Che lavoro! A 6 milioni di dipendenti 11mila € l’anno

Quasi 6 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 11 mila euro lordi all’anno. In pratica, un dipendente su tre porta a casa mediamente meno di 850 euro netti al mese. E se consideriamo la fascia che va fino a massimo 17 mila euro – quindi appena 1.200 netti mensili – contiamo altri due milioni di persone. Il tema del lavoro povero ha diverse sfaccettature. Negli ultimi mesi il dibattito si è concentrato sul problema del basso salario orario, ma questo non è l’unico e forse neppure il più grave. Ieri la Cgil ha diffuso nuove rielaborazioni di dati Inps nell’ambito della campagna contro il precariato lanciata nelle scorse settimane dal sindacato guidato da Maurizio Landini.

Il focus si concentra non sui salari orari ma sui redditi annui, che dipendono anche da quanto effettivamente le persone lavorano: per quanti mesi dell’anno o per quante ore alla settimana. Dai numeri emerge con chiarezza quello che nel nostro Paese sta comportando la sotto-occupazione, cioè l’eccesso di lavoretti, di part time involontario, di domanda di lavoro stagionale e a bassa specializzazione: un esercito di addetti con redditi insufficienti a una vita dignitosa. Ecco perché il motivo non è solo nei minimi salariali molto bassi di alcuni contratti collettivi, ma anche dalla scarsa intensità dei loro impieghi, molto discontinui.

Ricapitolando: oltre 2,4 milioni di lavoratori guadagnano meno di 5 mila euro annui. Di questi, 1,8 milioni – quindi la maggior parte – è retribuita per un periodo di massimo tre mesi. Ma attenzione perché abbiamo quasi 50 mila lavoratori che non superano i 5 mila euro pur essendo in servizio per tutto l’anno. Se estendiamo lo sguardo all’intera fascia sotto i 10 mila euro, abbiamo ben 324 mila persone che hanno guadagni sotto quella soglia pur essendo retribuiti per l’intero anno. Questo vuol dire che parliamo di persone che lavorano part time per tutto l’anno o che, pur avendo un full time, hanno stipendi miseri. Insomma, il lavoro povero è la sintesi di un misto di fattori: bassi salari e carriere spezzettate. Entrambi gli elementi sono ignorati dal governo, che ha deciso di non introdurre il salario minimo per legge e ha approvato nell’ultimo anno e mezzo una serie di provvedimenti che incentivano ulteriormente l’utilizzo di contratti precari da parte delle imprese. C’è sicuramente, sullo sfondo di questi numeri, pure l’effetto del lavoro irregolare, ma questo è difficile da quantificare e comunque non sminuisce il problema.

Il confronto tra Italia ed Europa resta impietoso. Da noi un dipendente a tempo pieno guadagna in media 31.500 euro all’anno, contro i 45.500 della Germania e i 41.700 della Francia. Se consideriamo i quasi 17 milioni di dipendenti italiani, la retribuzione media è di 22.839 euro lordi all’anno. Tra questi abbiamo 7,9 milioni di dipendenti discontinui e 2,2 milioni di part time per tutto l’anno. Tutti questi dati si riferiscono all’ultimo aggiornamento disponibile, del 2022. “La situazione non è certo migliorata nel 2023 – aggiunge Christian Ferrari, segretario confederale Cgil – anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%, cumulandosi con quella dei due anni precedenti, raggiungendo un totale del 17,3%”.

Di fronte a questo scenario che spiega la scarsa solidità del nostro mercato del lavoro, il governo continua a rallegrarsi dei dati sull’occupazione. La ministra del Lavoro Marina Calderone parla di numeri “confortanti” e sventola continuamente i dati sulle assunzioni previste dalle imprese, ma come al solito si ignora la qualità di questi posti: secondo lo stesso bollettino Anpal-UnionCamere, che pure è una fonte molto cara a Calderone, a febbraio le imprese prevedevano quasi 408 mila entrate, ma solo il 20% a tempo indeterminato, più un altro 5% in apprendistato. Ben il 52% è a tempo determinato, un altro 10% in somministrazione, un altro 9% ancora con contratti di collaborazione.

