Modulistica “ufficiale” e appunti manoscritti

Qualunque banca o assicurazione dispone di una propria modulistica – ad esempio i fogli informativi – che illustrano alla clientela i diversi prodotti.

In certi casi, si tratta di prospetti di una qualche complessità e spessore, che a certi clienti possono sembrare prolissi e poco chiari.

Di fronte a questa situazione, al solo scopo di agevolare il cliente, qualche lavoratore prova a mettere su carta gli aspetti salienti del prodotto.  Ma scrivendo questi appunti, opera una sintesi, certamente soggettiva e forse arbitraria, del foglio informativo.

L’arbitrarietà diventa più evidente quando si vogliono accentuare certi aspetti positivi del prodotto, quando si danno indicazioni parziali che tacciono alcuni aspetti importanti ma che potrebbero risultare sgraditi al cliente.

Alla fine, si rischia di mettere in mano al cliente un documento che risulta riconducibile alla banca o all’assicurazione, ma è privo di ogni ufficialità e in parte si contraddice con la modulistica diffusa dall’azienda.  Il cliente potrà usare quegli appunti per sostenere un comportamento della banca o dell’assicurazione contrario alla buona fede nelle trattative contrattuali, a fronte di risultati inferiori rispetto a quelli che sembravano realistici da quanto prospettato su un foglio che sembrava del tutto innocuo e non impegnativo.

Inevitabile è il rischio di sanzioni disciplinari per il lavoratore che ha scritto e consegnato scritti di tale genere.


Articolo ad integrazione della nostra guida alle responsabilità disciplinari e patrimoniali:

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Alberto Massaia – Corinna Mangogna
Consulta Giuridica Fisac/Cgil




Pressioni commerciali e stress lavoro-correlato

In Francia una sentenza che farà la storia ha, per la prima volta, sancito la punibilità della fattispecie di “molestie morali istituzionali”: un sistema messo in piedi, tra il 2007 e il 2010, da France Telecom e da alcuni suoi dirigenti (tra cui l’ex AD Didier Lombard) per spingere i dipendenti a dimettersi, peggiorando sistematicamente le loro condizioni di lavoro. Secondo la sentenza, queste condotte consapevolmente vessatorie hanno concausato, in alcuni casi, (fino al 2008) il suicidio di alcuni dipendenti, che lasciarono spesso messaggi di addio contenenti pesanti accuse verso la società. L’AD è stato condannato ad un anno di reclusione, la società a pagare una multa di 75.000 euro, più risarcimenti milionari a circa 150 dipendenti o loro famiglie, costituitesi parte civile.

Le vessazioni poste in essere nel caso France Telecom configuravano un vero e proprio mobbing di massa, un caso limite. Tuttavia non sono i fenomeni estremi che segnano un trend, ma quelli “normali”, che si riproducono su grande scala. E il trend, specie nelle banche, è quello di un elevato e crescente livello medio di stress, imputabile prevalentemente ad una combinazione di due fattori, presenti contemporaneamente: una organizzazione dei fattori di produzione e del lavoro inefficiente, ed una eccessiva pressione commerciale.

Una ricerca commissionata dalla Fisac Cgil in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma ha indicato che il 28% dei lavoratori bancari fa uso di psicofarmaci. In pratica, più di un lavoratore su quattro. I dati del 2015- 2016 del centro di Medicina del lavoro di Pisa raccontano che, tra le persone visitate, i bancari sono secondi in quanto a stress solo a chi lavora nella grande distribuzione. L’indagine realizzata da Università e sindacato entra nel dettaglio: l’84% dei bancari sentiti vive una condizione di disagio, l’82% soffre di ansia se non raggiunge gli obiettivi aziendali perché teme un demansionamento o un trasferimento, il 59% non riesce ad adattarsi ai continui cambiamenti, l’84% è a disagio ogni volta che consiglia un prodotto inserito nel proprio budget, il 63% ritiene moralmente ingiuste le continue richieste di vendere prodotti.

Lo stress lavoro-correlato è stato definito nell’accordo di Bruxelles 8/8/2004,  recepito in Italia nel 2008 da un Accordo Interconfederale, come una situazione di prolungata tensione, che può essere causata da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’ inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, etc. e che può portare a ridurre l’efficienza sul lavoro e a determinare un cattivo stato di salute.

