece i profitti (nel migliore dei casi) e le rendite finanziarie e immobiliari (nel peggiore).

Con le crisi degli ultimi decenni, queste distorsioni hanno effetti perversi sulle disuguaglianze. Fra il 2004 e il 2015 il reddito nazionale in Italia è calato del 13%, ma il costo è stato più pesante per le classi popolari. Il 50% più povero, infatti, ha perso in media il 30% del reddito, mentre l’1% più ricco neppure il 3%. Ma i problemi non finiscono qui. Ad aver pagato di più le conseguenze della crisi sono stati giovani e donne. Nel 50% più povero, la fascia tra i 18 e i 35 anni ha visto quasi dimezzarsi il proprio reddito (-43%). E il divario di genere ha messo radici ancora più profonde in tutte le classi di reddito.

Ovviamente non è solo una questione di reddito. Gli ultimi dati della Banca d’Italia mostrano che il 5% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza del Paese (il 46%, per la precisione). Un circolo vizioso: è anche grazie a queste ricchezze concentrate in poche mani che i più abbienti guadagnano redditi molto più alti. Redditi che poi vengono tassati in modo light, aumentando ancor più le disuguaglianze…

Ma la patrimoniale e le tasse sugli extra-profitti restano ancora tabù.

Articolo di Alessandro Bonetti su “Il Fatto Quotidiano” del 13/1/2023




Landini: “Questa è la piazza di chi paga le tasse”

Landini: «Siamo la maggioranza nel Paese»


 

Landini conclude a Roma la Via Maestra: un cambiamento nel segno della Costituzione.

È un Maurizio Landini particolarmente emozionato quello che prende la parola per concludere la grande giornata di mobilitazione nella Capitale che la Cgil insieme a oltre 100 associazioni hanno voluto “intitolare” alla nostra Carta: “La Via Maestra, insieme per la Costituzione”.

Due le parole più ricorrenti nel discorso del segretario generale della Cgil: “pace” e “insieme”: “Siamo qui – ha detto – nelle nostre diversità, ma sono diversità che, anziché dividerci, ci uniscono ancora di più. Perché siamo noi che questo paese lo vogliamo tenere insieme”. E uniti però da una cosa importante: “Siamo quelli che lavorando tengono in vita questo Paese o quelli che, se sono in pensione, lo hanno fatto per 40 anni pagando i contributi e contribuendo mandarlo avanti questo Paese”.

Siamo quelli che “credono nella giustizia, e nella lotta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Ed essere qui, in questa piazza, è per dire che “è il momento di uscire dalla rassegnazione, dall’idea che le cose non si possono cambiare”. E invece lo si può e deve fare (“non pensiamo di avere solo diritti – ha sottolineato – ma anche doveri”) nel segno della via maestra della Costituzione, “figlia della cultura cattolica, socialista, comunista e di giustizia e libertà che insieme hanno costruito la democrazia, sconfiggendo fascismo e nazismo”.

Quello che la Carta ci dice

E qui non poteva ovviamente mancare il ricordo dell’assalto fascista di due anni fa alla sede della Cgil, a cui seguì “la grande manifestazione del 16 ottobre, anche quella una grande risposta”.

Ma citare la Costituzione non può rimanere esercizio astratto. Perché, ha scandito Landini, “la nostra Carta parla di cose precise: del diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, a un salario dignitoso, a un fisco progressivo, all’autonoma della magistratura, alla libertà dell’informazione”.

Pace, non guerra

La Costituzione, ha aggiunto, “parla di pace e non di guerra”. E per la pace, ricorda, “abbiamo manifestato il 5 novembre scorso, per condannare l’invasione dell’Ucraina, ma per dire anche che bisognafare in modo che la guerra non torni a essere strumento di regolazione dei conflitti e per questo la politica, gli Stati devono muoversi”.

Perché sono le persone a subire i danni atroci della guerra, ha ricordato il leader della Cgil, dai 500 mila morti della guerra in Ucraina fino all’attacco di Hamas in Israele che “condanniamo duramente”.

