Di chi è “l’Italia peggiore”?

Converrà ricordare le parole che, nell’emiciclo della Camera, con tono stentoreo ed espressione insieme terrea e severa, la presidente del Consiglio ha usato in memoria del bracciante indiano Satnam Singh. «Una morte orribile e disumana». Conseguenza «dell’atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro». E poi, tutto di un fiato: «Dobbiamo dircelo: questa è l’Italia peggiore».

Giusto. Anzi, giustissimo. Questa è «l’Italia peggiore». E tuttavia, di quale Italia parla Giorgia Meloni? E a quale Italia parla?

Diciamolo usando altrettanta franchezza: parla della sua Italia. Quella di cui, dal primo giorno in cui si è insediata a Palazzo Chigi, fomenta risentimento e vittimismo e a cui ha garantito impunità fiscale (le tasse «pizzo di Stato»), protezionismo, corporativismo. L’Italia delle piccole patrie e dei mille egoismi, del «se l’è cercata». Quella che «non ne può più delle regole», dei controlli, magari anche di quelli rarefatti degli ispettori del lavoro. Quella del «padroni a casa nostra». Che «non va disturbata se vuole fare, disboscando la selva burocratica e amministrativa che penalizza».

La stessa cui con inqualificabile cinismo ha continuato a spiegare, fino all’ultimo giorno di campagna elettorale, che i migranti che muoiono nel Mediterraneo sono tutt’altro che disperati in fuga da guerre, carestie, miseria. Piuttosto, sono voraci migranti economici e dunque una minaccia per il nostro lavoro, le nostre case, le nostre «tradizioni». Come dimenticare la battuta a favore di telecamere in Albania: «Poveri Cristi? Seeeee».

Già, l’Italia peggiore. E dire che Giorgia Meloni conosce benissimo le campagne del basso Lazio e della provincia di Latina. E i tanti «schifosi» Lovato che le popolano (un imprenditore che mentre con la mano destra arruolava con il caporalato braccianti indiani da lasciar morire dissanguati nei suoi campi, con la sinistra incassava più di 800 mila euro di finanziamenti garantiti dallo Stato tra il 2020 e il 2023 per fronteggiare la crisi del Covid).

Le conosce quelle campagne non fosse altro perché sono storicamente una delle constituency della destra. Quella, anche geograficamente, custode dell’ortodossia e della memoria.

Le conosce lei quelle campagne, come le conoscono il sottosegretario al ministero del Lavoro che ha voluto nel suo governo, il leghista Claudio Durigon, il ministro dell’Agricoltura e “cognato d’Italia” Francesco Lollobrigida e il fidato compagno di partito oggi eurodeputato Nicola Procaccini.
Uno, per dire, che ancora nel 2020 aggrediva chi denunciava lo sfruttamento dei braccianti indiani nella campagna pontina, con argomenti pregevoli come questo: «L’Agro pontino non è l’Alabama dell’800. C’è integrazione».

La verità è che Giorgia Meloni sa bene che in quelle campagne, patria del caporalato, il lavoro del sindacato a tutela dei lavoratori è stato sistematicamente umiliato e aggredito da destra perché ritenuto un’intollerabile costrizione della “libertà di impresa”. E chi invoca o reclama diritti è stato aggredito e isolato come un vecchio arnese che puzza di sinistra.

Il punto, allora, è che a forza di cambiare freneticamente maschere e palcoscenici si finisce prima o poi per confondersi. O, forse, per illudersi di poter prendere per i fondelli tutti e sempre. Dimenticandosi che lingua si parla o si è parlata fino al giorno prima. E che si ricomincerà a parlare dal giorno dopo.

A Meloni capita sempre più spesso, prigioniera come è di un’idea rancorosa della politica e dell’ossessione del “nemico alle porte”. Si chiami sinistra, si chiami Europa, si chiamino migranti, famiglie omogenitoriali e più semplicemente tutto ciò che è diverso da sé. Un nemico cui naturalmente imputare il vuoto di politica, di tutele, di diritti che il governo continua a mostrare nella sua grottesca postura oscurantista. Come per altro le rimprovera, proprio sul terreno dei diritti, persino Marina Berlusconi, non certo una nota comunista.

La verità è che da presidente del Consiglio quale è, se davvero volesse onorare la memoria di Satnam Singh, Giorgia Meloni avrebbe una sola strada da percorrere. Semplice. Lineare. Trasparente. Tagliare il nodo gordiano che lega la sua avventura politica e le scelte del suo governo in materia di diritti, lavoro, diseguaglianze, a quell’Italia che oggi proprio lei definisce «peggiore».

Ma l’impressione è che anche questo sia un passaggio impossibile. Diciamo pure contro natura. Un po’ come dirsi antifascisti.

 

Articolo di Carlo Bonini su “La Repubblica” del 27/6/2024

 

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Un macigno sul cuore




L’ennesima prova: i giovani vogliono lavorare, non essere schiavi

Il caporalato dilaga anche dove non te lo aspetti. Come ad esempio alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama.

