La disfatta dei paesi economicamente sottosviluppati dell’Africa

Partiamo da una asserzione spesso presente oggi sui social: se esporti armamenti nei paesi africani in via di sviluppo, poi, non puoi lamentarti di importare profughi.

Ora, per poter rendersi conto di cosa effettivamente accade oggi nei paesi sottosviluppati dell’Africa, occorre necessariamente ricorrere a qualche nozione di storia economica con particolare riferimento alla colonizzazione, la quale venne attuata tramite i due stadi del Capitalismo, ossia la fase del capitalismo mercantile e quello del capitalismo industriale. Possiamo ricordare il primo processo, che si svolge dal 1500 alla metà del 1700; esso fu reso avverabile grazie a rilevanti innovazioni nel campo della navigazione, che portarono a rendere possibile  tre propositi: la ricerca di oro (e di altri metalli preziosi),  la costituzione di empori per la vendita in monopolio di merci della madre patria e per l’acquisto di merci esotiche da rivendere solo nel paese colonizzatore, e la fondazione di piantagioni per produrre, per mezzo di schiavi,  merci coloniali (come zucchero, caffè, tabacco, cacao) da vendere poi nella madre patria.

E’ evidente che esiste una differenza sostanziale tra i paesi che si sono sviluppati per primi ed i paesi ritardatari; aggiungiamo che, purtroppo, con il passare del tempo si sono definiti freni sempre maggiori ad uno sviluppo industriale essenzialmente privato, come quello che abbiamo osservato in Inghilterra nel periodo a cavallo tra il 1750 e il 1850. Sappiamo che lo sviluppo avviene per stadi: nel primo, troviamo nel settore industriale diverse produzioni di base come l’elettricità, l’acciaio, il cemento, diverse produzioni chimiche e meccaniche, con produzioni di beni durevoli di consumo, mentre, nel settore dei servizi, troviamo ferrovie e servizi di credito di base;  nel secondo stadio troviamo lo sviluppo della agricoltura intensiva, il trionfo del commercio di beni di consumo durevoli,  le industrie tessili indirizzate verso la produzione di massa di tessuti di uso popolare, la diffusione delle automotive,  la rivoluzione nei trasporti, l’esplosione dell’edilizia e poi, nei tempi più vicini, l’affermazione delle comunicazioni radiotelevisive, dell’elettronica e dell’informatica. Ora, nei paesi ritardatari, una proporzionata offerta interna di prodotti e di servizi di base rappresenta uno dei prerequisiti dello sviluppo produttivo moderno. Possiamo pensare che, se i vantaggi dei paesi arretrati sono rappresentati dalla possibilità di accedere a sicure tecnologie e ad assodati metodi organizzativi efficienti e moderni, ai quali le regioni progredite sono arrivate attraverso prolungate evoluzioni, gli svantaggi dipendono da tre ordini di “progresso”: il salto della tecnologia, il salto del mercato e il salto imprenditoriale.

È evidente che questi salti sono stati notevoli soprattutto nei paesi che avviarono per primo uno sviluppo industriale moderno, come l’Inghilterra. Infatti, era stato possibile uno sviluppo graduale in tutte le industrie, date le conoscenze tecniche del tempo; era pacifico che anche aziende relativamente piccole fossero in grado di produrre in modo economico, cioè a costi inferiori ai prezzi di mercato, ed era quindi possibile un passaggio sequenziale, dalla piccola azienda artigianale con poche attrezzature e gestione familiare, all’azienda industriale basata sulle macchine. In sostanza, in questo processo di espansione non si incontrava la concorrenza di grandi aziende, che allora non esistevano, né in Inghilterra, né in altri paesi. Parallelamente, uno sviluppo graduale era possibile rispetto al mercato, questo perché le nuove aziende avevano a disposizione il mercato locale, nel quale si ampliavano a spese delle unità artigianali, le quali entravano in crisi. Inoltre, per espandere le vendite sui mercati esteri, le nuove aziende dovevano battere nella concorrenza i prodotti delle aziende artigianali di altri paesi con il perfezionarsi dei metodi produttivi, in una competizione facile in quanto i metodi usati dagli artigiani non mutavano nel tempo e questi fino ad un certo limite potevano difendersi soltanto con il vendere a prezzi decrescenti subendo di conseguenza redditi decrescenti. Poi, sotto l’aspetto sociale, era stata possibile la formazione graduale di imprenditori nel senso moderno della definizione, con capacità gradualmente acquisite di dirigere grandi aziende in molti rami della produzione.

Oggigiorno questo sviluppo graduale non è più possibile, in quanto vi è un salto imposto dalla tecnologia nei casi in cui, per produrre economicamente, le dimensioni delle unità produttive debbono essere grandi. Vi è poi un salto nella conquista del mercato perché il mercato locale, per certi beni, in certe aree, è già stato conquistato da grandi imprese moderne, le quali sono ubicate altrove e per competere con le quali occorrono una vasta organizzazione commerciale e costose campagne pubblicitarie. Stesso discorso se pensiamo alle esportazioni; anche in questo ambito le difficoltà sono ancora maggiori, perché si tratta di battere sui mercati esteri i prodotti di aziende moderne di altri paesi, che in quei mercati sono già affermati. Infine, citiamo la difficoltà di un salto nella formazione delle persone capaci di diventare imprenditori industriali.

Al principio del 1900, questi ostacoli potevano essere sorpassati dalle imprese private con un aiuto relativamente limitato e, in ogni caso, esterno diretto dell’autorità pubblica, soprattutto con infrastrutture e dazi protettivi; oggi, per le economie (africane) sottosviluppate, questi ostacoli sono divenuti così problematici da reclamare dei salti che le forze private locali trovano impossibile effettuare. Unica via azzardata per superare le difficoltà è stata quella che apriva le porte all’ingresso di grandi società straniere. Ma questa opzione ha posto nuovi problemi per i paesi africani economicamente arretrati, principalmente di tipo politico ed istituzionale, con rischi di inevitabili interferenze esterne e nuovi problemi economici legati allo sfruttamento della classe lavoratrice e delle risorse naturali.  Anche i tentativi di utilizzare come strategia di contenimento le società sussidiarie, ossia aziende locali che fanno parte di un gruppo internazionale, non hanno risolto alcun problema. È così che i sindacati che operano nel terzo mondo si sono ritrovati a dover cercare di adottare delle politiche tali da ridurre non solo i rischi economici, ma anche i rischi politici, registrando, purtroppo, che coloro che lavorano per conto di società a carattere multinazionale sono difficilmente raggiungibili e corporatizzati, perché isolati dal contesto generale di forte disoccupazione.

Possiamo sicuramente associarci a chi sostiene l’impossibilità di utilizzare la scienza economica occidentale ai paesi africani meno sviluppati, in quanto gli strumenti offerti sono risultati inapplicabili; ad esempio, possiamo ritenere che l’analisi keynesiana della sottoccupazione non si adatti ai paesi meno sviluppati. In questi stati, il rapporto tra esportazioni e il PNL (prodotto nazionale lordo) varia in maniera rilevante in relazione alla loro dimensione economica; in alcuni paesi, molto piccoli, esso supera il 50% e le loro esportazioni sono dirette prevalentemente ai paesi sviluppati. Esse consistono soprattutto di beni primari, che vengono dati in cambio di manufatti, carburanti e materiali industriali necessari per il funzionamento della economia e per lo sviluppo economico. Malauguratamente molti paesi sono specializzati in uno oppure in un piccolo numero di beni privati: ad esempio abbiamo l’economia del petrolio o l’economia delle banane, o del cacao, o del caffè. Inoltre, i proventi delle esportazioni ballano considerevolmente in conseguenza delle variazioni dei raccolti o dei prezzi mondiali o della domanda estera (che tende a diminuire per ragioni tecnologiche: pensiamo, ad esempio, ai materiali sintetici prodotti in numero crescente dai paesi avanzati, che sostituiscono le fibre e le altre materie prime). Come conseguenza, le variazioni delle esportazioni dei paesi meno sviluppati sono la causa principale di instabilità economica e, quindi, di crisi sociale e di crescita della povertà. Se aggiungiamo che molti paesi africani vengono indotti ad acquistare armi e condotti a praticare la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali, spesso causate dall’interferenza dei paesi imperialisti, ci rendiamo conto che non vi è alcuna possibilità per l’Africa (del terzo mondo) di riscatto dallo sfruttamento economico perpetrato dalle potenze capitalistiche.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Fisac Cgil Chieti




Seduzioni governative verso la “Supply Side Economics”?