Qui per cambiare la situazione

“La nostra oggi è una società che mette tutti in competizione, gli uni contro gli altri – ha detto il segretario -. Questo ha determinato un aumento delle diseguaglianze senza precedenti, concentrando la ricchezza in mano a pochi, mettendo i lavoratori l’uno contro l’altro, i precari gli uno contro gli altri, gli italiani contro gli stranieri”. Una società con troppe iniquità: “C’è chi si può curare e chi no, chi può studiare e chi no, chi lavora e chi no. Ecco allora cosa vogliamo fare con questa giornata: non siamo qui per protestare, ma per cambiare la situazione“.

Poi il passaggio sulla violenza sulle donne: “Non è un problema delle donne, è un problema della cultura di noi uomini: dobbiamo avere l’umiltà di capire ed essere disponibili a cambiare”. È anche “la cultura della guerra”, a suo avviso, che genera violenza nei rapporti tra le persone.

La lotta per la Costituzione è all’inizio

Con la Via Maestra “non finisce la lotta per l’applicazione della Costituzione, ma comincia. Inizia un’azione in ogni territorio, luogo per luogo, in cui il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione vengono praticati nel concreto. Dobbiamo tornare a costruire una comunità – ha detto Landini -. Ricordiamoci che la vera solidarietà non si fa tra uguali, si fa se qualcuno che sta meglio si batte per chi sta peggio. Noi vogliamo ricostruire la solidarietà sociale tra le persone”.

Il “vero nemico”, dunque, “non è lo straniero, non è quello accanto a me assunto a termine, ma è chi ci sfrutta: chi fa le politiche, chi deve cambiare le leggi e non lo fa. Anche questo governo, che dopo un anno va nella direzione di manomettere la Costituzione”.

Il governo aumenta le divisioni

Il leader della Cgil è tornato a criticare l’esecutivo. “Non c’è bisogno di aumentare le divisioni con l’autonomia differenziata – queste le sue parole -. Invece di cambiare il governo ha aumentato i voucher e liberalizzato i contratti a termine. Ha liberalizzato anche i subappalti, una ‘porcheria’ che non dobbiamo smettere di denunciare, perché nei luoghi di lavoro le imprese si sono riorganizzate con subappalti e finte cooperative. In questo modo le persone che fanno lo stesso lavoro non hanno più gli stessi diritti: questo ha determinato una competizione a ribasso con pezzi del mercato che sono in mano alla malavita. Combattiamo i subappalti”.

Aumentare i salari significa rinnovare i contratti. “Bisogna introdurre un salario minimo per legge, sotto il quale nessun lavoratore può essere pagato. Cinque o sei euro l’ora è una paga da fame, inaccettabile”. Poi sulla crisi climatica: “Non si può negare l’esistenza, come fa il governo, non si può rimandare il tempo delle scelte. I cittadini delle zone alluvionate non hanno ancora visto un euro dallo Stato”.

Avanti fino all’obiettivo

Sul nodo delle risorse, ha ribadito Landini, “bisogna andare a prendere i soldi dove sono. Non è vero che in Italia non ci sono, abbiamo 110 miliardi di evasione fiscale, bisogna prenderli lì, non si può continuare a vivere sui lavoratori dipendenti e pensionati che pagano il 95% dell’Irpef. Bisogna tassare le rendite finanziarie e immobiliari”.

In conclusione, citando Rodotà, Maurizio Landini ha ricordato le due idee di società diverse che sono in campo. Assicurando che quello di oggi è l’inizio di una grande mobilitazione: “Faremo una battaglia senza limiti, finché non avremo ottenuto il risultato: ci sono le condizioni per poterlo fare. Siamo noi che rappresentiamo la maggioranza di questo Paese. Non possiamo stare fermi, vogliamo batterci. Prendiamo un impegno: noi non ci fermeremo. Andremo avanti fino a quando non avremo raggiunto gli obiettivi“.