In termini civilistici, l’incidenza dello stress negativo sul contratto di lavoro deriva dalla violazione dell’art.2087 del codice civile.
Tale norma cardine, da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo non si limita al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma obbliga l’azienda ad astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta e “istituzionalizzata” dalla Corte di Cassazione con la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 c.c. (cfr. Cassazione, 8827 e 8828/2003), si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori, preposti o altri dipendenti nello svolgimento dell’attività lavorativa.
La legislazione della sicurezza (T.U. 81/2008, art. 2, lett. o), nella definizione di salute (mutuata dall’OMS che l’ha elaborata fin dal 1948), parla di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità”.

Il danno derivante da stress correlato al lavoro è inquadrato dalla giurisprudenza nella categoria del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale (art.2059 c.c.) è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, vale a dire (cfr. Cassazione 7471/2012) al ricorrere di una delle seguenti condizioni:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (art.185 c.p.)
  • quando la legge prevede espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale (ad esempio, nel caso siano state usate modalità illecite per la raccolta dei dati personali, ex art.29 comma 9 legge 675/96 per violazione art.9 stessa legge)
  • quando l’illecito ha violato diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, che quindi, non essendo ex ante individuati dalla legge ordinaria, dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (cfr. Cassazione, sentenze 8827 e 8828 del 2003).

Appare quindi evidente come il danno da stress correlato al lavoro possa essere riconosciuto come risarcibile prevalentemente attraverso l’avverarsi della terza condizione, vale a dire la produzione giurisprudenziale. Infatti non è detto che la condotta che genera elevato stress possa anche essere configurata come reato, né risultano norme in cui la legge ordinaria dichiara espressamente risarcibile un danno da stress. Di conseguenza, è attraverso le sentenze dei giudici che le maglie della tutela della salute, intesa nella sua definizione più completa, possono allargarsi fino a ricomprendere quelle ipotesi in cui il danno da stress correlato al lavoro viene dichiarato risarcibile in quanto la condotta illecita lede diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale (fonte sovraordinata).

In conclusione, il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno da stress correlato al lavoro presuppone il ricorrere di tre elementi:

a)una condotta illecita del datore di lavoro

b)un danno medicalmente accertabile

c)un nesso di causalità, o concausalità, tra la condotta illecita e il danno

  1. a) mentre mobbing e straining in termini giuridici sono declinate come esercizio di molestie e minacce di uno o più soggetti fisici specifici verso altri, lo stress lavoro-correlato si attaglia maggiormente, come categoria, alle situazioni di fatto presenti in molte aziende bancarie, dove è l’organizzazione complessiva del lavoro, con il suo miscuglio di inefficienza e pressione commerciale eccessiva, a generare una situazione di tensione “ambientale”. Sotto questo aspetto la norma cardine, da tenere presente ai fini della risarcibilità del danno (posto che le fattispecie inquadrabili come reati sono residuali e da considerare extrema ratio), è l’art.2087 del codice civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In questo modo l’ “imputato” è l’azienda, non singoli esponenti della stessa.

 

  1. b) i danni che la medicina del lavoro e la psichiatria riconoscono come direttamente collegabili a situazioni di elevato e persistente stress lavorativo sono vari: infarto, patologie autoimmuni, patologie psichiche, disturbi dell’adattamento, sindrome ansioso-depressiva. A questi responsi attingono ormai molti giudici per asseverare l’accertabilità medica del rapporto stress-danno alla salute.

 

  1. c) proprio in quanto il danno da stress lavoro-correlato è riferibile ad un contesto organizzativo “patogeno”, piuttosto che a singoli comportamenti ascrivibili a singoli individui, appare quanto mai appropriata la definizione in massima della sentenza della Corte d’appello de L’Aquila del 9 gennaio 2003: “ritenere il datore di lavoro responsabile della malattia ex articolo 2087 cod. civ. per mancata adozione delle misure idonee a preservare l’integrità psicofisica del dipendente, in quanto sia individuabile una responsabilità dell’imprenditore nel determinismo dello stress, conseguente alla violazione di un obbligo su di lui gravante e scaturente dal rapporto di lavoro”.