John Fitzgerald Kennedy, in un messaggio all’ONU del 25 settembre 1961, nel periodo più caldo della guerra fredda, non ebbe paura di dire che “L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità”.

Lo stesso, nell’anno successivo, quando indusse l’industria siderurgica a ritrattare gli aumenti dei prezzi mentre il governo americano imponeva l’avvio di grandi iniziative pubbliche come le missioni spaziali, la guerra alla miseria ed i programmi assistenziali (medicare e medicaid), fece la seguente battuta poco edificante per il sistema economico degli USA: “tutti gli uomini di affari sono bastardi”.

Ora queste due affermazioni sembrano di grande attualità ed utilità in quanto ci portano a chiederci se è vero o non è vero che la guerra sia provocata dalla logica capitalistica del profitto a qualsiasi condizione e in qualunque modo.  Finita la guerra fredda, l’economia presenta una crescita economica lenta nel mondo industrializzato, unito alla stagnazione o addirittura alla flessione dei redditi della maggioranza dei lavoratori con una crescente disuguaglianza, segnale anche di una altra tendenza che rappresenterà anche essa un fattore scatenante della nuova crisi del capitalismo, ossia l’aumento insostenibile dell’indebitamento dei lavoratori medi.

Molti avevano riposto fiducia a fine secolo sulla nascita e sullo sviluppo dell’industria dell’high tech e della conseguente nuova economia di servizi, ma i fatti hanno dimostrato che anche su queste ha dominato l’ascesa del settore finanziario, con la sua prosperante supremazia sui settori dell’economia reale che producono beni e servizi e lavoro. Come soluzione l’America ha accantonato la ragione per lasciare spazio alla fede nella Supply Side Economics o economia delle offerte. Questa è divenuta la fede ufficiale della libera impresa abbracciata con entusiasmo dall’amministrazione Reagan. Infatti, gli economisti del supply side si erano impadroniti della politica fiscale USA sostenendo talaltro la singolare tesi che abbassare le imposte avrebbe stimolato (o incentivato, per usare il termine da essi amato e che oggi qualche nostro politico si pregia di utilizzare) l’economia ad un livello tale che un taglio colossale delle tasse (imposte dirette) avrebbe nientemeno determinato il pareggio di bilancio (ovviamente attuando anche forti riduzioni della spesa pubblica). In questa follia collettiva, spunta anche la figura populista dell’uomo d’affari, di un valoroso venuto su dal nulla, un vero eroe popolare del sistema della libera impresa in grado di aiutare tutti, comprese le minoranze etniche ispano-americane.

I fatti, ossia il forte aumento del deficit nazionale USA durante le amministrazioni Reagan e Bush, hanno smontato il caposaldo teorico della supply side economy, secondo cui riducendo fortemente le aliquote delle imposte sui redditi si stimolerebbe un conseguente aumento dei redditi e dei consumi al punto che, anche riducendo le tasse, il gettito fiscale sarebbe sufficiente a compensare tale riduzione. Quale che sia l’andamento della spesa pubblica, i tagli alle imposte da un lato possono forse stimolare la crescita dei redditi, ma dall’altro è certo che, aumentando i redditi disponibili, non si ottengano dei risultati soddisfacenti, in quanto i maggiori introiti vengono destinati dai lavoratori medio-alti sia alla spesa che al risparmio privato, e dai redditieri, nella nuova economia globale, principalmente per pagare l’importazione (di beni e servizi di pregio). A giustificazione di quanto detto è risultato che, durante la Presidenza Reagan, si è avuto un aumento del deficit pubblico e del disavanzo al bilancio commerciale (addirittura quadruplicato).

Ovviamente, questa politica, fornendo una scusa socialmente accettabile per ridurre le imposte, nel tranquillizzare le coscienze è divenuta un potente strumento per raccogliere consensi e finanziamenti per il partito repubblicano, in particolare tra le persone benestanti. Ora, possiamo dire che non sono in errore coloro che sostengono che la globalizzazione renda l’economia dell’offerta ancora più nociva per la collettività di quanto dimostri il suo recente passato perché il suo caposaldo, che si basa sulla tesi di imposte basse per stimolare l’aumento dei redditi e di conseguenza il gettito fiscale, è contraddetto dal semplice fatto che una percentuale considerevole del denaro non versata al fisco viene indirizzata sull’estero per l’acquisto di beni e servizi. Eppure sembra che, anche nei nostri giorni, il capitalismo nordamericano torni ad imporre ai paesi politicamente satelliti (deboli) questa azzardata politica economica. Infatti, su queste logiche siamo oramai bersagliati a casa nostra a livello mediatico dai partiti al governo, i quali rivendicano in continuità di avere effettuato il taglio delle tasse più importante degli ultimi decenni (vedi Ansa, il Sole 24 Ore, ecc.), arrivando a parlare di pizzo di stato e di condoni tombali, in una logica di meno tasse uguale più redditi per tutti.

Forse rammentare quanto accaduto nel recente passato in gran parte dei paesi dell’America Latina può essere illuminante.  L’Argentina, ad esempio, ha subito ripetute svolte reazionarie che hanno provocato violente tensioni sociali. Le dittature militari, instaurate con il supporto nordamericano, hanno seguito come obiettivo economico la riduzione drastica delle retribuzioni reali e una energica riduzione delle spese pubbliche, sia in termini di spese sociali, che di infrastrutture e promozione dello sviluppo industriale, in linea con la politica neoliberista ispirata alle teorie di Milton Friedman. Inoltre, sono stati progressivamente ridotti i dazi protettivi per facilitare le importazioni nordamericane, con conseguente flessione dell’industria manifatturiera e fallimento di un certo numero di imprese, il tutto per stremare un settore nel quale le masse operaie potevano ancora esercitare pressioni sulla classe dirigente. In sintesi, mentre da un lato si è prodotto il ristagno delle retribuzioni, la flessione dell’occupazione, l’arresto nello sviluppo dell’industria manifatturiera, dall’altro è stato dato un forte sostegno all’industria mineraria e all’agricoltura nelle mani del grande capitale, con un aumento dei redditi dei capitalisti e delle aziende familiari. Purtroppo sono diminuite le produzioni di beni di consumo popolare e sono aumentate quelle degli altri beni, in particolare dei beni di importazione.

In altre parole, la politica di sostituzione delle importazioni con produzione interne, che nel passato era stata seguita con successo, è stata soppiantata da una politica di sostituzione di certe produzioni interne con importazioni, e di conseguenza è cresciuto il deficit della bilancia commerciale. Questo deficit, per un certo periodo, è stato colmato da un afflusso netto di capitali che sono entrati nel paese, sia per la stabilità politica assicurata dalla dittatura, sia per gli alti guadagni attesi. Purtroppo, il forte spostamento del reddito nazionale a favore dei redditi capitalistici e contro i redditi da lavoro implica interessi crescenti e questo afflusso di capitali di debito ha comportato a mano a mano un enorme onere, sotto forma di un servizio del debito (per ammortamenti e interessi), che ha attivato una spirale che ha reso via via più critica la situazione economica del paese fino al fallimento. Non possiamo non ricordare che oggi tra i paesi con i più onerosi servizi del debito troviamo anche il nostro, il quale, nonostante il collocamento continuo dei titoli del tesoro, vive condizioni finanziarie difficili, poiché l’indebitamento con l’estero è principalmente la conseguenza di impieghi speculativi incentivati dagli alti interessi reali. E’ superfluo rammentare che la distinzione tra impieghi propriamente produttivi e impieghi speculativi è data semplicemente dal fatto che sono impieghi produttivi quelli che danno luogo ad un aumento del reddito nazionale, mentre sono investimenti speculativi quelli che in sé e per sé comportano solamente una redistribuzione del reddito a vantaggio di alcuni (capitalisti) e a danno di altri (la massa dei lavoratori consumatori), e non un suo accrescimento.