 

Fonte: Collettiva.it




“La via maestra, insieme per la Costituzione”: Cgil e associazioni il 7 ottobre in piazza a Roma

“La via maestra, insieme per la Costituzione”: è questo lo slogan scelto dalla Cgil e da più di cento associazioni e reti associative, che a loro volta raccolgono tantissime realtà della società civile, per la grande manifestazione nazionale che si terrà il prossimo 7 ottobre a Roma.
Si sfilerà per le strade della Capitale per il lavoro, contro la precarietà, per il contrasto alla povertà, contro tutte le guerre e per la pace, per l’aumento dei salari e delle pensioni, per la sanità e la scuola pubblica, per la tutela dell’ambiente, per la difesa e l’attuazione della Costituzione contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.

Sono già in programma assemblee in tutti i posti di lavoro e nelle realtà territoriali per una consultazione straordinaria delle lavoratrici, dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, delle donne, dei giovani, affinché siano protagonisti di una battaglia comune per unire e cambiare il Paese, per dare vita a un nuovo modello di sviluppo fondato sul lavoro, sulla centralità della persona, sulla sostenibilità ambientale.

In allegato l’appello integrale:

– Per i materiali e ulteriori informazioni www.collettiva.it
– Per i promotori dell’appello e tutte le adesioni, in continuo aggiornamento, CLICCA QUI
– Per aderire all’appello: [email protected]

Appello 7 Ottobre 2023 La via maestra


Promotori e adesioni




Il 24 giugno scendiamo in piazza per difendere il nostro diritto alla salute

Due grandi manifestazioni nazionali a Roma: il 24 giugno in difesa del diritto alla salute delle persone e nei luoghi di lavoro e per la difesa e il rilancio del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico e universale; il 30 settembre per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.

Per sottoscrivere e aderire all’appello: [email protected]

Sono previsti pullmann gratuiti da tutte le principali località di Abruzzo e Molise: rivolgiti al tuo rappresentante sindacale per prenotarti.


SALUTE, DIRITTO FONDAMENTALE DELLE PERSONE E DELLE COMUNITÀ

Per la tutela del diritto alla Salute, per un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario – pubblico, solidale e universale – a cui garantire le necessarie risorse economiche e organizzative ma soprattutto il personale: operatori e professionisti che possano realmente garantire il diritto alla cura di tutte e tutti, con salari adeguati, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale e dalle liste d’attesa, e valorizzare il lavoro di cura; serve, per questo, un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà della cura e di chi cura; per garantire la salute e la dignità delle persone non autosufficienti; per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo dei servizi della prevenzione, ispettivi e di vigilanza. Avere una sanità pubblica vuol dire garantire le cure per tutte e tutti, in tutto il Paese, e fermare la privatizzazione della sanità e della salute.

 

A DIFESA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

  • Il diritto al lavoro e la tutela del lavoro rappresentano i pilastri della nostra Costituzione ma i numeri degli infortuni mortali, gli infortuni e le malattie professionali sono ancora inaccettabili;
  • Nei primi 4 mesi dell’anno sono morti 264 lavoratori e lavoratrici;
  • Nel 2022 i morti sul lavoro sono stati 1.090;
  • Gli infortuni nell’anno 2022 sono stati circa 700.000;
  • Inoltre, di lavoro ci si ammala, le malattie professionali denunciate, nei primi 4 mesi dell’anno sono in aumento del 24% (23.800);
  • È assurdo che nel terzo millennio ancora si debba morire o ci si ammali lavorando in molti casi per condizioni di lavoro pessime;
  • Si muore per l’insufficienza dei controlli nei luoghi di lavoro dovuta alla carenza degli ispettori, si muore per la mancanza di presidi territoriali; si muore per la mancata formazione; si muore perché si è precari; si muore perché si lavora in un appalto dato in sub appalto, si muore perché donna o migrante;

È necessario e non più rinviabile un rinnovato atto di responsabilità del governo e delle Istituzioni per ridurre le morti sul lavoro e gli infortuni.