 

A cura della Consulta Giuridica Fisac/Cgil

 

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Piani industriali e trasferimenti

Come dipartimento giuridico Fisac/Cgil desideriamo puntualizzare un paio di cose in relazione ai trasferimenti – e ai relativi preavvisi – che si verificano durante l’esecuzione dei piani industriali.
Infatti succede che, durante l’esecuzione dei piani industriali, i trasferimenti siano numerosi in un breve lasso di tempo, e spesso le aziende utilizzino questa circostanza come giustificazione per non rispettare le disposizioni che riguardano i trasferimenti e i relativi preavvisi.

Per quanto riguarda i trasferimenti, ricordiamo che il trasferimento è efficace solamente se avviene con comunicazione scritta.
Quindi fino a che la comunicazione non è scritta, il trasferimento non è efficace.

Quanto al preavviso di trasferimento, esso riguarda sia i Quadri Direttivi sia le Aree Professionali.
Per quanto riguarda i Quadri Direttivi il preavviso deve essere almeno di 45 giorni di calendario qualora il Quadro Direttivo abbia familiari a carico, almeno 30 giorni di calendario qualora non abbia familiari a carico.
Qualora invece il dipendente sia un’Area Professionale il preavviso è di 30 giorni di calendario qualora il trasferimento sia a più 30 Km dalla residenza, di 15 giorni di calendario qualora il trasferimento sia a meno di 15 Km dalla residenza.

L’indennità di mancato preavviso consiste in una diaria.
L’allegato al CCNL permette di verificare l’importo delle diarie che sono variabili e crescenti al crescere del numero di abitanti del centro abitato nel quale si trova la nuova unità produttiva (quella del trasferimento).

L’indennità di mancato preavviso corrisponde a questa diaria, da moltiplicare per il numero di giorni di mancato preavviso. A nostro avviso è richiedibile sia nei confronti del mancato preavviso ad un Quadro Direttivo, sia nei confronti del mancato preavviso ad un’Area Professionale, nonostante nell’ultimo CCNL la disposizione di “sanzione” iscritta sia prevista solamente all’interno dell’articolato relativo ai Quadri Direttivi.
Ciò in quanto l’indennità di mancato preavviso è prevista per il mancato preavviso; e siccome il preavviso è previsto anche per le Aree Professionali, a nostro avviso non sussistono ragioni valide per non poterlo esigere anche nei confronti delle Aree Professionali.

Raccomandiamo quindi a tutti i dipendenti di far valere questi loro diritti, anche perchè il riconoscimento dei diritti passa anche attraverso le azioni per esigerli.

 

Nicola Cavallini
Consulta Giuridica Nazionale Fisac/Cgil

 

 




Ancora classifiche tra i lavoratori. Anche la giurisprudenza se ne occupa

La fantasia nell’inventare concorsi e classifiche non ha limiti, ma ci sono dei limiti di legge (Garante della Privacy, provvedimento n. 500 del 2018).

Una cooperativa di servizi bandisce un concorso a premi fra i propri soci lavoratori, dal titolo “Mettiamoci la faccia… Soci!”, concorso che frutta un premio in denaro ai primi 3 classificati. La partecipazione è obbligatoria per tutti i soci; non solo, i medesimi devono anche autotassarsi, con una trattenuta egualmente obbligatoria di 30 euro mensili, per finanziare il concorso.

I soci lavoratori vengono costantemente informati dall’andamento del concorso, per mezzo di una tabella affissa nella bacheca aziendale, visibile dai soci, dai dipendenti della cooperativa ed anche dai terzi che accedono agli uffici. La tabella riporta per ciascun socio lavoratore: nome, cognome, fotografia, faccina che esprime il giudizio sintetico – attribuito settimanalmente dall’amministrazione della cooperativa – ed anche le assenze di qualunque genere e le sanzioni disciplinari.

Alcuni lavoratori presentano ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, ritenendo che l’intera vicenda sia vessatoria e crei un continuo disagio per il fatto di essere pubblicamente giudicati.

Il Garante si è pronunciato con il provvedimento n. 500 del 21 dicembre 2018. In primo luogo ha rilevato come il consenso al trattamento dei dati personali ottenuto con tali modalità – partecipazione obbligatoria al concorso e trattenuta obbligatoria – non fosse idoneo a legittimare il trattamento di dati personali, vista la sproporzione dei rapporti di forza esistenti fra l’impresa e i singoli lavoratori.