Morale della favola, la politica della riduzione delle tasse alle classi agiate (imposte dirette) e la tolleranza dell’evasione fiscale significa unicamente accettare di intraprendere un viaggio senza ritorno.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale
Fisac Chieti




Un mondo di governi pubblici deboli e di banche centrali private forti

Oramai si è diffusa l’idea che sono i dirigenti belle banche centrali che consentono al capitale di spadroneggiare. La tesi da molti sostenuta si basa sul fatto che le banche centrali, le quali sono quasi sempre enti privati, hanno di fatto sancito che, nella economia globalizzata del dopo guerra fredda, i lavoratori delle industrie e del terziario del mondo, ossia gli eredi “necessari” del capitalismo, debbano condurre una vita da miserabili. A supporto vengono mostrati i dati storici che mostrano che la loro politica è quella di tollerare tassi di crescita sostenuti (dal 5% in su) nei paesi emergenti e di respingere ogni tentativo di una crescita economica rapida nei paesi industrializzati, evidentemente per evitare gli effetti di un rialzo anche minimo del tasso di inflazione.

Molti sostengono che, invece che bilanciare gli interessi tra chi non dispone di un capitale di partenza (che possiamo definire i proletari del nuovo millennio, ossia, coloro che per vivere possono contare unicamente sulla retribuzione derivante dall’offerta a terzi del loro lavoro) e deve indebitarsi e chi possiede capitali da dare in prestito, hanno permesso che l’economia del mondo industrializzato fosse diretta in modo che gli interessi dei debitori, ossia delle maggioranza delle giovani famiglie di lavoratori subordinati,  venissero immolati agli interessi dei capitalisti creditori, cioè dei banchieri e di coloro che hanno vissuto e vivono dei capitali investiti nel mercato azionario.

Se osserviamo gli USA, verifichiamo che gli Stati Uniti stanno vivendo una fase storica in cui la finanza domina su tutto; al centro di questa strana cultura si colloca la borsa e come strumento di azione abbiamo i money managers, anziché le fabbriche e/o i laboratori di ricerca. Sembra che i laureati che vengono fuori dalle grandi scuole di amministrazione aziendale del paese (come Harvard o Stanford) si dirigano di corsa verso le banche di investimenti anziché orientarsi verso un lavoro nell’ambito della economia reale. Ora possiamo accettare con un buon grado di convinzione che storicamente la finanziarizzazione della società è stato un segnale che la posizione economica di un paese sia entrata in una fase di declino.

Alla metà del 1700 le élite olandesi (l’Olanda è il primo paese dove si afferma il capitalismo) erano ormai ridotte ad un piccolo gruppo di speculatori e di redditieri, i quali percepivano redditi non derivanti dal lavoro, ma da capitali (prestavano denaro a qualsiasi monarca). Poi la Gran Bretagna (secondo paese dove si è affermato con forza  il sistema capitalistico) si trovò in una fase simile nel primo decennio del 1900: mentre  la sua industria manifatturiera perdeva terreno, il settore dei servizi finanziari divenne estremamente forte e la sua élite di banchieri e rentiers, i quali controllavano quasi la metà dei capitali di rischio di tutto il mondo,  erano convinti che le attività e gli investimenti finanziari avrebbero neutralizzato qualsiasi crisi dell’industria (in particolare la tessile, la  siderurgica e la cantieristica navale, tridente vincente della produzione anglosassone). È evidente che questi finanzieri avevano torto marcio ed è sempre più chiaro che hanno torto anche coloro che oggi inneggiano alla saggezza delle borse.

Pressando su un ambiente economico in cui i tassi di interesse al netto dell’inflazione sono e permangono alti, i capi delle banche centrali del mondo industrializzato hanno rappresentato un gigantesco trasferimento di reddito dalle famiglie (e anche dalle piccole imprese) alle banche ed alle istituzioni finanziarie internazionali per agevolare la trasformazione del mondo del capitalismo industriale in un mondo del capitalismo finanziario e i lavoratori sono diventati le vittime di questo imbroglio. È assurdo, ma, vediamo molti lavoratori trasformati in una bizzarra modernità del ventunesimo secolo, in una classe di pseudo-capitalisti che fa il tifo per gli interessi del capitale, perché il lavoro non basta più a pagare le bollette, mentre gli investimenti borsistici, anche marginali, danno l’illusione di un futuro migliore.

Oramai tutti viviamo in un mondo di governi deboli e di banche centrali forti come conseguenza dell’emergere della nuova economia globale: nessun settore dell’economia è stato più rapido di quello finanziario nel trasformare la potente combinazione di globalizzazione e nuove tecnologie in una macchina per fare soldi (siamo in una nuova era del capitalismo finanziario). Da questo possiamo chiederci se i capi delle banche centrali del mondo, ai quali era stato affidato dai governi ancora sovrani il compito di tenere sotto controllo la finanza, non siano stati trasformati in schiavi dai capitalisti padroni del nuovo mondo della finanza. Ricordiamo che all’inizio degli anni 70, prima che l’economia globale fosse congiunta tramite la rete ai megabyte, l’ammontare totale in dollari delle transazioni finanziarie condotte dalle imprese degli Stati Uniti  sui mercati azionari nell’arco di un anno intero era inferiore al prodotto nazionale degli USA, ma dalla fine degli anni 90, grazie alle transazioni elettroniche, gli scambi dei settori  finanziari hanno raggiunto un volume annuo totale incomparabile con il volume d’affari dell’economia reale (anche se è nell’economia reale che ci si guadagna da vivere). In sostanza, sembra che con la fine della guerra fredda e l’emergere della nuova economia globale i leader del mondo finanziario abbiano rimpiazzato le gerarchie del complesso industriale militare nel ruolo di big dell’economia.

Dalla fine della guerra fredda Washington ha consacrato i suoi sforzi ad appagare le esigenze del settore finanziario, e con la deregulation finanziaria ha offerto alle istituzioni finanziarie la libertà di ampliare le proprie attività e – tra l’altro – di giovarsi  della capacità di effettuare prestiti ad interesse elevato. L’inclinazione ad assegnare poteri crescenti alle banche centrali è affiorata per effetto dell’inflazione determinata dalla politica del presidente Johnson in materia di finanziamento della guerra nel Vietnam, si è poi rafforzata dopo l’embargo petrolifero decretato dallo Opec nel 1973 e, dopo la fine della guerra fredda, le banche centrali hanno incominciato a guidare completamente la politica economica. La globalizzazione dei mercati finanziari non ha fatto che spingere le  banche centrali a tutelare gli interessi di credito; infatti i proprietari di capitali liquidi temono l’inflazione quindi, in un mondo dove il capitale può spostarsi velocemente e scarseggia rispetto all’eccesso di domanda di manodopera disponibile, si è riscontrato un trasloco di potere verso tutte le istituzioni che hanno un interesse ad evitare l’inflazione, come le banche e il mercato azionario, il quale è un mercato aperto dei prestiti, dominato dai creditori e che tende quindi a fare i loro interessi.