 

OCCORRE INTERVENIRE URGENTEMENTE PARTENDO DA QUESTE 10 PRIORITÀ:

  1.  Una campagna straordinaria di controlli da parte degli organi di vigilanza in ogni azienda preceduta da una massiccia assunzione nei dipartimenti di prevenzione delle Asl e nell’Ispettorato del lavoro nazionale;
  2.  Non concedere finanziamenti alle imprese che non rispettano i requisiti di legalità, applicazione dei Ccnl e che non garantiscono adeguate condizioni di lavoro e delle norme previste in materia di salute e sicurezza;
  3.  Varare il modello della qualificazione delle imprese e della patente a punti per l’accesso alle gare di appalto pubbliche e non solo;
  4.  Investire, più risorse Inail sulla ricerca, per accrescere la conoscenza della dimensione del fenomeno infortuni e malattie professionali e delle tecnologie utili a ridurli;
  5.  Inserire nei programmi scolastici la materia della ssl fin dai primi cicli scolastici;
  6.  Assicurare l’informazione, la formazione e l’addestramento come diritti fondamentali ed esigibili di ogni lavoratrice e lavoratore: mai al lavoro senza una preparazione ed un addestramento adeguati;
  7.  Assicurare che venga espletato l’obbligo di formazione per i datori di lavoro;
  8.  Modificare le norme dell’ultimo codice degli appalti per assicurare le necessarie risorse dedicate alla salute e sicurezza nelle aziende;
  9.  Garantire appieno l’autonomia nello svolgimento del ruolo del medico competente;
  10.  Incrementare le prestazioni socio sanitarie a favore degli infortunati e dei tecnopatici (in particolare l’assistenza riabilitativa, le protesi e gli ausili) in sinergia tra Inail e Servizio sanitario nazionale utilizzando appieno i consistenti fondi a questo dedicati.

Fonte: www.collettiva.it




Lavorare gratis è incostituzionale

Una panoramica sulle regole, le normative e le sentenze

Il lavoro gratis è incostituzionale. Trovate online annunci di lavoro per servizi e prestazioni lavorative a titolo gratuito o simbolico, soprattutto se per incarichi professionali senza compenso o rimborso?

Bene, la procedura è nella maggior parte dei casi illegale.

Scopriamo quali sono le motivazioni di questa illegittimità tramite una breve carrellata legislativa.

Cresce la tendenza, infatti, nelle aziende pubbliche e private a chiedere servizi e prestazioni lavorative a titolo gratuito o simbolico rivolgendosi a geometri, architetti, sviluppatori informatici, ingegneri.
Incarichi per i quali il professionista non potrà pretendere alcunché a titolo di compenso o rimborso.

Secondo la Costituzione questa procedura non è corretta.

Si deve ricordare, infatti, che l’art. 36 della Costituzione impone l’obbligo di una retribuzione proporzionata per ogni prestazione lavorativa resa.

 

Le decisioni della Cassazione

Su questo scottante argomento, inoltre, si è pronunciata più volte anche la Corte di Cassazione. Nello specifico, con la sentenza 26.01.2009 n° 1833:

“Ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa e fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici.” 

Un altro caso è quello evidenziato dalla Sentenza 06 maggio 2016, n. 9195, anche quando si parla di Impresa Familiare:

“Qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare.”

Attenzione però: perchè il coniuge, per il solo essere tale, perde il diritto al riconoscimento – costituzionalmente garantito – della retribuzione. Specie di fronte a una Giurisprudenza che, pur avendo ormai individuato i criteri atti a qualificare il rapporto di lavoro subordinato, adotta un’interpre­tazione restrittiva dei medesimi criteri all’interno dell’impresa familiare.

E infine la fattispecie per cui il lavoro può essere gratuito, in buona sostanza, è la seguente.

Nulla vieta ad un professionista di svolgere la propria attività a titolo volontario, ma la legge sul volontariato del 1991 chiarisce che l’organizzazione per cui si svolge volontariato deve essere senza fini di lucro.

 

Fonte: www.lentepubblica.it

 




Fisac MPS contro Decreto Sicurezza e autonomie differenziate

O.D.G contro i provvedimenti governativi in materia di autonomia differenziata e sicurezza, approvato all’unanimità dal Direttivo di Coordinamento FISAC CGIL di
Banca e Gruppo Monte dei Paschi di Siena

Il Direttivo di Coordinamento Fisac CGIL della Banca e del Gruppo MPS, riunitosi a Roma il 5/8/2019, in relazione ai provvedimenti in corso di emanazione da parte del Governo sui temi dell’autonomia differenziata e della sicurezza, esprime netta contrarietà e ritiene non più rinviabile la prosecuzione della mobilitazione della CGIL a difesa della Costituzione, dell’unitarietà dei diritti fondamentali, dei diritti umani e della libertà di espressione del dissenso.