Inoltre, il Garante ha rilevato come l’impresa abbia il diritto di trattare le informazioni riguardanti i rapporti di lavoro, ma non abbia il diritto di diffonderle mediante affissione su una bacheca visibile a tutti gli altri dipendenti e anche a terzi. Tali modalità non sono adeguate né pertinenti rispetto ai presunti scopi dichiarati dalla cooperativa – l’incentivazione dei soci al raggiungimento degli obiettivi di qualità ed efficienza – ma anzi, sono lesivi della dignità personale, della libertà e della riservatezza dei lavoratori e come tali sono pertanto illeciti e vietati.

Di certo si tratta di un caso estremo – i lavoratori erano obbligati a pagare per essere sbeffeggiati sulla bacheca aziendale – e per fortuna fatti del genere non sono mai avvenuti in ambito bancario. Ma il concetto giuridico è chiaro e applicabile in qualunque ambiente di lavoro: è vietato utilizzare dati personali dei lavoratori per realizzare una classifica pubblica di “buoni” e “cattivi” lavoratori.

Nel settore del credito, l’ABI e le Organizzazioni Sindacali hanno firmato l’8 febbraio 2017 l’Accordo nazionale per le politiche commerciali e organizzazione del lavoro.

Tale accordo, fra l’altro, ha stabilito che le comunicazioni aziendali ed altresì il monitoraggio degli andamenti commerciali, siano improntate al rispetto della normativa vigente, senza indebite pressioni e senza messaggi fuorvianti o vessatori nei confronti dei lavoratori o lesivi della loro dignità e professionalità. Inoltre, ha stabilito che il riscontro al personale circa il posizionamento rispetto agli obiettivi assegnati avvenga attraverso appositi strumenti aziendali evitando gli abusi, l’eccessiva frequenza e le inutili ripetizioni.

L’accordo del 2017 fissa quindi una serie di tutele per i lavoratori, allineate alla normativa sulla privacy ed ai principi identificati dal Garante per la protezione dei dati personali. E per rafforzare ulteriormente le tutele, le Organizzazioni Sindacali, nella piattaforma presentata a marzo 2019 per il rinnovo contrattuale, hanno richiesto che le tutele individuali e collettive previste nell’accordo vengano ricondotte all’articolato del contratto nazionale del credito.

 

Alberto Massaia 

Consulta Giuridica Fisac/Cgil




Sotto pressione: ovvero, come vendere senza farsi male

La pressione a vendere è uno degli elementi che caratterizzano la giornata del lavoratore bancario. In alcune aziende la pressione assume ormai le dimensioni di un imperativo ossessivo, crescente in proporzione alla diminuzione della forbice tassi, che spinge i CdA e i grandi azionisti a trovare nei prodotti ad alte commissioni quei guadagni non più realizzabili con la differenza tra i tassi attivi e quelli passivi. Assumere in maniera acritica come propri questi obiettivi nel nome di una rapida carriera può essere molto rischioso.

In un prossimo approfondimento parleremo dello stress correlato al lavoro, frutto quasi sempre dell’aumento della pressione commerciale. In questo daremo qualche suggerimento su come vendere “bene” anche sotto pressione.

Rispetta la MIFID

Tenere alla propria azienda significa anzitutto tenere alla sua solidità nel tempo. La vendita massiva alla clientela di prodotti ad alto rischio, o illiquidi, ha causato negli ultimi anni grandi problemi di solidità, nel senso che ha aggravato situazioni aziendali già difficili. Alcune aziende sono state sottoposte a risoluzione (una specie di liquidazione coatta “soffice”), altre sono state acquisite ad un euro. In entrambi i casi, i clienti (azionisti e obbligazionisti subordinati) hanno subito l’azzeramento del valore dei loro investimenti. Molti colleghi di queste aziende sono attualmente coinvolti in processi per truffa, vendita fraudolenta, e in ogni caso, a prescindere dall’accertamento di reati, rischiano di dover pagare danni in sede civile.