E’ noto che quando i prezzi salgono i debitori possono ripagare i loro debiti ai creditori in denaro svalutato e questo è il motivo per cui i creditori non vogliono l’inflazione, ma quando i prezzi calano, i debitori sono costretti a ripagare i debiti con denaro più costoso, cioè più difficile da acquisire e così, i creditori prosperano a spese dei lavoratori. E‘ evidente che se viene realizzata con un senso di equilibrio la stabilità dei prezzi è un obiettivo legittimo, ma vi è una enorme differenza tra il facilitare la stabilità dei prezzi e il sostenere la deflazione: vogliamo dire che i paesi del mondo industrializzato vengono obbligati a inseguire politiche economiche non coerenti con la stabilità dei prezzi, ma, unicamente deflazionistiche. Ma forse, è la storia dell’economia dalla fine della Seconda guerra mondiale che ci spiega che il lavoro, per prosperare, ha bisogno di un forte tasso di crescita economica e che non possiamo accettare i diktat del sistema finanziario globale e dei suoi mercati.

Non si può che sperare che siano in errore coloro che vedono le politiche seguite dalle banche centrali di oggi come una ripetizione di quelle perseguite negli anni 20 del secolo scorso: infatti, anche allora infuriava la stessa follia finanziaria, che oggi attribuisce ai banchieri centrali un monopolio sulla scienza delle finanze, e anche allora prevalevano politiche monetarie che si sono poi rivelate altamente deflazioniste. Poi non possiamo non ricordare che i sindacati erano deboli, ed anche oggi appuntiamo una certa debolezza delle organizzazioni sindacali nei paesi industrializzati, senza contare che i redditi da capitale sono in aumento rispetto ai redditi da lavoro e che la distribuzione dei redditi si realizza sempre più disuguale come registrato negli anni venti.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




Un Governo miope di fronte alla disoccupazione strutturale

Se ci chiediamo perché la produzione del 2023 è molto più alta di quella realizzata nel 1923 possiamo con facilità rispondere sostenendo che oggi noi possiamo produrre molto di più, perché abbiamo a nostra disposizione più capitale reale, più persone, più fonti di energia e, soprattutto, una tecnologia avanzata ed una divisione del lavoro settoriale ed internazionale evoluta. Negli ultimi cento anni, non vi è stato solo un accrescimento quantitativo dei fattori di produzione, ma principalmente un miglioramento qualitativo. Non vi è dubbio che oggi abbiamo a nostra disposizione beni capitali molto sofisticati, perché il progresso tecnologico si è in parte concretizzato nella creazione di nuove specie di beni, sia di consumo, che di produzione (pensiamo, ad esempio, ai robot ed alle intelligenze artificiali).

Ora la capacità produttiva di un paese dipende in generale dalla quantità e dalla qualità dei fattori di produzione, dal grado di divisione del lavoro, dal livello della conoscenza tecnologica e della sua applicazione. La quantità di lavoro disponibile è influenzata dalla crescita della popolazione ed esso rappresenta un fattore di offerta nella misura in cui concorre a determinare la capacità produttiva.  Purtroppo, nel processo di crescita non conta solo la quantità, ma anche la qualità del lavoro; questo significa che l’evoluzione della istruzione e della formazione professionale può essere considerata, dal punto di vista economico, come un grande investimento in capitale umano, e questa è la politica da seguire per costituire uno dei metodi più efficaci per assicurare la crescita del reddito nazionale nel lungo periodo. E’ evidente che il progresso tecnico si riferisce alle modificazioni che hanno luogo nell’utilizzazione dei fattori di produzione (ossia il lavoro ed il capitale) che permettono di ottenere una maggiore produzione oraria per addetto; occorre, però, aggiungere che il progresso tecnico genera miglioramenti qualitativi oltre che quantitativi, come risulta evidente se consideriamo il grande numero di prodotti nuovi che sono stati creati.

Ora, quanto abbiamo appena messo in chiaro, ci consente di giungere ad una definizione più ampia di progresso tecnico intendendo per esso tutte le innovazioni che portano ad una modificazione dei modi e dei tempi di produzione. Da qui deriva la necessità di esaminare con particolare attenzione i rapporti che intercorrono tra il progresso tecnico e il livello di occupazione. Ricordiamo con interesse che nel quadro teorico sviluppato da Carlo Marx il progresso tecnico avrebbe prodotto una elevata disoccupazione, ossia la progressiva sostituzione di capitale (più produttivo grazie allo sviluppo tecnologico) al lavoro e avrebbe, secondo Marx, provocato il licenziamento di un numero sempre maggiore di lavoratori. A questo proposito, anche per comprendere meglio quanto accade oggi intorno a noi, bisogna imparare a saper distinguere tra questo tipo di disoccupazione (quella attuale che a noi interessa) e la disoccupazione ciclica, per capirci quella di cui amava parlare l’economista John Maynard Keynes. Ora, nel caso della disoccupazione ciclica l’insufficienza della domanda aggregata provoca sicuramente la sotto occupazione dei fattori produttivi (lavoro e capitale), ma, nel caso che si verifica nei nostri giorni con la presenza di un capitale tecnologicamente avanzato, la disoccupazione è causata dal licenziamento della manodopera dovuto proprio al progresso tecnico (si tratta, in termini economici, di una modificazione che ha luogo dal lato dell’offerta e che produce disoccupazione). Questa disoccupazione, che possiamo chiamare tecnologica, è un caso particolare di disoccupazione strutturale, che si manifesta violentemente nel nostro paese. La previsione di Marx secondo la quale il capitalismo, sotto la influenza del progresso tecnico, avrebbe comportato una diffusa disoccupazione non si era completamente realizzata nei secoli passati, in quanto il progresso tecnico, pur realizzando la riduzione della manodopera (e in altri casi la riduzione del capitale), con la produzione di nuovi beni capitali era riuscito, in una economia non globalizzata, ad assorbire una maggiore domanda di lavoro nel processo produttivo.  Ma oggi esplodono nuovi problemi (occupazionali) che derivano dalla riconversione e dalla presenza di una disoccupazione strutturale, in particolare in alcune regioni del mondo (come nel Mezzogiorno di Italia).

Comprendiamo che spesso fare una distinzione tra gli aspetti congiunturali e quelli strutturali non è facile, infatti non sempre è possibile tracciare un confine effettivo ma un buon Governo, per essere tale, dovrebbe prendere piena consapevolezza di questa sventura sociale che ha colpito il nostro paese, per prendere gli opportuni provvedimenti. In sostanza, in politica economica è necessario saper riconoscere gli aspetti congiunturali e strutturali per attuare i provvedimenti più efficaci. Un buon Governo, ripetiamo,  deve distinguere il tipo di disoccupazione con cui abbiamo a che fare oggi e non parlare di disoccupazione keynesiana che, ribadiamo, ha origine da una insufficienza della domanda aggregata.  Per dirla tecnicamente:  nel caso di cui noi ci dobbiamo interessare, l’accumulazione non è un evento capace di occupare tutti i lavoratori, perché tutto ciò che avviene non è causato da una domanda fluttuante, ma, deriva da un disequilibrio dal lato dell’offerta, con una disoccupazione che non è di tipo congiunturale, ma di tipo strutturale. Questo significa che in generale l’adozione di una politica del lavoro capace di attenuare le ripercussioni negative del progresso tecnico sull’occupazione richiede una visione di lungo periodo, particolarmente attenta alla evoluzione strutturale del sistema economico e la creazione di capitale associata all’industrializzazione attraverso le partecipazioni statali (aziende di Stato). E’ questa la giusta soluzione per ristabilire l’equilibrio sul mercato del lavoro e per assorbire le grandi quantità di lavoro inoccupato presenti nel paese. Siamo convinti che il male della disoccupazione congiunturale possa essere curato con vecchie ricette, come quelle che prevedevano un aumento della spesa pubblica con esecuzione di lavori pubblici (spesso improduttivi) da parte dell’amministrazione pubblica, per rimettere in circuito fattori di produzione stagnanti ma, nello stesso tempo siamo consapevoli che per affrontare il problema della disoccupazione strutturale occorre richiedere  una politica più orientata, che non miri tanto all’aumento delle spese ma, piuttosto alla eliminazione delle strozzature del sistema produttivo attraverso una politica selettiva di reindustrializzazione con aziende pubbliche.