Gravissimi i capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti del gruppo. Le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. E pensare che solo qualche anno fa quella stessa azienda lamentava che non c’erano giovani a voler fare i turni. Di sicuro non volevano fare gli schiavi.

 


 

Il caporalato dilaga. Lascia il lavoro nei campi al quale più spesso è associato per scrivere l’ennesima pagina di sfruttamento là dove non te lo aspetti, alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, provincia di Padova, un’azienda di editoria e stampa di libri, famosa per aver dato alla luce anche i volumi di Harry Potter o bestseller quali la biografia di Barack Obama. Contenuti che stridono in modo insopportabile con i gravissimi capi di accusa nei quali è sfociata l’inchiesta resa nota nelle ultime ore. Rapina, estorsione, lesioni, sequestro di persona e sfruttamento di lavoratori stranieri, tutto il campionario della violenza fisica e psicologica applicata al lavoro, per il quale sono stati arrestati dai carabinieri nove cittadini pakistani e posti ai domiciliari due dirigenti dell’azienda.

Più simili a un film dell’orrore che a un grande classico per bambini, le cronache parlano di turni da 12 ore, pagati 4,50 euro l’ora. I lavoratori venivano picchiati, legati e derubati di documenti e cellulari se osavano ribellarsi. Condizioni di semi-schiavitù imposte a una ventina di cittadini pakistani dipendenti di un’azienda trentina, utilizzati come manodopera nei magazzini di Grafica Veneta.

Per gli inquirenti il management dell’azienda di Trebaseleghe ne era perfettamente a conoscenza. per questo tra i provvedimenti presi ci sono anche gli arresti domiciliari per caporalato dell’amministratore delegato Giorgio Bertan e del responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton.

Le vittime, molte delle quali appena arrivate in Italia, venivano prelevate all’alba e costrette a lavorare fino a sera. Di fatto vivevano segregate in due abitazioni nelle vicinanze dell’azienda, ammassate e sorvegliate. Chi tentava di ribellarsi, provando a contattare i sindacati, veniva sequestrato, derubato di documenti e cellulare e brutalmente picchiato. Undici cittadini pakistani sono stati ritrovati ai bordi delle strade tra le province di Padova e Venezia, imbavagliati e con le mani legate dietro alla schiena.

A gestire questo sistema criminale due cittadini, anche loro pakistani, proprietari dell’azienda trentina BM Services, che offre servizi di confezionamento di prodotti per l’editoria. Colpevoli, secondo le indagini, anche di un tentativo di depistaggio, avendo falsificato le timbrature dei dipendenti in modo da far risultare turni di otto ore.

​​”Le responsabilità penali dei dirigenti di Grafica Veneta verranno accertate dalla magistratura” – il commento di Christian Ferrari, segretario generale Cgil Veneto, e Aldo Marturano, segretario generale Cgil Padova -. Ma quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù e privati dei diritti più elementari e perfino della libertà personale.

Come Cgil, abbiamo molte volte denunciato, e da anni, il fenomeno del caporalato, presente in Veneto soprattutto nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, della logistica. Ma il fatto che nemmeno una realtà considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia, secondo gli inquirenti, immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti e deve far agire le Istituzioni.

Il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni, ormai è chiaro, è un sistema malato, che si fonda sulla artificiosa frantumazione dei cicli produttivi, sulla forsennata ricerca della compressione dei costi, a partire da quelli del lavoro, e quindi sullo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori più poveri.

Anche in questo caso, infatti, si tratta dell’affidamento a terzi di un’attività che è parte integrante del ciclo produttivo diretto.

Sugli appalti pubblici abbiamo ottenuto importanti risultati nel confronto con il Governo, dobbiamo fare altrettanto anche sugli appalti privati.

A livello veneto, per sconfiggere il fenomeno del caporalato e di un’illegalità economica troppo diffusa, non basta l’azione delle Forze dell’Ordine e dei Magistrati, che vanno ringraziati per lo straordinario impegno con cui stanno operando. E non basta nemmeno il sindacato, che continuerà comunque a fare fino in fondo la sua parte. Occorre una presa di coscienza, e scelte conseguenti, di tutta la società, a partire dalle organizzazioni datoriali, che non possono tirarsi indietro in questa battaglia di civiltà.

Dalla pandemia e dalla crisi economica usciremo solo cambiando modello di sviluppo, e rimettendo al centro il lavoro libero, dignitoso e di qualità, non perpetrando le storture già tutte presenti nel nostro sistema ben prima dell’arrivo del Covid 19.

Fonte: www.collettiva.it

 




Sugo amaro

LA BALLATA DEI BERRETTI ROSSI

Mattina presto, e i berretti rossi si radunano nella piazzola in attesa del caporale.

POMODORI PELATI IN LATTINA DA 500 g. A 0,65!