Esiste un modo per evitare di essere coinvolti in questo genere di problemi: rispettare la Mifid, e di conseguenza i propri clienti. Rispettare la Mifid ha una duplice declinazione:

  • Anzitutto, compilare la profilatura rispettando con scrupolo le notizie apprese dal colloquio con il cliente. Banalmente, non scrivere che è laureato se ha la terza media; non scrivere che sa cosa è un fondo comune se non lo sa. Non badare ai suggerimenti pelosi di qualche area manager su come proporre le domande in modo da poter compilare in maniera suggestiva le risposte.
    Profilare il rischio di un cliente in maniera ingannevole e falsa è la premessa di ogni abuso, e la fonte di ogni guaio.
  • Acquistare i prodotti adeguati al profilo di rischio di quel cliente, compreso l’equa proporzione tra prodotti. Se il profilo di rischio scaturito da una corretta compilazione è basso, non vendete una unit linked o un’azione a quella persona. Non fingete, a quel punto, che sia il cliente spontaneamente a voler fare quell’operazione, in modo da far passare in maniera surrettizia come modalità “execution only” quella che è una vostra forzatura(cfr. anche approfondimento Mifid II in Consulta Giuridica Nazionale Fisac).

 

Non fare credito per far sottoscrivere prodotti finanziari

Secondo la Corte di Cassazione (sez. Civile, sentenza n.19559 del 30/09/15), investire e indebitarsi è una prassi molto sospetta, non solo quando il prodotto prevede come requisito contrattuale un indebitamento (come il famigerato 4You di Banca 121), ma anche quando le operazioni di indebitamento e investimento sono separate ma contestuali.

Il nuovo art. 2358 c.c. dice che “la società non può, direttamente o indirettamente (ad es. attraverso una controllata) accordare prestiti né fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni”, se non attraverso una previa autorizzazione dell’assemblea straordinaria.

Si tratta delle cosiddette “operazioni baciate”, per cui determinati titoli sono acquistati grazie alla provvista fornita a credito dalla stessa banca, e poi magari posti a garanzia del credito stesso. Al riguardo, tieni presente che il fatto di non avere deliberato in autonomia quel credito non scrimina dal rischio di poter essere chiamati in causa in termini di concorso in un reato di truffa, oppure di formazione fittizia di capitale (se sei per caso anche amministratore o socio conferente). In ogni caso, se l’operazione è riconosciuta come rientrante nella fattispecie della “baciata” la stessa è nulla, a partire dall’affidamento, per cui il cliente non deve restituire niente alla banca. Se per caso ti senti un aziendalista, questo è il peggior servizio che puoi rendere alla tua azienda.

 

Rispetta il senso autentico della parola “budget”

Budget è forse il vocabolo più utilizzato nel gergo bancario. Mai un significato è stato maggiormente travisato: infatti “budget” non significa “obiettivo”, che è ciò per cui viene sostanzialmente spacciato. “Budget” significa “bilancio preventivo”, oppure “mezzi a disposizione” o al limite “programma”, mentre l’obiettivo si traduce come “target”. Non sembri banale l’affermazione: non vi è nulla di ansiogeno nell’avere un programma di lavoro, anzi, la programmazione è fondamentale per impostare al meglio un’attività. Ciò che fa male alla qualità del lavoro e della vita in azienda è la trasformazione del budget, che è un mezzo, nel fine ultimo e totalizzante del proprio agire commerciale. In un maldestro adattamento pseudo machiavellico, si arriva a scambiare il mezzo con il fine. Normalmente (purtroppo) la perversione del senso è alimentata o tollerata dalle aziende bancarie, che lo fanno veicolare in maniera subdola e poco trasparente dai propri quadri intermedi più zelanti. Che tu sia un impiegato o un quadro, sappi che il budget è uno strumento di lavoro, non il fine ultimo della tua attività. Non è questa la sede per approfondire il problema dell’impostazione aziendale (peraltro accennata in premessa) che porta al cosiddetto “mal di budget”, una delle principali fonti di stress da lavoro correlato. In questa sede teniamo a metterti in guardia dalla smania del risultato ad ogni costo: sappi che, in caso di abuso, non troverai un’azienda disposta a proteggerti in nome del fatto che hai “venduto tanto”.

Per quanto sia difficile lavorare in un ambiente a pressione crescente, la capacità di gestire questa pressione è un elemento di autotutela contro i rischi, anche personali, in cui può incappare un “venditore senza scrupoli”.