In conclusione, non possiamo esimerci dal far presente che l’andamento della produzione nazionale, ossia l’aumento del PIL, non si riflette necessariamente in un aumento o in una diminuzione del benessere degli individui; noi siamo convinti che il benessere dipenda dal livello di soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi. Per esprimerci in maniera più chiara utilizziamo un banale esempio: se prendiamo in esame la scelta sempre più diffusa di aumentare la produzione lavorando il sabato e la domenica, in questo caso possiamo sostenere che l’incremento produttivo così realizzato costituisce solo un incremento nella produzione economica ma, per la nostra valutazione, avremo una crescita inferiore rispetto alla scelta di avere due giorni di vacanza in più, in quanto per noi il lavorare il sabato e la domenica riduce il benessere dei lavoratori e, quindi, della collettività. Questo per dire che, anche se in generale la produzione nazionale pro-capite è assunta come unico criterio per misurare la crescita, non bisogna attribuire a questo criterio un valore assoluto. A maggiore conferma, si considerino le ripercussioni negative sull’ambiente derivante dall’incremento delle produzioni; nell’ottica del benessere è infatti necessario esaminare anche le diseconomie esterne connesse all’incremento della produzione, come l’inquinamento dei fiumi, dovuto agli scarichi industriali, l’inquinamento atmosferico, il rumore e  la distruzione della natura in genere.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti 

 




Il lavoro diventa una merce

Per l’insegnamento universitario corrente l’economia viene mostrata come la teoria della scelta umana tra beni scarsi, per cui sono possibili usi alternativi, e l’interazione dei beni attraverso lo scambio (la divisione del lavoro ha portato alla massima specializzazione della produzione e, di conseguenza, agli scambi delle merci prodotte tra i vari agenti economici).

Questo modo di affrontare il problema (in termini capitalistici) pone l’accento più sullo scambio che sulla produzione, e tende, quindi, ad escludere lo studio dei rapporti economici tra le classi e il processo di sviluppo dell’economia nel suo complesso. Possiamo affermare che il processo di produzione, ossia il processo lavorativo, è quel processo attraverso cui il lavoro trasforma i materiali forniti dalla natura in ricchezza: esso si presenta come il processo di trasformazione della natura per servire ai bisogni umani.

Fin dall’alba della storia gli uomini hanno prodotto non individualmente, ma insieme ad altri uomini. La società antica, la società feudale e la società borghese, sono caratterizzate da complessi rapporti di produzione ed ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità. L’elemento che causa e determina i profondi mutamenti sociali, attraverso cui passa la storia umana, è il mutamento nelle forze produttive, cioè le variazioni negli strumenti di produzione e nelle capacità e nelle tecniche della gente che li usa. Da notare che le varie forme di società non differiscono solo per i diversi metodi di produzione in vigore, ma anche per il fatto che i rapporti tra gli uomini e tra le classi, cioè i rapporti sociali tra gli uomini, sono diversi.

I rapporti sociali entro i quali gli individui producono (i rapporti sociali di produzione) si modificano; dunque, mutano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società ad un grado di sviluppo storico determinato.

Il capitalismo è un sistema di produzione sociale all’interno del quale ci sono sfruttatori e sfruttati: i capitalisti e i lavoratori.
Per la classe lavoratrice lo sfruttamento è il punto di partenza nello studio dell’economia politica, per i capitalisti il punto di partenza è come mantenere la ricchezza ed il dominio ed è da questo punto di partenza che affrontano i problemi dell’economia. Ora i processi economici sono alla base di tutti gli altri processi sociali; l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base sulla quale si costruisce una sovrastruttura giuridica e politica ed alla quale si collegano forme determinate della coscienza sociale Secondo la nota concezione materialistica della storia, il fattore che, in ultima istanza, è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale: ossia noi facciamo noi stessi, la nostra storia, ma decidono in ultima analisi le condizioni economiche, anche se le condizioni politiche esercitano una loro funzione non determinante (lettera di Engels a Bloch Joseph 21/09/1890).

Nella cosiddetta società mercantile semplice esistevano i presupposti della divisione del lavoro; in esso la divisione del lavoro era prevalentemente costituita da una divisione per prodotto, cioè, il falegname faceva il tavolo intero e non un pezzetto di tavolo, così il calzolaio con le scarpe; il mercato si era esteso, ma era ancora basato su una produzione che serviva prevalentemente in modo diretto per il consumo. Un classico esempio di questo rapporto diretto è il lavoro su ordinazione prevalente in questo tipo di società (mercantile). Infine, ed è la caratteristica maggiormente rilevante, il produttore era anche proprietario delle merci che egli portava nel mercato.

La realtà sociale è poi mutata; ad un certo momento, la società mercantile semplice si trasforma, per proprie leggi di sviluppo, in società capitalista di prevalente concorrenza. La storia economica ci ricorda che ad un certo momento si sono riscontrati molti fenomeni, come l’aumento della produzione, il sorgere della produzione di massa per il mercato, un aumento della produttività del lavoro, una maggiore divisione del lavoro e, al sorgere di nuovi strumenti di produzione, tutti questi fenomeni si sono tra di loro dialetticamente collegati; cioè essi sono espressione e causa di un nuovo sistema economico che andava sorgendo.

Tra i vari fenomeni che hanno accompagnato lo svilupparsi della società capitalistica e che sono compresi sotto il nome di rivoluzione industriale, l’introduzione della macchina ha avuto una primaria importanza. Infatti, la rivoluzione industriale fu caratterizzata da grandi scoperte nella tecnica produttiva che, al posto degli strumenti di produzione animati dall’energia motrice dell’uomo, introdussero dell’energia motrice indipendente, come l’acqua prima e il vapore dopo, che resero possibili nuovi processi lavorativi  ed un aumento colossale delle quantità prodotte: cioè, in sostanza, un aumento della produttività del lavoro.

Possiamo dire che la rivoluzione industriale fu un insieme grandioso di fatti economici tra di loro dialetticamente collegati e non un semplice fatto tecnico; vi fu senza dubbio una relazione dialettica tra sviluppo tecnico delle forze produttive e sviluppo dei rapporti economici. Anzi su questa relazione dialettica, cioè non meccanica di causa ed effetto, Carlo Marx basò la sua concezione del progresso economico e sociale. La stessa e sola scoperta della macchina a vapore non ha significato di per sé la rivoluzione industriale; tale scoperta avvenne e la rivoluzione industriale si verificò perché si svolse in un particolare ambiente economico, nacque cioè nell’ambiente che esigeva il modo di produzione capitalistico. Ricordiamo che dal 1600 in poi si sono sviluppati ed hanno prevalso i rapporti capitalistici, dove, ad esempio, vediamo l’imprenditore commerciale che spossessa dalle materie prime e  dagli oggetti di lavoro l’artigiano medievale, il quale viene estromesso dal mercato globale. Si era sviluppato il lavoro a domicilio e in certi rami la fabbrica manifatturiera, che raccoglieva insieme gruppi di lavoratori. In pratica, con la scoperta e la introduzione delle macchine si spossessa definitivamente il lavoratore anche dello strumento di lavoro, ossia del mezzo di produzione, e si rende necessario il raggruppamento dei lavoratori nelle fabbriche originando una grande differenza tra gli stessi produttori capitalistici e tra questi e gli artigiani.