L’autonomia differenziata proposta in applicazione dell’art.116 della Costituzione, altro non è che un processo di frantumazione economica e sociale di un paese, l’Italia, che invece ha bisogno di provvedimenti che vadano in direzione opposta.

La CGIL ha affrontato il tema fin dal 2017. Le ricadute su lavoratrici e lavoratori saranno pesantissime in termini di aumento delle diseguaglianze nella esigibilità dei diritti fondamentali che già oggi spesso faticano ad affermarsi: sanità, istruzione, salario, lavoro, salute e sicurezza sul lavoro, governo del territorio, protezione civile sono solo alcuni dei 23 temi su cui l’autonomia differenziata può agire peggiorando le condizioni complessive di tutti.

E’ invece necessario dare attuazione ai principi fondamentali della Costituzione, come la definizione di norme quadro, di livelli essenziali delle prestazioni (LEP), di politiche nazionali che riducano i divari esistenti, di una politica contributiva progressiva ed effettivamente applicata a tutti e, ultimo non in ordine di importanza, del mantenimento del sistema perequativo.

In linea con le prese di posizione della CGIL, la Fisac CGIL della Banca e del Gruppo MPS ritiene pertanto inaccettabile qualunque impostazione che si ponga agli antipodi della solidarietà e dell’uguaglianza.

Il decreto sicurezza bis, invece, conferma il suo impianto persecutorio nei confronti dei diritti umani e della libertà di espressione del dissenso.

Sui temi dell’autonomia differenziata e della sicurezza si ritiene necessario debbano essere coinvolte le Lavoratrici ed i Lavoratori in un percorso di consapevolezza dei rischi e delle ricadute, auspicando la definizione a breve della mobilitazione di tutto il mondo del lavoro.

Forte e chiaro è quindi il NO della Fisac CGIL della Banca e del Gruppo MPS alla violazione dei diritti umani, alla negazione della libertà di espressione del dissenso, alla frammentazione dei diritti Costituzionali indisponibili quali ad esempio lavoro, sanità, istruzione, ambiente.

Roma, 5/8/2019

Approvato all’unanimità




Perchè il salario minimo orario può essere dannoso

Improvvisamente la politica sembra essersi accorti dei cosidetti “working poors” : persone che pur lavorando guadagnano troppo poco per vivere in modo dignitoso. In Italia sono circa il 12% dei lavoratori.
Se n’è accorto il Movimento 5 Stelle, che in realtà il problema lo ha sempre posto, ma che rischia di affrontarlo con il dilettantismo e l’approssimazione che lo contraddistingue, finendo col fare ulteriori danni.
Se n’è accorto il PD, che pure fra Jobs Act, Decreto Poletti e norme varie a favore della precarizzazione, tanto ha fatto per aumentare il numero dei working poors.
Entrambi i partiti, in modo differente, sembrano aver trovato la formula magica che potrebbe risolvere tutti i problemi: il salario minimo orario.
Ma è davvero questa la soluzione giusta?

In realtà, una forma di salario minimo in Italia esiste già, e trae origine dall’art. 36 della costituzione:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Come si fa a quantificare la retribuzione in modo che sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro? La giurisprudenza ha un orientamento preciso: quando il lavoratore si rivolge al Giudice del Lavoro, quasi sempre il magistrato prende come base di riferimento il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore e stabilisce che uno stipendio inferiore a quello previsto nel contratto è illegittimo.
In questo caso l’azienda, oltre a dover risarcire il lavoratore, si troverà anche accusata di evasione contributiva, avendo versato contributi previdenziali calcolati su un importo inferiore al dovuto.