 

A cura Dipartimento Giuridico Nazionale Fisac/Cgil




Il questionario Mifid II: consigli pratici della FISAC per lavorare tranquilli

Premessa

Questa non sarà una dissertazione teorica su Mifid II. Non ti servirebbe come strumento di lavoro. Sappiamo come lavori in filiale, con quali ritmi, con quali difficoltà e con quali pressioni. Vuole essere invece un piccolo vademecum per evitarti di cadere in trappole travestite da opportunità commerciali. Ricorda che il budget è uno strumento per pianificare l’attività commerciale; per questo motivo cambia continuamente e viene sostituito da un altro. Il budget quindi è solo una parte del tuo lavoro, che è anche molto altro. Il budget passa, il tuo lavoro deve restare. Il tuo lavoro è la tua fonte di reddito e lo strumento dell’affermazione della tua dignità professionale e personale, e questo è più importante di qualunque budget. 

 

Compilazione del questionario

Dati anagrafici: non mi soffermerò troppo su questa sezione. Compilare male questa parte del questionario è un genere di “furbizia” dalla vita brevissima, che serve esclusivamente a complicarti la vita. Se un cliente è anziano, rispetta la sua anzianità. Se un cliente è diplomato, non scrivere che è laureato.

Obiettivo dell’investimento: il tuo cliente va edotto immediatamente del rapporto che esiste tra rischio e rendimento. Più è disposto a rischiare di perdere valore, almeno sul medio periodo, più aumenta la probabilità che, sempre sul medio periodo, possa ottenere buoni rendimenti. In questo rapporto è fondamentale il fattore tempo. Il cliente infatti deve potersi dare il tempo di recuperare una eventuale perdita sul suo capitale iniziale. Diversamente, il rapporto tra rischio e rendimento rimane su un piano puramente astratto.

Un esempio: se il tuo cliente dichiara la finalità di incrementare il capitale investito in maniera “molto consistente”, e dichiara altresì di essere disposto, in cambio, a sopportare perdite anche superiori al 10% del capitale, non è coerente con queste affermazioni che si proponga di raggiungere questo scopo (domanda successiva del questionario) in un periodo breve (fino a 18 mesi), e nemmeno in un periodo medio (fino a 36 mesi). Delle due l’una: o accetta di darsi un tempo più lungo (almeno 60 mesi), oppure non è vero che il suo profilo di rischio è così elevato come dichiara. Quindi la sequenza delle risposte in questa sezione va considerata nel suo insieme, avendo come riferimento necessario il fattore tempo. Ciò significa mettere in relazione questa sezione anche con il dato anagrafico del cliente: se il tuo cliente ha 80 anni, è incongruente che possa darsi un limite temporale di 60 mesi oppure oltre per recuperare perdite eventuali e realizzare alti guadagni. Il suo profilo di rischio non può prescindere dalla sua età.

Ciò, in estrema sintesi, significa mettere al centro del questionario il cliente. Se si adotta questo approccio, le risposte saranno coerenti tra loro. Se si ha in mente il prodotto da collocargli, l’incoerenza è sempre in agguato.

Conoscenza ed esperienza: qui bisogna partire da un assunto: se il tuo cliente non conosce un tipo di prodotto, non lo conosce, punto. Questa è la risposta che va scritta nel questionario. Dipenderà dalle tue capacità illustrarglielo affinché, in futuro, possa padroneggiarne le caratteristiche basilari. Ma se quando compili il questionario non lo conosce (ad esempio, non sa cosa è una Unit Linked) non devi scrivere al suo posto la risposta: non lo conosce e basta. Questo è lo spartiacque tra i prodotti sui quali potrai fargli una consulenza (quelli che conosce) e i prodotti sui quali non potrai fargliela (quelli che non conosce), almeno per il momento.

La gamma di prodotti sui quali puoi fargli consulenza sarà sottoposta al vaglio dell’adeguatezza,  la quale altro non è che la corrispondenza del prodotto scelto alla sua profilatura. Se invece il cliente vuole in autonomia acquistare un prodotto che non conosce, la valutazione che verrà fatta è di appropriatezza,  che va espressamente confermata dal cliente qualora l’operazione risulti non appropriata (come spesso accadrebbe, nel caso di un prodotto che volesse sottoscrivere senza conoscerne le caratteristiche).