Successivamente il capitalismo, cioè la divisione in classi, si consolida e diviene perfetta: il capitalista industriale diventa il protagonista dello sviluppo economico e il capitale condizione necessaria alla crescita economica. Affinché il capitalista possa impiantare le fabbriche che vuole e dove vuole e che vi sia la libertà di produzione, si rende necessario eliminare  i vincoli corporativi medioevali. Nella società mercantile semplice esisteva una differenza tra i vari produttori, queste differenze erano limitate però, perché si riferivano in prevalenza a differenza nelle qualità umane, che come è noto non sono forti. Ad esempio, se noi ci mettiamo a fare una corsa, noi correremo più o meno con la stessa velocità; al contrario, se uno si mette a correre in bicicletta e noi a piedi, la differenza diventa molto maggiore e questa differenza avrà la sua importanza nel determinare le leggi del mercato e dello sviluppo economico. Ma, il fatto economico più importante diviene la dissociazione nella produzione tra coloro che detengono i mezzi di produzione e quelli che hanno soltanto la forza lavoro. Questo è il fatto fondamentale che determina non soltanto i rapporti diretti del mercato, ma determina la dinamica economica e lo sviluppo del sistema. Esso caratterizza il sistema capitalistico di produzione: il produttore vero, il lavoratore, è stato spossessato storicamente prima dell’oggetto di lavoro, poi anche, dello strumento di lavoro e l’unico produttore diviene il capitalista. Ma se ci chiediamo chi è il produttore nella società capitalista, la risposta per noi è che il vero produttore è chi lavora, ossia chi mette in moto le macchine e questa è una premessa logica e non deve essere mai dimenticata. Produttore in senso sociale e, quindi, sempre il lavoratore, colui che mette in moto gli strumenti di produzione nell’economia capitalistica; però, dato che gli strumenti di produzione sono in mano ad un determinata categoria, che noi chiamiamo capitalisti, si genera la convinzione (e si parte dalla premessa comune in tutta l’economia accademica) che produttore sia il capitalista e gli altri siano fattori della produzione o consumatori. Dal punto di vista della logica capitalistica ciò è vero in un concetto generale, in quanto il processo produttivo si mette in moto se il capitalista, che ha i mezzi di produzione, lo mette in moto; in sostanza, il produttore nel capitalismo è chi ha i mezzi di produzione, che sono posseduti da una categoria di persone distinta dalla categoria di coloro che materialmente li adoperano, e così tanto i mezzi di produzione, che il lavoro, diventano oggetti di scambio, ossia merci; acquistano, in questo modo, carattere di relazione di scambio, non solo le relazioni tra proprietari di merci, ma anche le relazioni tra proprietari di mezzi di produzione e non proprietari dei mezzi di produzione o proletari.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti

 

Per approfondire: Il lavoro al di fuori della logica capitalistica




La questione morale in un Paese alla deriva

Non possiamo non essere d’accordo con chi sostiene che i doveri generali dei cittadini verso lo stato siano principalmente tre:

  • il rispetto delle leggi e delle autorità
  • il dovere di pagare i tributi
  • il dovere di difesa della patria (da nemici interni o esterni).

E’ evidente che il non rispettare le leggi significa impedire la sicurezza e la prosperità dello Stato, poiché cessa il bene comune quando le azioni dei cittadini non sono più armonicamente coordinate a conseguire lo scopo sociale (automaticamente si deve rispetto anche alle autorità, cioè agli uffici che curano l’esecuzione delle leggi).

I tributi devono considerarsi come il corrispettivo dei vantaggi che tutti i cittadini ricavano dallo Stato; è necessario che ognuno paghi le imposte stabilite affinché l’autorità pubblica possa adempiere ai suoi uffici e provvedere a tutte le opere di pubblica utilità.

I cittadini hanno il dovere di intervenire alle elezioni e di scegliere i rappresentanti tra le persone competenti ed oneste, che abbiano voglia e tempo per consacrarsi all’amministrazione pubblica. Gli elettori politici devono accorrere alle urne e non coprire la propria pigrizia ed indifferenza con le solite parole che un voto più o meno non fa nulla; dovremmo tutti votare deputati persone che, per capacità, moralità e dignità civile siano degne di sedere nel Parlamento, persone, cioè, che mettono innanzi alle questioni di partito l’interesse dei cittadini e vogliono esercitare l’ufficio di deputato per il bene comune e non per ambizione o interesse personale; persone, quindi, che devono avere il coraggio civile di resistere alle beghe elettorali, di dare i loro voti a governi  meritevoli.
I deputati e senatori, che sono chiamati a discutere le leggi ed a regolare i grandi interessi materiali e morali della nazione, devono assiduamente intervenire alle sedute, ponderare i bisogni dello Stato, per vedere con quali mezzi il Parlamento possa provvedere, studiare le questioni e nelle discussioni esporre con franchezza la propria opinione, devono votare secondo la propria coscienza, mettendo da parte gli impicci di partito e gli interessi personali, non astenersi dalle votazioni in aula per non avere fastidi o per vigliaccheria. Chi non si sente capace di tanto dovrebbe avere la lealtà di rinunciare all’incarico, piuttosto che non esercitarlo ovvero esercitarlo in modo riprovevole. Il dovere di tutti i funzionari dello Stato, dal più alto al più umile, si riassume in questo: esercitare secondo coscienza le cariche dello Stato in maniera che sia raggiunto lo scopo per il quale la carica è stata loro affidata, ossia per il bene pubblico.

Purtroppo, prendiamo atto che il politico tende ad avere una doppia coscienza, una usata per giudicare le azioni private e l’altra per giudicare le azioni pubbliche. Si diventa non poco scrupolosi nell’adempimento di questioni private e non si guarda poi tanto per il sottile allorché si tratta di esercitare una carica pubblica, che essi oramai considerano più che altro come mezzo del proprio benessere. Questo per dire che ci si salva nella gestione domestica, ma si diventa pessimi cittadini nella gestione pubblica. Tutto deriva dalla cattiva educazione civile, per la quale non si considera che nell’uomo non si può separare la condizione di individuo da quella di cittadino e l’obbligo di perfezionare se stesso dal dovere di adoperarsi ugualmente al bene dei concittadini e dello Stato in generale.
Forse non sbaglia chi sostiene che possiamo additare il dovere d’ogni pubblico ufficiale allo Stato sostenendo che la carica pubblica è il modo pratico e concreto di adoperarsi per il bene della nazione. Sempre più spesso sentiamo parlare in Italia di questione morale dei partiti politici e di assenza di ogni morale da parte della gran parte dei nostri politici, con giudizi estremi carici di rabbia e di risentimento. Ma siamo sicuri di avere le idee chiare su questo delicato campo?

Forse la prima cosa da fare è riflettere su che cosa è (o dovrebbe essere) l’atto morale. Per cercare di avere una maggiore luce nella nostra mente,  proviamo a porci la seguente semplice domanda:  In che consiste l’atto morale?

Possiamo cominciare con l’osservare che le azioni materialmente prese, ossia considerate isolatamente (in se stesse) sono neutre: non sono né morali, né immorali; essi diventano tali in quanto si riferiscono ad altri individui ai quali possono giovare o nuocere. Quindi, la moralità di un’azione dipende, in primo luogo, dalla conformità ad un diritto altrui e, poiché il diritto, sia di un individuo sia di una società, in generale è protetto da una legge, possiamo affermare che la moralità dipende dalla conformità alla legge. Ma forse non basta solo una azione; probabilmente opera anche la volontà del soggetto operante.
In sostanza, affinché una azione possa dirsi morale o immorale è necessario che derivi dalla spontaneità dell’individuo (da una azione cosciente e volontaria): è l’intenzione che guida il soggetto ad operare. Quindi, a costituire l’atto morale entrano elementi oggettivi e soggettivi: l’elemento oggettivo è  indipendente dal soggetto ed è il rapporto tra l’azione e la legge della società civile; l’elemento soggettivo è la coscienza dell’opera. Entrambi sono necessari a costituire i fatti morali e da ciò nascono l’imputabilità della responsabilità dell’uomo. E’ imputabile una azione quando si deve ascrivere a chi l’ha commessa, quando, cioè è volontaria ed è volontaria quando l’uomo, avendo coscienza di ciò che opera, si determina a fare certi atti per conseguire un fine previsto e stabilito.
Tutto questo per poter affermare che uno degli elementi che costituiscono l’onestà di un atto è la conformità alla legge, la quale come regolatrice di costumi, chiameremo legge morale. Ora, è utile farsi una seconda domanda, ossia chiediamoci: ma, in che consiste la legge morale?