Messa così, la questione sembrerebbe risolvibile con facilità. Tutti i settori sono regolati da Contratti Collettivi, anzi ce ne sono pure troppi (il CNEL ne conta circa 370). Basta applicarli a tutti i lavoratori interessati e il problema è risolto. Giusto?

Purtroppo le cose non sono cosi semplici.

Uno dei problemi irrisolti da oltre 70 anni nella politica italiana è che non è mai stata data attuazione all’ Art. 39 della Costituzione, che disciplina l’attività dei sindacati. Senza entrare troppo in tecnicismi, la norma prevede che i contratti stipulati dai sindacati abbiano validità per tutti i lavoratori del settore (erga omnes), ma questo poteva succedere solo dopo aver emanato delle norme specifiche. Dal 1948 ad oggi questo non è stato fatto.

A causa della mancata emanazione di queste norma, c’è una conseguenza che potrà apparire sorprendente per molti: i contratti collettivi non valgono per tutti i lavoratori, ma solo per gli iscritti alle Organizzazioni Sindacali che li hanno firmati.
Ovviamente questo contrasta con il criterio della parità di trattamento dei lavoratori, quindi le aziende ovviano a questa problema inserendo, nelle lettere di assunzione individuale, il rimando al contratto collettivo di categoria.

Il problema è che anche le aziende sono iscritte ad Organizzazioni Sindacali: sono ad esempio Organizzazioni Sindacali Confindustria o, per restare nel nostro settore, ABI o Federcasse.
Ogni azienda è libera di decidere se essere o meno iscritta ad un’Associazione di Categoria: se non lo fa, o magari decide di uscirne dopo essere stata iscritta, il Contratto Collettivo Nazionale non per lei ha alcun valore.
Potrà eventualmente sottoscrivere, con i Sindacati più rappresentativi in azienda, un suo Contratto Collettivo che sarà l’unico a regolamentare i rapporti di lavoro: è quello che fece la FIAT nel 2011 quando uscì da Confindustria e si fece approvare un suo contratto aziendale, emarginando la FIOM/CGIL che rifiutò di prestarsi all’operazione.

L’attuale quadro normativo si presta ad abusi: un’azienda o un gruppo di aziende possono costituire una loro Organizzazione di Categoria, scriversi un loro Contratto Collettivo e farselo approvare da Sindacati di comodo appositamente costituti. Un comportamento del genere è formalmente legittimo, ma di fatto rappresenta un aggiramento fraudolento delle norme, dando vita al fenomeno dei “contratti pirata“. Nel nostro settore è quello che si è verificato nel comparto dell’appalto assicurativo.

Restando nell’ambito dei comportamenti al limite tra legalità e illegalità , in Italia esistono migliaia di micro imprese, senza rappresentanza sindacale tra i lavoratori, che semplicemente scelgono di non aderire a nessuna Associazione di Categoria, quindi non hanno nessun obbligo di applicare Contratti Collettivi e possono decidere in modo unilaterale quanto pagare i dipendenti.
I lavoratori possono rivolgersi al Giudice del Lavoro per chiedere, in base all’Art. 36 della Costituzione, di adeguare la loro retribuzione al salario minimo previsto dal Contratto Nazionale di settore, avendo la ragionevole certezza di vincere la causa, ma con il timore di dover poi subire future ritorsioni in aziende che, per le loro dimensioni, possono licenziarli con estrema facilità.
Non è un caso se, spesso, queste aziende che pagano stipendi inferiori al dovuto si adeguano invece alla contribuzione previdenziale prevista dai contratti: qualora venissero trascinate in tribunale avrebbero così evitato l’accusa, più grave, di evasione contributiva.

Questo è il quadro attuale: una situazione in cui è possibile – in modo più o meno lecito – per le aziende negare i diritti ai lavoratori: bisogna infatti considerare che un contratto collettivo prevede anche tutele che vanno oltre lo stipendio, e che ovviamente vengono a loro volta perse in caso di disapplicazione del contratto stesso.
Porre rimedio a questa situazione è assolutamente necessario oltre che doveroso, visto che esiste un pezzo importante della nostra Costituzione che da oltre 70 anni aspetta di essere applicato. La domanda da porsi è:
il salario minimo orario è la soluzione giusta?