Prodotti illiquidi: in questa sezione la forzatura del questionario è sempre in agguato, perché l’accettazione del rischio di mantenere un prodotto illiquido per più di sei anni è la smagliatura attraverso la quale far passare come “adeguati” prodotti che non lo sono. Il tuo cliente deve essere ben consapevole che accettare di tenersi un prodotto dalle caratteristiche di spiccata illiquidità non è un’affermazione di poco conto, e va fatta con estrema consapevolezza. Va precisato che illiquidità non significa solo impossibilità di smobilizzo, ma elevata probabilità che uno smobilizzo a breve-medio termine comporti perdite di valore. E’ appena il caso di ricordare che alcune tra le più recenti casistiche di “tradimento” del risparmio hanno avuto a che fare con l’impossibilità di rivendere sul mercato prodotti della casa madre (azioni e obbligazioni). 

Prodotti finanziari-assicurativi: le banche esercitano molte pressioni finalizzate alla vendita di questo genere di prodotti, perché garantiscono un elevato ritorno di commissioni. La sezione nella quale il cliente dichiara quali esigenze ha e quali rischi vuole coprire sottoscrivendo prodotti “misti” va però compilata in maniera scrupolosa e scevra da ogni assillo di ordine commerciale. In altre parole: non pensare al prodotto che hai a budget, pensa a quello che ti dice il cliente. Se il cliente dice che vuole coprire un rischio ma non gli interessa investire somme per beneficiare un terzo o un erede, significa che la parte che gli interessa è la prima. Naturalmente questo non significa che tu non possa far emergere nel tuo cliente, attraverso un colloquio ben orientato, bisogni o esigenze di protezione che pensava di non avere. Ma questo deve avvenire in maniera trasparente e in ogni caso la risposta del cliente così come risulterà dal questionario deve riflettere la sua volontà, non i tuoi desideri. 

Infine una raccomandazione che può suonare banale, ma lo è solo per chi non conosce il nostro lavoro, nelle condizioni concrete in cui le aziende lo calano, in un contesto di estrema pressione volta al massimo risultato. Scorri il questionario Mifid in tutte le sue parti con estrema attenzione, prima di “chiuderlo”. Nulla infatti vieta di far sottoscrivere, in futuro, un questionario Mifid diverso nel momento in cui il cliente matura consapevolezze o esigenze nuove, ma, appunto, ciò normalmente è il frutto della maturazione di alcune consapevolezze o del mutare di alcune situazioni di fatto nel cliente, circostanze che normalmente richiedono il passaggio di un certo tempo. La giurisprudenza, sia “interna” (Arbitro Bancario Finanziario) che esterna (giudici), valuta invece con estremo sfavore la prassi di far succedere, in unità di tempo molto limitata (non parliamo solo di ore, ma di giorni), due questionari Mifid sottoscritti dal medesimo cliente sulla medesima posizione. Se poi al secondo questionario, opportunamente variato rispetto al primo in alcune risposte “chiave”, fa seguito la sottoscrizione pressoché immediata, o comunque contestuale in termini logici, di un prodotto che risulta adeguato sulla base del secondo questionario ma sarebbe stato inadeguato o addirittura inappropriato rispetto al primo, diventa molto difficile per il consulente dimostrare che la variazione non è stata operata appositamente allo scopo di arrivare a quel risultato commerciale. In questo caso si realizza una sorta di inversione di onere della prova: la condotta scorretta è in re ipsa, e spetta al dipendente dimostrare che la sottoscrizione di due questionari a breve distanza, seguiti dalla sottoscrizione di un certo prodotto, non integra una condotta deontologicamente scorretta. Ci sono alcune banche che pongono dei paletti interni di ordine procedurale, per cui un questionario Mifid, una volta chiuso, non può essere modificato/sostituito da un altro (salva l’ipotesi di mero errore materiale) prima di un certo tempo(es. 6 mesi). Ma alcune altre non fissano barriere interne, ed in tal caso il dipendente in autonomia deve muoversi nel rispetto delle regole deontologiche.

Approfondimento a cura di Nicola Cavallini per Consulta Giuridica Fisac – Cgil

Leggi anche: MIFID II: breve guida operativa per gli addetti del settore