Sono le forme contrattuali che contribuiscono a formare il precariato e a determinare i bassi redditi.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 17 marzo 2024




L’ennesima prova: i giovani vogliono lavorare, non essere schiavi

Il caporalato dilaga anche dove non te lo aspetti. Come ad esempio alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama.

Gravissimi i capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti del gruppo. Le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. E pensare che solo qualche anno fa quella stessa azienda lamentava che non c’erano giovani a voler fare i turni. Di sicuro non volevano fare gli schiavi.

 


 

Il caporalato dilaga. Lascia il lavoro nei campi al quale più spesso è associato per scrivere l’ennesima pagina di sfruttamento là dove non te lo aspetti, alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama. Contenuti che stridono in modo insopportabile con i gravissimi capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti dell’azienda.

Più simili a un film dell’orrore che a un grande classico per bambini, le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. I lavoratori venivano picchiati, legati e derubati di documenti e cellulari se osavano ribellarsi. Condizioni di semi-schiavitù imposte a una ventina di cittadini pakistani dipendenti di un’azienda trentina, utilizzati come manodopera nei magazzini di Grafica Veneta.

Per gli inquirenti il management dell’azienda di Trebaseleghe ne era perfettamente a conoscenza. per questo tra i provvedimenti presi ci sono anche gli arresti domiciliari per caporalato dell’amministratore delegato Giorgio Bertan e del responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton.

Le vittime, molte delle quali appena arrivate in Italia, venivano prelevate all’alba e costrette a lavorare fino a sera. Di fatto vivevano segregate in due abitazioni nelle vicinanze dell’azienda, ammassate e sorvegliate. Chi tentava di ribellarsi, provando a contattare i sindacati, veniva sequestrato, derubato di documenti e cellulare e brutalmente picchiato. Undici cittadini pakistani sono stati ritrovati ai bordi delle strade tra le province di Padova e Venezia, imbavagliati e con le mani legate dietro alla schiena.

A gestire questo sistema criminale due cittadini, anche loro pakistani, proprietari dell’azienda trentina BM Services, che offre servizi di confezionamento di prodotti per l’editoria. Colpevoli, secondo le indagini, anche di un tentativo di depistaggio, avendo falsificato le timbrature dei dipendenti in modo da far risultare turni di otto ore.

​​”Le responsabilità penali dei dirigenti di Grafica Veneta verranno accertate dalla magistratura” – il commento di Christian Ferrari, segretario generale Cgil Veneto, e Aldo Marturano, segretario generale Cgil Padova -. Ma quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù e privati dei diritti più elementari e perfino della libertà personale.

Come Cgil, abbiamo molte volte denunciato, e da anni, il fenomeno del caporalato, presente in Veneto soprattutto nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, della logistica. Ma il fatto che nemmeno una realtà considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia, secondo gli inquirenti, immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti e deve far agire le Istituzioni.

Il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni, ormai è chiaro, è un sistema malato, che si fonda sulla artificiosa frantumazione dei cicli produttivi, sulla forsennata ricerca della compressione dei costi, a partire da quelli del lavoro, e quindi sullo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori più poveri.

Anche in questo caso, infatti, si tratta dell’affidamento a terzi di un’attività che è parte integrante del ciclo produttivo diretto.

Sugli appalti pubblici abbiamo ottenuto importanti risultati nel confronto con il Governo, dobbiamo fare altrettanto anche sugli appalti privati.

A livello veneto, per sconfiggere il fenomeno del caporalato e di un’illegalità economica troppo diffusa, non basta l’azione delle Forze dell’Ordine e dei Magistrati, che vanno ringraziati per lo straordinario impegno con cui stanno operando. E non basta nemmeno il sindacato, che continuerà comunque a fare fino in fondo la sua parte. Occorre una presa di coscienza, e scelte conseguenti, di tutta la società, a partire dalle organizzazioni datoriali, che non possono tirarsi indietro in questa battaglia di civiltà.

Dalla pandemia e dalla crisi economica usciremo solo cambiando modello di sviluppo, e rimettendo al centro il lavoro libero, dignitoso e di qualità, non perpetrando le storture già tutte presenti nel nostro sistema ben prima dell’arrivo del Covid 19.

Fonte: www.collettiva.it