Il fine dell’uomo è il bene dell’individuo in armonia con il bene della società. L’uomo sente la necessità morale di governare le proprie azioni in maniera che ne derivino il bene proprio e il bene altrui. Quindi, ciò che si dice legge morale, noi lo possiamo definire come la necessità di governare le nostre azioni in maniera che il bene individuale sia in armonia con il bene degli altri. Da ciò deriva che la società umana deve difendersi da coloro i quali possono riuscire pericolosi all’esistenza ed al benessere sociale e ciò essa la fa punendo i colpevoli attraverso una Sanzione, la quale è un ufficio di repressione del reato. In pratica, la società si muove come ogni essere vivente, che guidato dall’istinto guida di conservazione si difende contro chi minaccia la propria esistenza.

E’ evidente che per avere la sanzione abbiamo la necessità delle leggi positive o civili, cioè di alcuni obblighi che l’autorità sociale impone al cittadino; obblighi i quali hanno per scopo di regolare le azioni di cittadini in maniera che ciascuno possa esercitare i propri diritti per il bene proprio e per il bene sociale. Come gli individui hanno costituito le famiglie, così le famiglie riunendosi insieme, per un interesse comune, hanno dato origine ad un’altra aggregazione che possiamo definire come la società civile, la quale è l’unione di più famiglie (e città) soggetta alla medesima autorità e regolata dalle stessi leggi.

La necessità della società civile è dimostrata dal bisogno dell’uomo, il quale ha riconosciuto che la famiglia non era sufficiente al perfezionamento umano e che la civiltà può essere solo il risultato dello sforzo comune di grandi consorzi, nei quali ciascuno, con mezzi differenti e coordinati, intente al bene comune (pensiamo alla divisione del lavoro). L’umanità si perfeziona quando in quei grandi consorzi, che si dicono società civile o politica, i cittadini attendono a cose diverse. Passiamo, ora, a porci una terza domanda, ossia, ci chiediamo: ma che cosa è la società civile?

Essa è un consorzio perenne di uomini, donne, famiglie e città che vivono sotto leggi comuni. Risalendo alle origini del genere umano, vediamo che: il bisogno della propagazione della specie ha costituito la società coniugale, la necessità di allevare la prole ha condotto l’uomo alla società domestica, poi, l’aumentare della famiglia e la molteplicità dei matrimoni, la necessità di dividere il lavoro nei terreni, hanno reso più complessi i consorzi umani che si sono raccolti in società patriarcale, in cui più famiglie vivevano insieme sotto la dipendenza della famiglia madre.
La società patriarcale era formata di soli parenti e gli uomini e le donne lavoravano per loro stessi, per i figli e per i nipoti, ma le esigenze di produzione di maggiori alimenti portarono alla formazione delle proprietà collettive su grandi estensioni di terreni, i quali venivano suddivisi e lavorati da varie famiglie, che si unirono in tribù. Queste tribù dovettero governarsi o per federazione di padri di famiglia, formando una specie di aristocrazia, o per mezzo di un capo supremo eletto tra i guerrieri più forti.
Dalle tribù è breve il passaggio alla nazione, che possiamo definire l’insieme di tutti quegli uomini che hanno in comune la lingua, le tradizioni e la patria (ossia, il territorio nel quale si svolge la vita della nazione). Alla società civile occorre un potere supremo, ossia, un’autorità sovrana a cui dovranno sottostare tutti i cittadini e questo potere si concretizza nel governo, il quale è il mezzo con il quale la società civile regola e garantisce l’esercizio della libertà dei cittadini.  Il governo deve limitarsi alle azioni civili, vale a dire agli atti dell’uomo come cittadino, senza intromettersi nelle azioni private, che non riguardano affatto la convivenza sociale.

Ciò che più importa per il retto funzionamento di un governo rappresentativo è che si determinino le attribuzioni di ciascuno dei tre poteri dello Stato in maniera che nessuno possa invadere il campo dell’altro.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti




La guerra fredda tra Capitale e Lavoro

La guerra tra Capitale e Lavoro, alimentata durante quattro secoli di capitalismo, aveva trovato in Occidente, alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, un compromesso (di frequente astioso), che è durato fino alla caduta del muro di Berlino.

l rapporti che legavano tra loro il Capitale europeo e il Lavoro europeo vengono di fatto esplicitati nel mondo durante l’età florida dell’imperialismo, ossia nel periodo compreso tra la seconda metà del 1800 e l’inizio della prima guerra mondiale (1914): in questo periodo si assiste ad una integrazione economica dei paesi sottosviluppati, sotto forma di Colonia, in un sistema economico mondiale dominato dai paesi industrializzati. Negli Stati Uniti fu l’età dell’oro, che vide la nuova economia industriale estendersi fino ad abbracciare l’intero continente dietro la spinta del capitalismo verso la supremazia economica. In sostanza, gli eredi speciali di quel titanico sistema economico del capitalismo e delle tecnologie, le quali si sviluppavano con esso, continuarono ad essere degli europei e la loro filiazione in terra americana, grazie alla emigrazione di milioni di persone (in particolare tra il 1850 ed 1910), principalmente scozzesi, irlandesi, polacchi, tedeschi, italiani e portoghesi.

E’ fondamentale osservare che, oltre al movimento delle persone verso gli USA, ci fu anche il movimento di capitali, cioè di fondi usati per investimenti nelle attività economiche; in tal modo negli Stati Uniti si ebbero cospicui flussi di risorse per finanziare le costruzioni di canali, di ferrovie e di industrie di ogni genere, vista la grande produttività realizzata dai lavoratori per la straordinaria ricchezza dell’agricoltura nella zona temperata del Nord America. Se ripercorriamo un poco la storia, non abbiamo difficoltà nel ricordare che una enorme riserva di manodopera era divenuta utilizzabile da parte del Capitale europeo durante i quattro secoli di espansione dell’economia dell’europa occidentale a partite dalla scoperta del continente americano. In ogni era di sviluppo successivo del capitalismo, a partire dai Paesi Bassi e dall’Inghilterra prima e poi dalla Germania dagli Usa, le tecnologie venivano continuamente modernizzate e implementate, ma, il beneficio derivante da questi cambiamenti tecnologici era sempre a vantaggio di europei bianchi. Gli interessi del Capitale europeo reclamarono esplicitamente l’esigenza che fossero degli europei ad amministrare la Compagnia delle Indie Orientali inglese e la Compagnia delle Indie Occidentali olandese; essi ebbero bisogno di soldati europei per imporre il loro ordine in America Latina, nel subcontinente Indiano, e per dominare la Cina. Negli USA, il Capitale occidentale rendeva disponibili nuovi posti di Lavoro, ma, erano soprattutto i lavoratori occidentali a trarre grandi benefici da ciascun nuovo passo in avanti, mentre per i lavoratori provenienti dalle colonie vi erano solo i duri lavori manuali nelle ferrovie e nelle fabbriche. Gli immigrati europei potevano contare sull’istruzione migliore e, di conseguenza, ebbero accesso a salari migliori rispetto a paesi industrializzati del continente europeo, come l’Inghilterra.