Il furgone verso i campi non ha finestrini e l’aria non entra ma è ancora fresco, di primo mattino, e si respira.

SOTTOCOSTO! PASSATA DI POMODORO A 0,78 EURO A BOTTIGLIA!!

Il sole è alto: nei campi roventi i berretti rossi tirano su pomodori, perché quel singolo euro di paga per ogni quintale fa gola a tutti.

INCREDIBILE! POLPA A PEZZI A 1,90 EURO PER TRE LATTINE DA 210 GRAMMI!!!

Fine della giornata e i berretti rossi risalgono sul furgone per tornare a casa: quella scatoletta di metallo ora è rovente e c’è odore di pomodori schiacciati a terra e sudore, e proprio non passa un filo d’aria.

SUGO PRONTO IN BARATTOLO A 2,30 EURO AL KG!!

Il furgone sbanda e poi frena, dentro tutti i berretti rossi finiscono l’uno sull’altro, poi il furgone sbatte contro qualcosa – che brutto rumore – e i berretti rossi cadono, e poi le lamiere si piegano, e poi…

POMODORI SAN MARZANO A 0,55 EURO AL KG!!

 

Roma, 7 agosto 2018

 

La Segreteria Nazionale FISAC Banca d’Italia

 

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Soumayla Sacko era pericoloso perché sapeva di essere uno schiavo

Una fucilata alla testa. Così è stato ammazzato, trucidato, eliminato Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali e sindacalista dell’Usb.

Soumayla non si rassegnava. Combatteva, lottava per la dignità dei braccianti della piana di Gioa Tauro e in particolare di San Ferdinando. Solo e sempre schiavi, pochi euro per dodici ore di lavoro, baracche, stenti, sofferenza e abusi. L’arroganza dei caporali, il controllo delle milizie e poi loro: i padroni ndranghetisti delle terre.

Soumayla Sacko come Placido Rizzotto e Pio La Torre. Un gigante, schiena dritta – senza se e senza ma – e lotta per i diritti. Restiamo umani.

E’ stato un agguato. Solo mafiosi infami e vigliacchi potevano compiere un atto di così vasta crudeltà. Neppure il coraggio di mostrarsi, affrontarlo. Niente. Ucciso a tradimento.

Avevano il terrore di incrociare quello sguardo. Occhi iniettati di sangue e quella rabbia antica. Soumayla Sacko era nel mirino. Lo aspettavano davanti a quella maledetta fabbrica abbandonata.

Quattro colpi esplosi contro tre inermi. Quel sindacalista di merda bisognava eliminarlo. Sempre e solo dalla parte degli ultimi. Rompeva il cazzo. Il fiato sul collo. Eccepiva, chiedeva e rilanciava: Soumayla Sacko lottava a denti stretti, era pericoloso. Sì, perché gli schiavi sono schiavi e non devono sapere di essere schiavi.

E Soumayla Sacko era instancabile e non si fermava. Era regolare, aveva un permesso di soggiorno, le carte erano a posto. In Italia da otto anni e sempre quel grande senso di giustizia tatuato nell’anima. Soumayla Sacko è Kunta Kinte del romanzo Radici.

Un sindacalista vero, un eroe, un giusto. Mentre si consumava – sabato sera – l’abominevole tragedia, immediatamente a tavolino veniva costruita l’infame menzogna: Soumayla Sacko con due complici stava rubando e chi ha sparato l’ha fatto legittimamente.

E mentre s’infiammava la protesta nei campi di San Ferdinando con lo sciopero dei braccianti e la rabbia di Aboubakar Soumahoro, dirigente nazionale dell’Usb, e una storia personale di resistenza cominciata a Napoli, nessun rappresentante del governo fasciopentaleghista si è sentito in dovere d’intervenire. Equilibri, mediazioni e ipocrisia a chili.

Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, era impegnato a difendere la dignità di altri lavoratori, i rider perchè : “Simbolo di una generazione senza tutele”. Stranamente, il loquace leader del Movimento 5 Stelle, suoi accolti e codazzo, su Soumayla Sacko non hanno trovato il tempo né di twittare, né di postare, neppure di un video, un hashtag, una dichiarazione di maniera, una nota. Nulla. Il silenzio assoluto.

Forse nel contratto non c’è scritto di dare la solidarietà ai neri oppure la ragion d’equilibrio di Stato con lo scomodo e ingombrante alleato consiglia di girare la faccia d’altra parte. E solo ieri il premier Giuseppe Conte nel suo discorso alle Camere ha dedicato un paio di frasi al giovane sindacalista rivolgendo il suo pensiero ai familiari. Alla fine il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha ragione da vendere. E’ finita davvero la “pacchia” illusoria: una buona parte di italiani, finalmente liberi, si vedranno così come sono sempre stati allo specchio, scoprendo che in fondo restano solo dei fascisti.

 

Articolo di Arnaldo Capezzuto pubblicato su www.ilfattoquotidiano.it