Così come è stato prospettato sicuramente no. Vediamo perché.

  • Un eventuale salario di base non può essere uguale per tutti
    Se esistono tanti contratti collettivi (magari anche troppi) c’è un motivo ben preciso: ogni settore ha le sue esigenze e le sue peculiarità. Nel decidere quale dev’essere la giusta retribuzione non si può trascurare la differente produttività del lavoro nei vari comparti.
    La contrattazione tra le parti, che conoscono dettagliatamente ogni aspetto delle aziende, potrà portare a risultati a volte imperfetti ma rappresenta il miglior compromesso possibile tra le esigenze del datore di lavoro e del lavoratore.
    Un intervento del legislatore, che fissi un livello minimo reddituale uguale per tutti, comporterebbe l’azzeramento di anni di esperienze e contrattazione, sostituendosi in modo del tutto arbitrario alle parti e fissando importi che non hanno nessun riscontro nelle specifiche aziende.
    Un salario minimo uguale per tutti si rivelerebbe troppo alto in alcune realtà, troppo basso in altre.
  • Il salario di base non può essere troppo basso
    Abbiamo visto come i Contratti Collettivi vincolino solo le aziende iscritte ad Associazioni di Categoria firmatarie degli stessi. Un salario minimo orario inferiore alla maggior parte dei minimi tabellari previsti dai vari Contratti Collettivi metterebbe le aziende nella condizione di avere convenienza ad uscire dalle Associazioni Datoriali, non applicare più i contratti e pagare meno i propri dipendenti.
    L’effetto di una soglia troppo bassa sarebbe devastante: a fronte di un aumento di stipendio per chi oggi prende troppo poco, ci sarebbero milioni di lavoratori che vedrebbero ridursi il loro salario, ma soprattutto diritti e tutele conquistati in decenni di lotte sindacali.
  • Il salario di base non può essere troppo alto
    E’ fin troppo facile promettere un salario minimo orario superiore alla maggior parte dei Contratti Collettivi, come stanno facendo sia i 5 Stelle, sia il PD. Come abbiamo visto, le attività economiche non sono tutte uguali e il valore reale di una singola ora di lavoro può essere molto diverso a seconda delle aziende. Fissare un minimo di legge troppo alto potrebbe spingere molte aziende ad applicare, obtorto collo, i Contratti Collettivi, e questo sarebbe un aspetto positivo.
    Ma costituirebbe anche un forte incentivo verso il lavoro nero, fenomeno che questo governo, come quelli che lo hanno preceduto, non sembra particolarmente determinato a contrastare.
    Ancora una volta il rischio concreto è quello di ridurre i diritti dei lavoratori, in modo particolare di quelli più deboli, impiegati presso micro imprese che maggiormente possono ricattarli.
  • Non basta l’aumento di salario
    Il diritto ad una retribuzione dignitosa è sancito in Costituzione, quindi dev’essere assolutamente reso esigibile. Un Contratto Collettivo prevede però tanti altri diritti: tutela chi si ammala, tutela le mamme, tutela chi ha familiari infermi da accudire.
    Che senso ha dare qualche euro in più ai lavoratori, se poi devono vivere con il terrore di non potersi ammalare per non perdere il posto di lavoro?

Evidentemente la proposta del salario minimo di legge, sicuramente utile per prendere voti, non rappresenta invece la situazione di un problema che, ricordiamolo, nasce dall’inerzia della politica che da 71 anni non è riuscita a dare attuazione a quanto previsto dalla Costituzione in materia di rappresentanza sindacale.
Questo chi ci governa lo sa (o almeno dovrebbe saperlo) ma non lo dice mai.

Se si vuole procedere con il salario minimo orario, bisogna farlo come proposto dalla CGIL: facendo coincidere il salario minimo di ogni categoria con i minimi previsti dal Contratti Collettivi di settore.
Sarebbe un primo passo verso quello che dev’essere l’obiettivo da raggiungere, ossia l’estensione a tutti i lavoratori delle tutele previste dalla contrattazione collettiva.

Un dovere al quale da troppo tempo la politica si sottrae.

 

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