Se confrontiamo la condizione di quanti vivevano del proprio Lavoro in Inghilterra con quelli dei lavoratori residenti nel Nord America troviamo forti differenze legate al fatto che i redditi dei lavoratori dipendevano dalla scarsità relativa di ciò che essi avevano da offrire, e, siccome in Inghilterra la manodopera abbondava, chi era costretto a vivere con i frutti del proprio Lavoro si trovava sotto una tirannia economica, dove la rendita e il profitto divoravano i salari e i capitalisti opprimevano i lavoratori. Al contrario, nelle nuove colonie i vantaggi economici legati all’attività produttiva costringevano i capitalisti a trattare i lavoratori in modo più generoso e umano. Infatti, vi erano terre incolte della massima fertilità accessibili a prezzi bassissimi la cui messa in produzione realizzava un aumento delle rendite dei latifondisti, ma, questo grande profitto non si poteva ottenere senza impiegare il lavoro di tante persone, necessarie per il disboscamento e la coltivazione della terra, e la sproporzione tra la grande estensione della terra e il piccolo numero di abitanti rese difficile ai capitalisti il procacciarsi la manovalanza, e, pertanto, il Capitale fu disposto a impiegare manodopera a qualsiasi prezzo per lunghi periodi.

Questo spostamento contemporaneo di Lavoro e Capitale produsse una élite economica globale in cui potevano accedere per lo più solo europei bianchi; i non europei (ossia la manovalanza afroamericana, messicana e cinese) vennero impiegati solo in occasione di improvvise carenze di manodopera nazionale, specie nelle fasi di forte espansione economica che andarono dal 1870 al 1920. I manovali cinesi vennero impiegati a tempo determinato per la costruzione delle ferrovie americane, mentre gli afroamericani negli Stati del Sud continuarono a lavorare i campi anche dopo la fine della guerra civile e solo dopo lo scoppio della prima guerra mondiale passarono nell’industria del nord lasciando il posto come manodopera agricola ai messicani. Gli economisti capitalisti vedono in questo periodo una specie di paradiso, una rapida espansione economica alimentata dal torrente di invenzioni e innovazione proliferate nelle ultime fasi della rivoluzione industriale, con una ottima combinazione tra stabilità monetaria, determinata dalla parità aurea e stabilità di prezzi, causato dalle vendite delle derrate alimentari provenienti in grandi quantità dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Australia, dalla nuova Zelanda e dalla Argentina.

Il periodo compreso tra le due grandi guerre ha segnato un passo indietro rispetto alla dipendenza dell’economia globale: la parità aurea è stata gradualmente abbandonata e i diversi paesi hanno adottato politiche commerciali protezionistiche, applicando tariffe doganali, contingentamenti e altre restrizioni, nel tentativo di sostenere l’occupazione interna con conseguenze disastrose da ogni punto di vista. Alla fine della seconda guerra mondiale i paesi che componevano l’alleanza vittoriosa, per ripristinare una fiorente economia a livello internazionale, hanno dato vita ad alcune istituzioni (fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale) ed accordi generali sulle tariffe doganali che hanno portato, tra il 1945 e il 1955, ad un crescita vigorosa dei fondamentali economici nei paesi del blocco occidentale.

Con la fine della guerra fredda, abbiamo il trionfo globale del capitalismo e la diffusione del libero mercato ai quattro angoli del pianeta. Di conseguenza, il Capitale occidentale avvia una fuga verso i paesi in via di sviluppo e decide che non ha più bisogno di portarsi dietro i bianchi europei occidentali, preferendo utilizzare lavoratori professionisti dell’ Europa orientale e dell’Asia altamente motivati, pieni di talento e meno costosi. Infatti, l’esistenza di sistemi scolastici di impronta socialista (combinata con curricula professionali messi insieme lavorando all’estero) ha prodotto, nei paesi in via di sviluppo, popolazioni di élite avide di buoni impieghi. Il risultato di tutto questo è la fine di 400 anni di simbiosi tra Capitale e Lavoro del mondo occidentale, infatti, mentre la mobilità della manodopera occidentale è diminuita ai minimi livelli, la mobilità del Capitale ha fatto un salto di qualità con una nuova capacità del Capitale di spostarsi qua e là per il mondo senza tirarsi dietro il lavoro dei manager, dei dirigenti e dei tecnici, travolgendo per la prima volta i tradizionali concetti economici. In sostanza, nella vecchia economia globale Capitale e Lavoro procedevano insieme, nella nuova economia globale il Capitale del mondo industrializzato galoppa da un punto all’altro del pianeta con una facilità prima impensabile e coloro (appartenenti allo storico blocco occidentale) che si guadagnano da vivere con il proprio Lavoro restano oggi a casa smarriti, con redditi stagnanti e instabilità occupazionale.

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti

 

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Lavoro: Governo dove sei?

Purtroppo, dobbiamo con rabbia ammettere che per i più giovani il lavoro in Italia è spesso un traguardo difficile da raggiungere.

Ai politici di oggi, che in massima parte vivono in un mondo lontano dalla realtà quotidiana, possiamo dire che oggi abbiamo bisogno di realismo: dobbiamo oltrepassare le sterili critiche sul rapporto fra giovani e mondo del lavoro, prendere atto che le occasioni di impiego non sono adeguate e le opportunità lavorative sono scarse o limitate.

Parliamo con superficialità di flessibilità e di adattabilità, dimenticando che i giovani oggi non disdegnano il lavoro manuale, che in una società informatizzata e  sempre più virtuale può essere anche stimolante, ma si limitano a  rifiutare lo sfruttamento e la mancanza di valorizzazione. Giustamente hanno paura di tutto ciò che li possa intrappolare in condizioni di precarietà, dove né l’impegno né la competenza vengono riconosciute. I giovani di oggi accettano ogni tipo di impiego,  anche quelle attività che non siano coerenti con la preparazione posseduta, sono disponibili a “pedalare” sotto la pioggia e il freddo o sotto la calura estiva, chiedendo solo che essi siano discretamente pagati.

Il Papa non ha paura di dichiarare che il lavoro è una dimensione irrinunciabile alla vita sociale perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per esprimere se stessi e per vivere come popolo. Il Papa insiste sul fatto che i giovani devono avere contratti dignitosi, i quali devono salvaguardare i tempi e gli spazi in famiglia, Egli proclama che il riconoscimento della dignità umana passa dalla promozione del lavoro.  

Molti si interrogano su chi attribuire la colpa di questa squallida situazione. Non è solo una questione di “crisi economica”, il problema principale sono i limiti strutturali del mercato, con  poche occasioni, con contratti a breve e precari, poi viene la preferenza amorale data ai raccomandati dalla politica, male storico del nostro paese, poi la minore esperienza nel mondo del lavoro, la concorrenza degli immigrati comunitari ed extracomunitari oramai in tutti le categorie economiche, e le regole troppo rigide per l’ingresso nel mondo del lavoro, con le giovani donne che rimangono le più penalizzate.

E’ il sistema economico nel quale viviamo che si ispira a fondamenti errati e falsificati, come la notissima teoria di Adamo Smith, che nel lontano 1776 promulgò l’articolo primo della costituzione capitalista, decretando che  ognuno facendo i propri interessi (per egoismo, per tornaconto) contribuisce all’interesse collettivo. Ci hanno così imposto teorie che hanno provocato solo disastri. Questo signore, tanto osannato e riverito, aveva nella sua “grande magnificenza”  dimenticato una metà del mondo, quella femminile, che  non agiva mossa dall’egoismo individuale, che produceva con efficienza in famiglia e nei lavori agricoli.

Se poniamo attenzione sul rapporto tra donne e lavoro sentiamo l’urgenza di rivalorizzare il ruolo delle donne,  che la teoria economica capitalista ha negato per secoli, non riconoscendo, né dando un valore reale (economico) al lavoro delle donne, che tra le mura domestiche hanno mandato avanti il mondo.

Non commette errore chi sostiene che ad oggi in Italia solo una donna su tre ha un lavoro regolarmente retribuito, ovviamente al di sotto della media europea.

Essere mamma oggi è una sfida alla resistenza, se pensiamo al sostegno alla maternità assicurato nel nostro paese o  al numero degli asili o al progressivo abbandono dei disabili e degli anziani da parte delle istituzioni.

Ma il governo sembra ignorare tutto questo, preferendo ragionare secondo “dati” Istat.

 

Antonello Pesolillo 
Presidente Assemblea Generale Fisac Chieti